rivista anarchica
anno 43 n. 384
novembre 2013





Ascoltando Fabrizio ad Algeri

Intervista a Amara Lakhou di Renzo Sabatini


Amara Lakhous è uno scrittore algerino che vive in Italia.
Da anni si occupa di migrazione in qualità di narratore, antropologo e reporter.
Secondo lui bisognerebbe ascoltare De André in Oriente come in Occidente.
Perché affronta tematiche universali e perché è un antidoto contro l'intolleranza.


Amara Lakhous: algerino ma vivi a Roma dal 1995. Laureato in filosofia ad Algeri e in antropologia culturale a Roma. Come giornalista hai lavorato sia per la radio nazionale algerina che per varie radio italiane. In Italia ha già pubblicato due libri1. Insomma, una vita a cavallo di due culture, una vita da migrante, come quella di tanti che in questo momento ci stanno ascoltando. Parlaci un po' di te: chi è Amara Lakhous?
Io sono un viaggiatore. Vivo in Italia da circa tredici anni e sono, per così dire, alla scoperta dell'Italia del futuro. Oggi qui in Italia ci sono tantissime comunità di immigrati e qui ho conosciuto albanesi, bengalesi, senegalesi e tanti altri. Quindi oggi, in Italia, c'è questa grande opportunità di conoscere il mondo intero in un solo paese. Io faccio parte di questa bellissima, straordinaria esperienza.

Quindi tu hai scelto l'Italia per questa sua particolare situazione storica?
Non esattamente. Sono venuto in Italia alla fine del 1995 perché in Algeria, in quel periodo c'era il terrorismo e come tanti altri intellettuali ho avuto problemi, minacce. Quando sono arrivato in Italia posso dire di aver ricominciato a vivere, dopo un'esperienza molto dura, molto difficile. È stato un po' il destino a farmi ritrovare qui, perché in quel periodo era molto difficile uscire dall'Algeria, ma ho avuto la grande fortuna di avere un amico italiano, al quale ho dedicato il mio primo romanzo italiano2. Sto parlando di Roberto De Angelis3, un antropologo e grande studioso dell'emigrazione in questo paese. Lui mi ha aiutato, mi ha mandato un invito con il quale sono riuscito a uscire dall'Algeria ed è così che sono arrivato in Italia. Avrei subito potuto scegliere di andare in Francia, come hanno fatto tanti altri, perché parlo il francese e l'Algeria ha rapporti importanti con la Francia. Ma ho preferito rimanere qui. Mi sono detto che quella dell'Italia sarebbe stata per me un'esperienza nuova mentre in Francia ci sono già un milione di algerini e quindi sarebbe stato come vivere in Algeria. Io avevo bisogno di conoscere una nuova realtà, una nuova lingua, una nuova cultura. Oggi so che ho fatto molto bene, è stata una decisione molto saggia.

Hai menzionato il tuo libro che, in Italia, è stato pubblicato col titolo: Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio, ma in Algeria è invece uscito col titolo: Come farti allattare dalla lupa senza che ti morda. Tu sei riuscito a farti allattare oppure la lupa ti ha morso?
È una questione aperta! Finora mi è andata molto bene. Perché io qui mi trovo molto bene, Roma è la mia città. Quando parto, addirittura quando vado ad Algeri, ho una grande nostalgia di questa città. Amo questa gente, amo la lingua, l'italiano. Per cui sono in realtà davvero felice. Direi che la lupa non mi ha morso, mi ha solo abbracciato.

Meno male! Il tuo libro è una sorta di giallo psicologico che qualcuno ha paragonato al Pasticciaccio di Gadda. La critica, mi pare di capire, lo ha accolto molto positivamente. Con il pubblico invece com'è andata? Che tipo di italiano legge il tuo libro?
L'accoglienza è stata straordinaria. Io vado molto spesso nelle scuole in giro per l'Italia a parlare con i ragazzi, ho fatto vari incontri, ricevo delle mail da persone di diverse età. Insomma, mi sembra che questo libro abbia toccato un po' tutti. Proprio in questi giorni è uscita la nona ristampa a due anni dalla prima, quindi il libro continua a interessare e questa per me è una grande soddisfazione. La cosa curiosa è che adesso è uscita l'edizione francese e sotto questa veste è tornato in Algeria. Quindi l'ho scritto in arabo, l'ho riscritto in italiano, è stato tradotto in francese dall'italiano e adesso è ritornato nel mio paese dopo aver fatto questo giro, in cui l'italiano ha finito per essere la mediazione fra le diverse lingue. Di questo sono veramente felice. Presto uscirà negli Stati Uniti e in Olanda anche un film in inglese tratto dal mio libro4. Sono davvero contento.

E l'Australia?
Magari, mi piacerebbe molto arrivare anche lì. Mi interessa molto perché è un paese di grandi migrazioni. Io considero l'immigrazione un fatto molto positivo, anzi straordinario. Ho avuto la fortuna di conoscere gli immigrati italiani in altri paesi e conoscere la comunità italiana in Australia sarebbe una bellissima esperienza5.

Tu ti sei occupato di immigrazione come mediatore culturale e come studioso ti sei occupato della questione della prima generazione di immigrati islamici in Italia. Questa tua esperienza di vita la ritroviamo anche nelle pagine del libro?
Non c'è dubbio. Anzi, è proprio una cosa che rivendico. Il libro è frutto della mia esperienza, della ricerca, dello studio. È proprio grazie alle esperienze che ho fatto qui a Roma che ho scritto questo libro. La mia scrittura è sempre frutto di una ricerca e questo mi permette anche di dare chiavi di lettura. L'Italia sta diventando un paese di immigrazione e questo è un cambiamento epocale che avviene nel giro di pochi anni e quindi servono strumenti per analizzare e capire questa realtà e anche per poter proporre delle soluzioni perché questi cambiamenti certamente portano cose molto positive, però ci sono anche degli aspetti negativi, che sono tipici e che accompagnano sempre l'immigrazione. L'immigrazione ha un risvolto molto positivo anche in termini di sviluppo attraverso le rimesse degli immigrati. Basti pensare ai bengalesi, pakistani e marocchini che mandano molti soldi nei paesi d'origine, producendo ricchezza e sviluppo. Però c'è il risvolto negativo della criminalità e della marginalizzazione. Questi problemi vanno affrontati.

Amara Lakhous

Un processo aperto

Nel tuo romanzo c'è una galleria di personaggi, sia italiani che stranieri. Ognuno espone la sua verità su un delitto che è stato commesso e così vengono fuori tante sfaccettature, tante versioni, però sembra sempre che la verità, nel suo senso più profondo, sfugga. Accanto alla questione della verità, che ha sempre molte facce, mi è sembrato di vedere fortissimo il tema dell'identità, che ciascuno dei personaggi sembra quasi cercare come negazione dell'identità dell'altro. La tua è un'indagine sulla verità, sull'identità o sulla condizione del migrante?
La mia indagine riguarda tutti e tre questi aspetti. Il mio è un romanzo che ha tanti piani di lettura. Certamente il discorso della verità è molto presente, perché io ritengo che la verità sia un mosaico. Non basta un pezzetto per capire il tutto, quindi abbiamo bisogno di più verità. Questo mi consente di mettere in discussione i vari estremismi, perché gli estremismi rivendicano il monopolio della verità mentre io sono per la pluralità religiosa, culturale, politica: questa secondo me è la sostanza della democrazia. Poi c'è il discorso dell'identità che è veramente di grande attualità. Molto spesso c'è una banalizzazione del concetto, quando l'identità viene presentata come una ricetta gastronomica, come una cosa chiusa e statica. Io, basandomi sulla mia esperienza personale, di osservatore privilegiato (perché gli strumenti di studio che ho acquisito mi rendono privilegiato), ritengo che l'identità sia invece un processo aperto, influenzato costantemente da nuove esperienze. Questo ci dà la possibilità di studiare, approfondire, analizzare la realtà italiana odierna. Io, anche se non ho la cittadinanza italiana, mi considero italiano, o almeno in parte italiano. Per forza! Parlo, penso, amo, leggo in italiano; mangio all'italiana e frequento italiani. In questa mia vita attuale c'è ben poco di algerino, tanto che quando torno in Algeria mi sento un po' ospite, un po' straniero, mentre qui in Italia mi sento a casa. Questo è il destino del mio essere ma questo vale anche per gli altri immigrati. Chi viaggia acquisisce elementi nuovi e, per forza di cose, deve rinunciare ad alcuni elementi della sua cultura di origine. I vostri ascoltatori, gli immigrati italiani in Australia, certamente capiscono molto bene cosa intendo dire.

Colpiscono molto i personaggi italiani del tuo libro, tutti così diversi fra loro, colti soprattutto nei loro aspetti regionali, nei campanilismi esasperati. Sembra che tu gli italiani li abbia studiati a fondo, a differenza di altri scrittori che a volte ci identificano sulla base di stereotipi un po' tristi e scontati, che generalmente ci infastidiscono6. Tu come li vedi gli italiani? Pensi che esistano, oppure esistono più che altro i romani, i milanesi, i napoletani... tutti diversi e a volte anche ostili fra loro?
In generale io considero sempre la diversità come una risorsa, non come una minaccia. Anche perché se ci assomigliassimo tutti sarebbe una noia! Certo, la diversità comporta dei rischi, come per tutte le cose della vita bisogna anche assumersi delle responsabilità, le cose vanno gestite, non vanno lasciate al caso. Per cui io questa diversità italiana la considero una grande ricchezza e proprio in questo senso vivere in Italia è una grande opportunità, perché è un paese molto ricco sul piano culturale. Il fatto che ogni paesino abbia le proprie tradizioni, la propria gastronomia, la propria lingua, anche la propria arte, per me rappresenta una ricchezza straordinaria.

Ahmed, il protagonista principale del tuo libro, un algerino che tutti credono italiano, riflette su certi atteggiamenti di intolleranza subiti nella storia dagli immigrati italiani, che sono poi gli stessi atteggiamenti che oggi molto spesso subiscono gli stranieri immigrati in Italia. Il tuo protagonista conclude con questa considerazione un po' amara: “Gli italiani non hanno imparato nulla dalla loro storia”. Credi che sia una caratteristica propria degli italiani o qualcosa di più generale? In fondo anche i personaggi non italiani del tuo libro hanno tutti qualche pregiudizio. Ad esempio c'è il bengalese Iqbal che odia i pakistani.
Ritengo che la questione dell'amnesia sia un problema grandissimo. Perché se uno non fa pace con se stesso, se non elabora la sua memoria, diventa difficile stabilire rapporti sereni con gli altri. Purtroppo oggi in Italia c'è questa amnesia: si tende a dimenticare che nel corso di un secolo venticinque milioni di italiani hanno lasciato questo paese. Ma si tende anche a dimenticare l'emigrazione dal meridione, che è un fatto molto recente. Ci si dimentica che ancora negli anni sessanta e settanta si potevano trovare dei luoghi con il cartello: “Non si affitta a meridionali”. Gli stessi identici annunci li troviamo oggi, diretti agli stranieri extracomunitari. In Italia ci sono difficoltà enormi per elaborare questo passato. L'Italia rispetto ad altri paesi europei avrebbe questo grande vantaggio, perché è l'unico paese che ha vissuto sulla propria pelle cosa significa emigrazione ma, purtroppo, questa esperienza non è stata ancora valorizzata e uno degli obiettivi di noi scrittori emigrati è proprio questo: cercare di fare questo lavoro sulla memoria. Se non lo fanno gli italiani, allora dobbiamo farlo noi.
Recentemente ho preso parte ai lavori della Commissione Affari Costituzionali del Parlamento, che sta svolgendo un'indagine sul tema della sicurezza. Io e altri intellettuali siamo stati invitati, dopo mesi di lavori, per portare il nostro contributo. Il mio intervento si è concentrato sulla concezione della sicurezza in collegamento con la questione dell'immigrazione. Ho fatto riferimento al tragico caso della signora Reggiani7, uccisa da un immigrato rom qui a Roma, che ha dato luogo a una vera e propria caccia alle streghe, con dibattiti televisivi sulla delinquenza degli immigrati, per cui gli immigrati non diventano ma nascono delinquenti, per cui tutti i rom sono delinquenti.
In quell'occasione ho recuperato un fatto di cronaca che risale al 1896, un fatto accaduto in Tunisia, durante la colonizzazione francese. In quel caso una giovane francese venne uccisa da un pescatore siciliano e all'indomani dell'omicidio si scatenò una campagna contro tutti gli italiani. Ecco che ci troviamo di fronte allo stesso meccanismo: un uomo commette un reato e invece di essere punito lui solo viene condannata tutta la comunità cui appartiene. Si tratta di un fatto estremamente negativo e grave, perché la civiltà ci insegna che la responsabilità è sempre individuale e non può mai essere collettiva.

La copertina dell'edizione italiana
del libro di Amara Lakhous

Dal particolare all'universale

I tuoi personaggi, spesso trascinati dagli eventi, un po' inconsapevoli e un po' incolpevoli, ricordano da vicino i personaggi delle canzoni di De André, specie quelli della Città vecchia, che: “Se non sono gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo”. Difatti tu De André lo hai citato più volte nel tuo libro. Come mai a uno scrittore algerino viene in mente, nel suo primo romanzo noir in italiano, di citare proprio il cantautore genovese?
Definire Fabrizio De André come un cantante lo trovo riduttivo. Per me è un grande poeta che ha cantato la libertà e mi trovo molto d'accordo con lui rispetto alle tematiche su cui insiste, sul suo cantare gli emarginati, i ribelli. Poi c'è tutto il lavoro che ha fatto sugli idiomi locali, che mi interessa molto perché la lingua è un contenitore importantissimo di creatività. In fondo è la stessa cosa che ho cercato di fare io nel mio romanzo, lavorando su tre idiomi, napoletano, romanesco e milanese.

Per questa trasmissione mi è capitato di intervistare un albanese che ha avuto guai con la giustizia italiana e che ne è uscito anche grazie alle canzoni di De André8. Lui ci raccontava che De André può benissimo essere ascoltato da un albanese perché i suoi temi e i suoi personaggi sono universali. Condividi questo punto di vista? La poetica di De André può essere apprezzata anche nel Maghreb?
Non ho dubbi in merito perché la grande arte consiste proprio in questo: nasce in un ambito locale ma diventa universale. Come nel caso di Fabrizio De André. Le sue canzoni affrontano temi che hanno a che vedere con l'umanità, hanno il carattere dell'universalità. Per cui non mi stupisce questo miracolo di De André con il ragazzo albanese.

Ma anche se affronta tematiche universali non potrebbe essere che lo faccia da un punto di vista troppo locale? Non potrebbe essere “troppo italiano”, oppure “troppo occidentale”, per essere apprezzato pienamente da culture molto diverse?
No, Fabrizio De André era un grande artista e i grandi artisti superano i confini della propria cultura. L'etichetta nazionale diventa riduttiva. Noi diciamo che era italiano solo per semplificare. Però in realtà appartiene al mondo. Oppure potremmo dire che appartiene a tutti quelli che lo ascoltano e che lo amano, a prescindere dalla cultura. Questa in fondo è l'arte, detto in termini semplici.

Si usa dire che De André ha restituito dignità alle prostitute, ai drogati e così via. Secondo Stefano Benni le canzoni di De André sono un antidoto contro ogni genere di intolleranza. Tu pensi di poter condividere questo pensiero?
Certamente. Oggi purtroppo una parte dell'immigrazione in Italia è legata alla prostituzione. Se cammini a Roma la sera lungo la via Salaria o lungo la via Cristoforo Colombo, vedi ragazze giovanissime, spesso minorenni, svestite, al freddo, costrette a prostituirsi. De André aveva già da molto tempo annunciato la sua solidarietà. Come anche io sono solidale con queste ragazze che sono costrette a subire la prostituzione e sono solidale con tutti coloro che subiscono un'ingiustizia.

De André era molto interessato alla cultura e alla musica dell'altra sponda del Mediterraneo e fece alcuni viaggi nel Maghreb per approfondire alcuni aspetti. Nel disco Crêuza de mä, cantato in un genovese antico, sostiene di utilizzare una lingua “figlia dell'Islam”, perché contiene migliaia di vocaboli di origine araba. Nell'ultima tournée, presentando i pezzi della Buona novella, parlava del rispetto con cui l'Islam guarda a Gesù, in opposizione al disprezzo con cui i cattolici spesso guardano al profeta dell'Islam. Tu come vedi questi atteggiamenti, in questi tempi in cui si parla sempre di contrapposizione netta fra Occidente e Islam?
Quello di De André è un punto di vista, una lettura della realtà estremamente originale che si pone anche decisamente controcorrente. Per me quindi De André, quando dice queste cose e quando canta certe cose, diviene come un ponte fra le culture, un ponte che noi dobbiamo assolutamente rivendicare. Sarebbe bello farlo conoscere anche nel mondo arabo. Perché noi sappiamo che molto spesso oggi si parla di scontro di civiltà, di incompatibilità fra le due sponde del Mediterraneo, tra due mondi opposti, tra Islam e Occidente. De André invece è un testimone straordinario che ci ricorda che i punti in comune ci sono, c'è una storia comune. Certo, c'è la diversità, ma la diversità è una ricchezza e la ricerca di De André sul piano musicale e artistico lo dimostra ed è una grande lezione.

Insomma sarebbe potuto diventare una specie di ambasciatore del dialogo fra Islam e Italia?
Lo è. Lo dobbiamo solo promuovere. Invece di concentrarci sulle divergenze, sui problemi, dovremmo concentrarci su quello che ci accomuna. De André è un esempio e sarebbe bello farlo conoscere nel mondo arabo, organizzare degli incontri, tradurre i suoi testi. Questo sarebbe molto importante.

Ecco, supponiamo che tu ti trovassi un giorno a tradurre De André in arabo per un cantante algerino: quali canzoni si adatterebbero meglio? Pensi che servirebbe una traduzione letterale oppure ci sarebbe bisogno di utilizzare parole diverse per esprimere gli stessi concetti nella tua cultura?
Certamente non sarebbe facile tradurre quelle canzoni, anche perché sono testi complessi, che hanno alla base tutta una serie di esperienze, di ricerche. Comunque io punterei molto sulle canzoni che affrontano tematiche universali. Quelle canzoni che affrontano temi che, quando le ascolti, non puoi fare a meno di dire: “Mi riguardano”. La vita, la morte, il dolore... ma anche le canzoni in cui si parla di prostitute, perché anche la prostituzione è un tema universale.

Libera circolazione

In appunti personali che sono stati pubblicati postumi, De André ha scritto: “l'aspetto più inumano della nostra società è che gli uomini valgono meno delle monete. Il mercato del denaro è libero, gli uomini invece no: prima di presentarsi ai punti di imbarco devono attraversare oceani di carte bollate. Ma chi produce questa ricchezza? Gli uomini! Che però si dividono in due categorie: quelli che approfittano del denaro e quelli che devono restare fermi e controllati”. Mi sembra che in questa considerazione si esprima molta vicinanza ai problemi degli immigrati, di cui si parlava prima. Ancora oggi molti lavoratori stranieri sono costretti a restare irregolari perché non hanno potuto fare le carte bollate di cui parla De André. Che ne pensi?
È una bellissima constatazione e poi io ci sono passato... Sono molto d'accordo con lui e mi rammarico del fatto che queste cose che ha detto De André purtroppo non trovano spazio nei media e che quindi si tenda a dimenticarle. In realtà questa frase è una fotografia esatta della realtà odierna in cui gli uomini sono trattati esattamente così e il denaro purtroppo, molto spesso, vale assai più di un uomo.

Nel tuo libro il protagonista, Ahmed, cita un verso di De André tratto dal Cantico dei drogati: “Come potrò dire a mia madre che ho paura”. Perché hai scelto proprio questo verso? Ti serviva in quella particolare costruzione narrativa oppure è perché è un verso che ti è caro?
Sono vere entrambe le cose. Perché in questo verso c'è il rapporto con la madre e c'è la paura. E molto spesso la madre è un rifugio dalle nostre paure. È un verso stupendo, veramente stupendo.

Ma in definitiva qual è la canzone che preferisci di De André?
C'è solo l'imbarazzo della scelta. Se proprio devo dare una indicazione di preferenza direi La guerra di Piero.

Proviamo a fare un po' di fantagiornalismo. Lo scrittore Lakhous vince un premio letterario e alla premiazione si trova seduto proprio a fianco di De André che è venuto ad assistere. Lui ovviamente si è letto il tuo libro e ti fa i complimenti. Tu che cosa gli rispondi?
L'unica parola che gli direi è: grazie. E poi mi piacerebbe ascoltarlo.

Ahmed detto Amedeo, ovvero l'algerino che tutti scambiano per italiano, quanto ti somiglia?
Be', un poco mi somiglia, ci sono dei punti in comune. Però non è un personaggio autobiografico. Il romanzo resta comunque un incontro tra realtà e finzione e c'è molta immaginazione.

C'è invece un personaggio di De André nel quale ti potresti in qualche modo riconoscere?
Prima accennavo alla Guerra di Piero. Il rapporto con un personaggio può essere di identificazione, di immedesimazione; ma può essere anche un rapporto di rifiuto, nel senso che certi personaggi è meglio evitarli. Io condivido lo spirito pacifista di quella canzone.

Il tuo libro ha qualcosa a che vedere con l'Orchestra di piazza Vittorio9?
Non esattamente, ma conosco bene l'orchestra, sono persone che stimo molto. Diciamo che l'Orchestra di piazza Vittorio ha qualcosa in comune con il mio romanzo nel senso che sia il romanzo che l'orchestra sono espressioni di un'Italia nuova, che cambia; un'Italia positiva. Il romanzo è ambientato a piazza Vittorio, cuore di un quartiere di Roma, a cinque minuti dalla stazione Termini. È un quartiere che rappresenta il futuro nel senso che in quel quartiere ci troviamo di fronte ai due grandi possibili scenari del futuro dell'Italia. Il primo scenario è quello rappresentato dall'Orchestra di piazza Vittorio, dove musicisti italiani e stranieri si mettono assieme e valorizzano la diversità attraverso la musica, l'arte, la cultura. Il secondo scenario rappresenta l'Italia dei ghetti, l'Italia fatta di immigrati che a distanza di cinque o sei anni dal loro arrivo ancora non parlano l'italiano; dove ci sono i negozi cinesi con le scritte solo in cinese, che vendono prodotti cinesi solo ai cinesi. Questa è piazza Vittorio. È una piazza che rappresenta entrambi gli scenari. Sono due strade e noi dobbiamo sceglierne una. Io credo che si debba scegliere la strada aperta dall'Orchestra di piazza Vittorio.

Renzo Sabatini

Note

  1. La lista dei libri pubblicati da Lakhous si è allungata. Si consiglia una visita al sito www.amaralakhous.com oppure, meglio, in libreria.
  2. Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio. Edizioni e/o, 2006.
  3. Antropologo, insegna sociologia urbana e metodi di osservazione etnografica all'università di Roma La Sapienza. Sin dagli anni '70 ha svolto ricerche sul campo in ambito urbano, sulle migrazioni, sulle controculture, sugli insediamenti di autocostruzione e altre forme di ghetti abitati da migranti, rom e sinti.
  4. Nel 2010 è uscito un film anche in Italia, con la regia di Isotta Toso.
  5. Il progetto di far arrivare Lakhous in Australia come esponente della nuova letteratura italiana “migrante” è nato subito dopo questa intervista. Lo scrittore è stato in seguito invitato in questa veste all'importante festival degli scrittori di Sydney (Sydney Writers Festival) nel 2011. Nel 2012 ha partecipato a una serie di conferenze organizzate dagli istituti italiani di cultura in Australia.
  6. Nel mondo anglosassone è diffusa una letteratura da viaggio di questo genere. Pensavo qui al libro The World From Italy (Harper Collins, 2001) di George Negus, giornalista e presentatore televisivo australiano molto famoso e apprezzato. Lui, come giornalista, è decisamente in gamba, ma il libro, frutto di un anno sabbatico trascorso in Toscana, è un superficiale e irritante elenco di stereotipi.
  7. L'episodio è del novembre 2007.
  8. Vedi “A” n. 377, febbraio 2013.
  9. L'orchestra è nata nel 2002 da un progetto sostenuto da artisti, intellettuali e operatori culturali che hanno voluto valorizzare il carattere multietnico assunto negli anni dal rione Esquilino nel cuore di Roma, in contrasto con chi voleva creare allarme sociale attorno al fenomeno migratorio che stava cambiando il volto del quartiere. L'orchestra, oggi composta da 18 musicisti di 10 paesi diversi, tutti residenti all'Esquilino, è molto conosciuta e apprezzata anche all'estero. Per maggiori informazioni si può consultare il sito: www.orchestrapiazzavittorio.it.
(intervista realizzata via telefono nel febbraio 2008. Registrata presso gli studi di Rete Italia – Melbourne. Andata in onda nell'ambito della trasmissione radiofonica settimanale: “In direzione ostinata e contraria”, dedicata ai personaggi delle canzoni di Fabrizio De André).

In direzione ostinata e contraria

Con questa intervista, prosegue la pubblicazione su “A” di una parte significativa delle 27 interviste radiofoniche realizzate da Renzo Sabatini e andate in onda in Australia nel programma “In direzione ostinata e contraria” sulle frequenze di Rete Italia fra il maggio 2007 e l’agosto 2008. In tutto si è trattato di sessanta puntate (ciascuna della durata di circa quaranta minuti, per un totale di quasi 40 ore di trasmissioni), nel corso delle quali sono state trasmesse le 27 interviste e messe in onda tutte le canzoni di Fabrizio De André. Si tratta dunque della più lunga e dettagliata serie radiofonica mai dedicata al cantautore genovese.

Se proponiamo questi testi, è innanzitutto per dare ancora una vlta spazio e voce a quelle tematiche e a quelle persone che di spazio e voce ne hanno poco o niente nella “cultura” ufficiale. E che invece anche grazie all’opera del cantautore genovese sono state sottratte dal dimenticatoio e poste alla base di una riflessione critica sul mondo e sulla società, con quello sguardo profondo e illuminante che Fabrizio ha voluto e saputo avere. Con una profonda sensibilità libertaria e – scusate la rima – sempre in direzione ostinata e contraria.

Precedenti interviste pubblicate: a Piero Milesi (“A” 370, aprile 2012), a Carla Corso (“A” 371, maggio 2012), Porpora Marcasciano (“A” 372, maggio 2012), Franco Grillini (“A” 373, estate 2012), Massimo (“A” 374, ottobre 2012), Santino “Alexian” Spinelli (“A” 375, novembre 2012)); Paolo Solari (“A” 376, dicembre-gennaio 2012-2013); Gianni Mungiello, Armando Xifai, Alfredo Franchini (“A” 377, febbraio 2013); Giulio Marcon e Gianni Novelli (“A” 378, marzo 2013); Sandro Fresi e Paola Giua (“A” 379, aprile 2013); Luca Nulchis (“A” 380, maggio 2013); don Andrea Gallo (“A“ 381, giugno 2013; Paolo Finzi (“A” 382, estate 2013); Gabriella Gagliardo (“A” 383, ottobre 2013).

la redazione di “A”