rivista anarchica
anno 42 n. 374
ottobre 2012


in direzione ostinata e contraria 5

Giocherellare a palla con il proprio cervello...

Intervista a Massimo
di Renzo Sabatini


La droga è tra gli argomenti del lp di Fabrizio De André “Tutti morimmo a stento”, che tra l'altro è stato il primo concept-album della discografia italiana, il primo cioè incentrato su di un discorso unitario, non sulla sequenza di brani tra loro scollegati.
L'intervistato ha chiesto di restare anonimo.



Ti abbiamo contattato dopo aver letto una tua “lettera a Fabrizio De André” nel libro “Gli occhi della memoria” (Edizioni Elèuthera, Milano 2007) di Romano Giuffrida. Di te sappiamo solo che sei un musicista. Ti va di parlarci un po' di te, di presentarti al nostro pubblico?

Sono nato nel 1960 e gli anni Settanta sono stati quelli della mia formazione. Avevo un padre musicista e anch'io ho cominciato a studiare uno strumento da giovane e mi sono poi diplomato in flauto al conservatorio. Gli anni Settanta però non sono stati dei più semplici e io li ho vissuti in maniera confusa. Quelli erano gli anni delle mie ribellioni nei confronti della famiglia, della società, del potere. Dopo il liceo ho cominciato gli studi di scienze politiche ma li ho poi abbandonati per dedicarmi completamente all'attività di musicista. Però anche se la mia formazione musicale è classica, i miei interessi erano diversi, più legati all'istinto ribelle di quegli anni e perciò seguivo anche altri percorsi musicali: musica nera, jazz, rock, punk; successivamente la musica etnica e poi le avanguardie colte contemporanee. Romano Giuffrida l'avevo conosciuto in quegli anni, poi ci siamo persi di vista per un lungo periodo e ci siamo incontrati di nuovo recentemente e così abbiamo cominciato a raccontarci cosa era stato di noi nel frattempo. Così è nata la mia collaborazione al libro.

Visto che hai seguito tanti generi musicali, qual è quello più importante per te in questo momento?

Per quello che sto facendo io adesso, direi che i miei interessi musicali rimangono molto aperti. A me piace lavorare sul suono e con il suono. Sto facendo dei lavori in questo senso anche con lo stesso Giuffrida. Mi piace suonare musiche del globo intero e ho anche formato un piccolo trio che propone proprio i canti del mondo e va alla ricerca di quelle che sono le sonorità dei vari continenti, le matrici popolari utilizzate sia nella musica colta che nella stessa musica popolare.
Nel contributo che hai scritto per il libro di Giuffrida ti riferisci alla tua condizione di tossicodipendente all'inizio degli anni Ottanta. Giuffrida scrive, presentandoti, che tu sei di quelli che oggi possono: “ascoltare il vento tra le foglie, sussurrare i silenzi che la sera raccoglie”. Di altri amici invece resta il ricordo. Puoi parlarci di quegli anni in cui ti sei ritrovato, per citare ancora De André, a “giocherellare a palla” con il cervello?
Erano davvero anni in cui si giocava a palla col proprio cervello! Erano anni confusi e rifiutare le regole voleva dire mettersi in gioco e quell'impegno, se vogliamo, era anche una fatica: il rifiutare tutte le indicazioni che venivano dai gruppi parlamentari, anche quelli della stessa sinistra, il volersi trovare schierati da un'altra parte, tutto questo è stato faticoso. In quei momenti i poteri forti hanno immesso sul mercato sostanze che creano dipendenza. Hanno utilizzato un'arma letale per sciogliere, smembrare il movimento alternativo al sistema.
Questa per me ormai è storia. E io mi sono ritrovato in questa condizione di dipendenza in maniera inconsapevole. Ho rivisto poi, dopo, questo periodo, a distanza di dieci anni, come un buco nero della mia memoria: più cresceva la dipendenza e meno erano gli interessi legati al sociale, alla vita reale. Io a quegli anni ci sto pensando ora, perché allora non avevo proprio tempo per pormi delle questioni politiche, era veramente una condanna, in quel senso. Io sono convinto che i poteri forti creassero a misura queste devianze, per controllare meglio quelle che erano aspettative altre, il dibattito politico di quegli anni, le diverse istanze che venivano dai giovani schierati al di fuori dei gruppi parlamentari.

Una sorta di premonizione

Nel 1968 De André pubblica “Tutti Morimmo a Stento”, mettendoci di fronte a un'umanità che fino a quel momento non aveva mai trovato posto nelle canzoni. Il disco si apre proprio con il “Cantico Dei Drogati”. In Italia all'epoca di droga non si parlava, il fenomeno non era ancora esploso. Come mai secondo te De André già ne parlava?

In quegli anni la Psichedelia aveva già avvicinato i giovani all'utilizzo delle sostanze come veicolo di conoscenza. De André ne parlava perché già in quegli anni si usavano delle sostanze allucinogene. Già Timothy Leary1 infatti distingueva fra sostanze buone e cattive e quelle che creano dipendenza sono da considerare, tuttora, le sostanze cattive. Certo, quella di De André era una sorta di premonizione, perché questo pensare all'annullamento della persona, che troviamo in quella canzone, è un fatto che poi si è verificato puntualmente alla fine degli anni Settanta, in maniera massiccia, quando è stato usato come strumento per abbattere un fenomeno politico in crescita. Quindi lui è stato proprio un antesignano, ha capito quello che sarebbe accaduto con grande anticipo.

La canzone probabilmente avrà colpito molti, aprendo uno spaccato su un mondo che all'epoca era sconosciuto. Per un tossicodipendente che gli capitava di ascoltare questa canzone, che significato poteva avere?

Io ho provato a scriverlo in questa lettera che ho pubblicato sul libro di Giuffrida. La canzone, inizialmente, aveva creato in me, che ero vittima di quella condizione di dipendenza, un senso di profondo fastidio. Mi sembrava un'intromissione in quella che ormai era la strada che avevo preso, un percorso masochistico. Mi infastidiva questo essere solleticato nella mia coscienza. Ripensandoci dopo ho scoperto che era importantissimo quello che diceva quella canzone: metteva di fronte le persone a una scelta ben precisa.

Il Cantico dei Drogati è scritto in prima persona. Il protagonista parla di sé, si guarda e si descrive in questa sua deriva. Tu che sei passato attraverso questa esperienza trovi che la canzone colga nel segno, trovi che le immagini utilizzate da De André siano quelle giuste?

Si, assolutamente. Qui lui utilizza le parole proprio in maniera strepitosa e sa quali corde andare a toccare. Proprio per quel motivo mi infastidiva, perché evocava le paure, il proprio malessere, la consapevolezza di essere allo sfascio, allo sbando. Una condizione che fa paura e la paura a volte diventa incontrollabile. Per cui si cerca di risolvere il proprio bisogno proprio per non aver paura ed è una tensione continua fra paura e bisogno, bisogno e paura. Questo ti crea la condizione di malessere, di completo disagio. Lui in questa canzone, bellissima, premonitrice, aveva colto tutti gli aspetti che la tossicodipendenza comporta.

Nella strofa che chiude la canzone il protagonista lancia una specie di richiesta di soccorso a chi lo ascolta. Ti sembra realistico? Ti è capitato di lanciare questi segnali, magari restando inascoltato?

Lanciare segnali, sì, mi è capitato, anche in maniera piuttosto ingenua, se vuoi, perché in realtà non sai mai esattamente a chi rivolgerti, quando vivi in una condizione di paura e di disagio e sei dipendente. E quindi cerchi qualcuno. Innanzitutto però devi arrivare ad un momento di assoluta decisione nel voler smettere di assumere determinate sostanze. Di questo devi essere consapevole. Poi non è detto che tu ci riesca, ma la consapevolezza è il primo passo. Il tentativo deve nascere da una necessità, non da un'imposizione. Le imposizioni poi te le crei tu, per poter favorire questo processo di disintossicazione. La richiesta di aiuto può essere fatta a degli amici, però gli amici generalmente avevano paura quanto me, quindi non era quello l'appiglio al quale potevo aggrapparmi.
Dopo mille tentativi di disintossicazione fatti chiudendomi in casa, in realtà, mi hanno aiutato molto altre sostanze farmaceutiche che hanno creato una sorta di antagonismo alla sostanza oppiacea e quindi quello mi ha aiutato a risolvere il problema fisicamente. Ma psicologicamente poi, dopo, devi ricostruire tutto. È una cosa che uno fa continuamente, che faccio ancora adesso, perché poi le dipendenze non sono solo legate alle droghe ma anche a tante altre cose, quindi il percorso di disintossicazione è continuo, quotidiano. Quindi l'aiuto farmacologico mi è servito ma la ricostituzione psicologica, il contatto con la realtà, con il quotidiano, è avvenuto in maniera molto più lunga e graduale. Anche passando attraverso altre disintossicazioni: quelle alcoliche e quelle che mi hanno portato ad affrontare la necessità di disintossicarmi da altre sostanze ancora. Oggi mi sento di poter dire che questa poltiglia di vita che ho fatto mi ha portato finalmente ad un momento più sereno, che mi consente anche di riflettere su tutto questo passato.

In seguito De André descriverà questo disco come: “polveroso, cattedratico, barocco”. Dirà che: “questa processione di vittime cantate potrebbe finire per far ribrezzo”. Tu la condividi questa sua riflessione? Il Cantico dei Drogati poteva essere magari meno crudo e più poetico?

Ma proprio perché è così crudo questo brano è molto poetico. Mi sembra strano che lui possa aver tacciato di barocchismo un disco così crudo. Per come la vedo io di barocco ce n'è ben poco nel “Tutti morimmo a stento”. Anzi proprio quell'esercito di altri, di diversi, di marziani, come li chiamava Camerini2 in quegli anni, credo che possa far riflettere ancora oggi. Quindi non saprei proprio perché lui abbia descritto questo suo album in maniera così negativa. Forse quando ha detto queste cose era già alla ricerca di altro e credo che avesse ancora molto da dire. Però per me è importantissimo anche quello che diceva in quegli anni. Questo l'ho anche scritto in quella lettera pubblicata sul libro di Giuffrida ed emerge anche da un lavoro di riflessione su tutta la produzione di De André, un lavoro che ho fatto con Giovanna Panigali e con un gruppo musicale sardo, gli Andhira.

Dal “Cantico dei drogati” (1968)

“Ho licenziato Dio
gettato via un amore
per costruirmi il vuoto
nell'anima e nel cuore.
Le parole che dico
non han più forma né accento
si trasformano i suoni
in un sordo lamento.
Mentre fra gli altri nudi
io striscio verso un fuoco
che illumina i fantasmi
di questo osceno giuoco.”

Il problema dell'alcool

I drogati ritornano nel “Recitativo” che chiude l'album in una sorta di invocazione. De André ci dice chiaramente che i drogati, le prostitute, i condannati a morte che popolano questo album sono le vittime della società e non i colpevoli. Chiede a chi ascolta di non giudicare ma di avere pietà. Tu pensi che questa esortazione abbia avuto un qualche risultato, che chi ha ascoltato si sia messo in sintonia, abbia smesso di giudicare e abbia cercato di cominciare a capire?

Ma non direi. Forse il disincanto di cui parlavamo prima rispetto a questo disco sarà nato in lui proprio dallo scoprire il fallimento di questa esortazione. Perché purtroppo non credo che da allora siano mutati di molto gli atteggiamenti generali nei confronti dell'altro, del diverso. Lo vediamo adesso rispetto alle migrazioni, al tema dei clandestini, insomma rispetto a tutto ciò che rappesenta l'altro, il diverso. Forse quella esortazione che ha fallito nel suo intento era ciò che lui considerava un esercizio barocco. Forse però qualcuno è riuscito ad ascoltarla, a capire che, rispetto all'altro, ci sono molto modi per potersi porre, che non sono necessariamente quelli del rifiuto. Io credo che anche il mio lavoro tenda un po' a questo. Cerco di vedere le reazioni di chi ascolta certe proposte artistiche, cerco di coinvolgere chi ascolta anche su questi temi. Le reazioni positive ci sono, ma la tendenza generale non è che mi lasci molto ottimista.

Tornando a parlare del Cantico Dei Drogati, De André ha detto che scriverla, assieme all'amico e poeta Mannerini, ebbe per lui un valore libertorio, perché all'epoca era totalmente dipendente dall'alcol. Disse anche che c'era una sorta di autocompiacimento, frequente fra i tossicodipendenti. Come la vedi, ti sembra che l'alcolismo di De André potesse essere paragonabile ad esempio alla condizione del tossicodipendente?

Si assolutamente. Sono condizioni molto simili. Anche se i termini sono diversi, perché si frequentano ambienti diversi, ma fondamentalmente lo stato psicologico è lo stesso. Credo che per lui fosse proprio una liberazione, il cantare o lo scrivere di sé in quel senso. Quanto all'autocompiacimento, per dire la verità, quando sei dipendente da una sostanza non hai proprio tempo di compiacerti di te, perché sei preso da un gioco osceno, come lo chiama giustamente De André. Non stai troppo a guardarti. Direi invece che qui De André sapeva raccontare bene le cose, a sé stesso e anche agli altri.

Anni dopo De André ha scritto Amico Fragile, una delle sue canzoni più importanti, durante una solenne ubriacatura. In effetti De André, che ha poi rinunciato a bere, a quanto pare, per mantenere una promessa fatta al padre sul letto di morte, diceva che l'alcol gli rompeva i freni inibitori consentendogli di esprimere a pieno la sua creatività. Tu hai avuto una simile esperienza con la droga? E non si potrebbe dire che un simile atteggiamento, da parte di una persona che aveva tanta presa fra i giovani, fosse potenzialmente pericoloso?

Beh, effettivamente il rischio c'è. Comunque bisogna dire che ci sono delle differenze, su questo piano, fra le droghe pesanti e l'alcol. Perché le droghe pesanti tendono a implodere, quindi a non dare espansività, l'alcol al contrario te ne dà, quindi forse in questo senso De André utilizzava questo strumento, l'alcol, per potersi dare di più. È chiaro che il “pentimento” successivo nasce dalla consapevolezza che non è in quel modo che ci si dà agli altri nel modo giusto, perché l'alcol è semplicemente uno strumento, un ausilio che puoi avere, ma che è fuorviante per sé e per gli altri. Parlo a ragion veduta perché è un percorso che ho fatto.
Dopo il decennio “dedicato” alle droghe pesanti ho affrontato anche il versante dell'alcolismo. Psicologi e sociologi abbinano le due sostanze in maniera manualistica, le consorziano: prima viene la droga pesante e poi si finisce nell'alcol e guardando le statistiche credo che sia abbastanza vero che ci sia questo collegamento fra le due cose. De André l'ha vissuto in prima persona questo problema.
Non so se l'abbia risolto davvero grazie alla promessa fatta a suo padre. Forse l'ha risolto in realtà grazie a una promessa fatta a se stesso. Perché credo che fosse un rispetto che doveva a se stesso, da quel grande uomo di pensiero che era. Doveva uscirne per potersi poi dare meglio anche agli altri.

Dell'alcol De André disse anche che gli era servito per evadere una realtà che per lui rappresentava una dolorosa contraddizione, perché il mestiere con cui esprimeva la rivolta sociale lo faceva anche arricchire economicamente. Questa delle contraddizioni che ci capita di vivere fra quello che pensiamo e quello che siamo è una delle strade verso la droga?

Le contraddizioni spingono molto spesso a soluzioni di comodo: tacitiamo la coscienza in modo da non averci più a che fare. L'alcol euforizza, l'eroina e le droghe pesanti trattengono, la differenza è questa ma il risultato non cambia: ti alteri e alterandoti la coscienza viene “sistemata”. Promettere a se stessi di far rinascere questa coscienza è uno dei passi fondamentali del percorso di uscita dalla condizione di dipendenza.

Intrico fra droga, criminalità e politica

Nel corso di tante interviste abbiamo messo assieme quasi involontariamente varie testimonianze sui contributi che Fabrizio, sommessamente, senza pubblicità, dava a varie cause. Emergency, l'Associazione per la pace, la stampa anarchica, la comunità di Don Gallo a Genova, il gruppo Lupo di Stefano Benni, il Comitato di Solidarietà che lavorara con i profughi durante la guerra in Yugoslavia e così via. Secondo te era anche questo un modo per riparare alla contraddizione di cui si parlava?

Ma non lo so, forse. Ma comunque per me è importante sottolineare che questo delinea la sua coscienza e sottolineare il fatto che lui manifestasse il suo aiuto in maniera non eclatante, pur facendo parte del mondo dello spettacolo. Fortunatamente Fabrizio era così e ben venga questo suo rimanere nell'ombra in quello che faceva per gli altri, perché è molto facile poi farsi della pubblicità con del falso buonismo. Magari, perché no, finanziava anche qualche comunità di recupero per tossicodipendenti, visto che era così sensibile a questo tema, quello delle dipendenze, che è molto importante per le sue conseguenze devastanti.

La droga è poi esplosa come problema sociale in Italia, come si diceva prima. Tra l'altro un libro recente, “Romanzo Criminale” di De Cataldo, ci fa capire quale intrico ci sia fra droga, criminalità e politica. Ne accennavi proprio tu all'inizio dell'intervista. De André però non è più tornato sull'argomento se si escludono brevi passaggi, come la “Pilar del mare” in Sally che si “addormentava il cuore con due gocce di eroina”. Anche il Cantico dei Drogati non ha fatto quasi mai parte delle scalette dei suoi concerti. Secondo te perché? Con Il Cantico aveva detto tutto quello che c'era da dire su questo argomento, oppure andavano meglio le canzoni di autori più giovani come “Lilly” di Venditti o “Silvia lo sai” di Carboni?

Io credo che De André avesse già detto tutto quello che c'era da dire in quel brano e lo aveva detto, secondo me, in maniera assai più convincente rispetto agli altri brani che hai citato, che sono brani un po' più epici, se vogliamo, romanzati. La crudezza del brano di De André, di cui dicevamo prima, è quella che alla fine mi risulta più vicina, esprime bene il mio modo di sentire le cose. Che poi non sia più tornato sull'argomento secondo me dipende dal fatto che lui stava dedicandosi ad altro e in fondo l'argomento l'aveva affrontato dicendo già allora quello che poi si è puntualmente verificato. Evidentemente non aveva ragione di tornarci e forse era il caso di affrontare altri argomenti più urgenti, più impellenti.

Hai scritto che il ritornello del Cantico Dei Drogati, il: “come farò a dire a mia madre che ho paura”, ascoltato un giorno a casa di un amico, è rimasto per te un tarlo fastidioso che ti risuonava nella testa. Già prima ci hai parlato delle tue paure ma, come mai questo tarlo ti risuonava?

Mi risuonava perché quando vivi quella condizione di tossicodipendenza, tutto quello che ti infastidisce rispetto al tuo percorso ti provoca rabbia, fastidio, e quindi lo vuoi assolutamente rimuovere. Però il tarlo resta, lavora dentro, perché la coscienza non la puoi cancellare più di tanto, e quindi quello restava e dentro di te ti dicevi: “fondamentalmente ha ragione, però adesso non ho tempo di pensarci, perché devo andare là, fare questo, quello...”. E la madre è il primo punto di riferimento, è un riferimento proprio ancestrale e credo che lui l'utilizzasse in quel senso. Non è che pensi come farai a dirlo agli amici o a un SerT3. A livello inconscio c'è questo richiamo ancestrale ed è alla mamma che ci si rivolge per chiedere aiuto.

La questione droga, l'abbiamo accennato, è ormai un problema mondiale con un intreccio di poteri forti, criminalità, interessi enormi, interi apparati statali complici. In questo quadro il Cantico dei Drogati secondo te, almeno a livello di testo, è invecchiato o resta sempre attuale? Potrebbe essere usato a livello educativo, di prevenzione?

Secondo me non è invecchiato e potrebbe essere usato a livello educativo, perché lui in questo testo ha descritto, ha raccolto tutti gli aspetti da prevenire. Pensiamo a quando dice: “mi citeranno di monito”, una frase che mi ha molto colpito. Credo che basti dire questo, perché la condizione che lui descrive, che vive: giocare a palla col proprio cervello, finire per essere emarginato socialmente senza più alcun tipo di aspirazione e di ispirazione, è una condizione assolutamente tragica dell'esistenza. E il fatto che lui sottolinei questo: “guardatemi, perché voglio esservi di monito”, rende questo brano ancora oggi unico e si può senz'altro utilizzarlo a livello educativo.

Il senso che possono avere i brani di De André

Nella tua lettera a De André scrivi che avresti preferito telefonare piuttosto che affidare alla penna il tuo intervento. Ecco se adesso invece di essere al telefono con me fossi al telefono con Fabrizio che cosa ti piacerebbe dirgli?

Mah, gli direi: “Caro Fabrizio, quello che ti ho scritto è nato dall'immediatezza, è una cosa che tenevo dentro per me, che cercavo di risolvere. Perché già allora tu avevi descritto così bene la mia condizione”. In realtà mi sarebbe piaciuto conoscerlo e magari non solo avere un rapporto dal punto di vista umano ma anche professionale, perché faceva delle cose che tuttora mi interessano, il modo stesso con cui esplorava non solo il mondo della parola ma anche il mondo dei suoni, era per me interessantissimo, tanto che lo sto riascoltando tuttora con grande interesse. Quindi probabilmente, al di là dei temi tragici della vita, poteva anche esserci uno scambio di opinioni, di percorsi, di cammino.
Penso a quello che Luigi Nono4 scriveva nel titolo di una sua composizione che più o meno suonava così: “caminante, no hay caminos, hay que caminar” . Ovvero chi cerca l'altro non ha una strada precisa da seguire, deve solo camminare. Io penso che probabilmente ci saremmo incontrati su questo terreno del cammino.

Visto che hai appena raccontato che stai riascoltando l'opera di De André, a parte il Cantico dei Drogati, quali sono le sue cose che ti hanno colpito di più?

Io apprezzo soprattutto l'aspetto musicale e da quel punto di vista mi piace soprattutto la produzione da Creuza de ma in poi, perché mi piacciono le soluzioni che ha trovato con Pagani nel fare quel disco che resta per me un grandissimo lavoro. Se però guardiamo ai testi, proprio in questi giorni stavo riguardando il brano: “Coda di Lupo”, che mi richiama agli anni che stavo raccontando prima, gli anni settanta, gli anni di un movimento che si è concluso, che ha gettato dei semi senz'altro, perché sono tuttora evidenti i germogli degli anni Settanta, si vedono anche adesso, ma che comunque si è concluso. Ebbene rileggendo il testo di Coda di Lupo trovo che possa fare il paio con il Cantico dei drogati, anche se è stato scritto a dieci anni di distanza. Il fatto di rievocare quel clima, quegli anni, utilizzando certe immagini, come per esempio quella di Lama fischiato a Roma, questo lo trovo interessante, tuttora molto importante5. Un brano così mi dà il senso che possono avere i brani di De André non solo nel rileggere il passato ma anche nell'analizzare quello che abbiamo adesso davanti e mi rendo conto di quanto fosse premonitore nel suo modo di affrontare le questioni politiche e sociali.

Renzo Sabatini

Note

  1. Lo psicologo e scrittore americano (1920-1996) promotore dell'uso delle droghe psichedeliche a fini terapeutici.
  2. Si riferisce probabilmente al cantautore italo brasiliano Alberto Camerini.
  3. SerT: Servizio Tossicodipendenze, nell'ambito del Servizio Sanitario Nazionale.
  4. Luigi Nono (Venezia, 1924-1990): musicista, compositore, ricercatore musicale.
    Aveva musicato questi versi del poeta sivigliano Antonio Machado.
  5. Si riferisce al verso: “Capelli Corti generale ci parlò all'università dei fratelli Tute Blu che seppellirono le asce / ma non fumammo con lui, non era venuto in pace”. Luciano Lama (1921-1996), all'epoca Segretario Nazionale della CGIL, fu contestato a Roma dagli studenti, il 16 febbraio 1977.

(intervista realizzata via telefono il 09.05.2005. Registrata presso gli studi di Rete Italia – Melbourne. Andata in onda nell'ambito della trasmissione radiofonica settimanale: “In Direzione Ostinata e contraria“, dedicata ai personaggi delle canzoni di Fabrizio De André)

In direzione ostinata e contraria

Con questa intervista prosegue la pubblicazione su “A” di una parte significativa delle 27 interviste radiofoniche realizzate da Renzo Sabatini e andate in onda in Australia nel programma “In direzione ostinata e contraria” sulle frequenze di Rete Italia fra il maggio 2007 e l’agosto 2008. In tutto si è trattato di sessanta puntate (ciascuna della durata di circa quaranta minuti, per un totale di quasi 40 ore di trasmissioni), nel corso delle quali sono state trasmesse le 27 interviste e messe in onda tutte le canzoni di Fabrizio De André. Si tratta dunque della più lunga e dettagliata serie radiofonica mai dedicata al cantautore genovese.

Se proponiamo questi testi, è innanzitutto per dare ancora una vlta spazio e voce a quelle tematiche e a quelle persone che di spazio e voce ne hanno poco o niente nella “cultura” ufficiale. E che invece anche grazie all’opera del cantautore genovese sono state sottratte dal dimenticatoio e poste alla base di una riflessione critica sul mondo e sulla società, con quello sguardo profondo e illuminante che Fabrizio ha voluto e saputo avere. Con una profonda sensibilità libertaria e – scusate la rima – sempre in direzione ostinata e contraria.

Precedenti interviste pubblicate: a Piero Milesi (“A” 370, aprile 2012), a Carla Corso (“A” 371, maggio 2012), Porpora Marcasciano (“A” 372, maggio 2012), Franco Grillini (“A” 373, estate 2012).

la redazione di “A”