  
                  
 Dove fiorisce il rosmarino 
                  
                Intervista a Luca Nulchisdi Renzo Sabatini 
				
  
                  “Un luogo dove le tensioni sociali esistono. Ma sono temperate 
                  dal contatto diretto con la natura e da una profonda moralità 
                  che si estrinseca nel rispetto di alcuni valori fondamentali“. 
                  Così Fabrizio De André descriveva la Sardegna. 
                  Luca Nulchis, musicista sardo, fondatore del gruppo Andhira, 
                  parla del rapporto profondo del cantautore con questa terra.  
                 
                   
                  Gli Andhira1 
                  nascono da una ricerca che affonda le radici nella musica popolare 
                  sarda ma poi va alla ricerca di altro. Lo stesso nome del gruppo 
                  ha un preciso significato evocativo. Raccontaci di questo vostro 
                  percorso artistico. 
                  “Andhira“ è una parola che ritroviamo in 
                  molti testi della tradizione orale della Sardegna. Evoca un 
                  concetto di nomadismo, sia in una concezione intima, come condizione 
                  interiore dell'essere umano, che in una concezione fisica, come 
                  gruppi di esseri umani che si spostano sul territorio. Il senso 
                  di questo termine c'è piaciuto come identificazione anche 
                  della nostra musica, perché per noi è difficile 
                  pensare di catalogare il nostro bagaglio musicale dentro un 
                  genere preciso. Perciò abbiamo preso in prestito questo 
                  vocabolo per rappresentare la nostra musica. Così nel 
                  2000 è nato il gruppo per realizzare una serie di progetti 
                  che in realtà erano in cantiere da tempo. 
                    
                  A un certo punto del vostro percorso c'è l'incontro 
                  con le canzoni di De André, da cui nasce: Sotto 
                  il vento e le vele, un lavoro discografico molto raffinato 
                  e innovativo. Perché questo incontro con l'opera dell'artista 
                  genovese? 
                  Si è trattato di un'esperienza molto particolare perché 
                  non si tratta di un progetto nato a tavolino. Anzi, vista l'importanza 
                  del personaggio è un progetto che ci ha posto di fronte 
                  a molte difficoltà. Questo lavoro nasce dall'invito della 
                  Fondazione De André a partecipare ad un'iniziativa all'interno 
                  del carcere di San Vittore, con le detenute, proprio con lo 
                  scopo di portare la poetica di De André all'interno del 
                  carcere. Noi all'inizio siamo un po' cascati dalle nuvole perché 
                  questo lavoro non era proprio nei nostri programmi e ci siamo 
                  chiesti cosa potevamo fare, perché davanti a un artista 
                  così non è che puoi cavartela con delle cover. 
                  Per questo abbiamo proposto una sorta di incontro virtuale fra 
                  noi e lui, utilizzando come filo rosso la Sardegna, perché 
                  lui aveva scelto la Sardegna come la terra in cui vivere una 
                  parte importante della sua vita. Abbiamo intessuto il progetto 
                  su questo legame che ci univa: la Sardegna, terra dove noi siamo 
                  nati e che lui aveva scelto. Tanto è vero che alla fine, 
                  nell'album, sono presenti pochissimi pezzi suoi, proprio perché 
                  non è un tributo ma il tentativo di un incontro su un 
                  piano, direi, quasi psicologico, come un incontro virtuale alla 
                  ricerca del suo modo di vivere la Sardegna. 
                   
                  E secondo te come l'ha vissuta, De André, la Sardegna? 
                  Secondo noi De André ha vissuto un rapporto particolare 
                  con questa terra perché ne ha colto delle sfumature che 
                  solo una sensibilità come la sua poteva cogliere, restituendola, 
                  tra l'altro, in maniera mai folcloristica o biecamente confezionata. 
                  Lui ha amato la Sardegna nel bene e nel male e non ha nascosto 
                  né sentenziato mai niente. Il suo sguardo sull'isola 
                  è stato molto sottile, nel senso che ha voluto immergersi 
                  in questa cultura, non l'ha vissuta da turista, altrimenti si 
                  sarebbe comprato direttamente una villa in qualche posto della 
                  Costa Smeralda. Questo gli ha permesso di capire a fondo la 
                  cultura sarda. Naturalmente si tratta pur sempre di un suo sguardo, 
                  della sua angolazione. Però uno sguardo molto acuto, 
                  molto sottile, molto corrispondente al sentimento che noi sardi 
                  tendiamo ad avere. 
                   
                  Da Zirichiltaggia del 1978 a Disamistade 
                  del 1996, c'è molta Sardegna negli ultimi venti anni 
                  dell'opera di De André. Come sono queste canzoni che 
                  parlano della Sardegna o che a volte parlano nelle lingue della 
                  Sardegna? 
                  Anche quando si è avvicinato alle lingue sarde lo ha 
                  fatto sempre in modo molto rispettoso, restituendo spaccati 
                  di vita, vicende, sentimenti, senza mai trasformare queste canzoni 
                  in operazioni posticce, folcloristiche. Per esempio in un brano 
                  come Zirichiltaggia non ha approfittato delle facili 
                  speculazioni musicali che si possono fare sulla tradizione. 
                  Tuttavia la situazione descritta è estremamente tagliente 
                  e ci fornisce uno spaccato realistico. Questo lo trovo estremamente 
                  rispettoso, anche considerati i tempi di allora, ma anche di 
                  adesso, con questa globalizzazione del suono, dove i suoni sono 
                  in realtà letteralmente rubati alle rispettive tradizioni. 
                   
                  De André, a parte le canzoni, ha parlato molto 
                  della Sardegna, forse più di quanto abbia parlato di 
                  Genova. Amava molto la natura ma vedeva anche la predominanza 
                  di certi valori, quali il rispetto per gli anziani e per i bambini, 
                  che in altre zone riteneva erosi dalla modernità e che 
                  in Sardegna vedeva ancora forti. La condividi questa sua visione, 
                  ti ci ritrovi? 
                  Sì. Lui ha colto molti aspetti. Penso che abbia avuto 
                  modo di elaborare una serie di idee vivendo qui e se avesse 
                  avuto la possibilità di vivere più a lungo probabilmente 
                  avrebbe sviluppato e approfondito quelle idee. La scelta di 
                  vivere in Sardegna è stata determinata da una serie di 
                  motivi tra cui quello che si tratta di un luogo dove ancora 
                  è possibile, se lo si vuole, ricondursi a delle percezioni 
                  che ormai, nelle grandi città o in certi ambienti sociali, 
                  sono perdute. Penso che questo gli abbia permesso di cogliere 
                  anche i lati più nascosti, se vogliamo anche quelli più 
                  contraddittori di quest'isola. Tutto questo senza mai giudicare 
                  o sparare sentenze. Tutto quello che ha restituito sulla Sardegna 
                  è come una fotografia, o meglio un suo sguardo. E ciò 
                  che ha restituito io lo trovo molto veritiero, sempre considerando 
                  che si tratta comunque di un suo sguardo, tanto è vero 
                  che alcune considerazioni le ha modificate nel corso degli anni, 
                  perché ovviamente con il trascorrere del tempo la comprensione 
                  che si ha delle cose cambia. 
                   
                  Nell'agosto del 1979 De André e Dori Ghezzi vengono 
                  rapiti e tenuti prigionieri per quattro mesi. Fabrizio stabilisce 
                  un rapporto con i carcerieri, due pastori, cercando di capirne 
                  la psicologia. Alla fine, liberato, dirà che i veri prigionieri 
                  erano loro, i due pastori, e offrirà il suo perdono. 
                  L'amore di De André per la Sardegna non sembra essere 
                  stato scalfito da quell'episodio. Tu cosa ne pensi? 
                  Sì, lui e Dori Ghezzi lo hanno dimostrato in molte occasioni 
                  e ho anche avuto modo di constatarlo di persona una volta che 
                  siamo andati a Roma per partecipare all'inaugurazione della 
                  piazza dedicata a De André2. 
                  Il giorno dopo ci siamo visti con Dori per salutarci e Valeria, 
                  una delle cantanti degli Andhira, ha avuto una sorta di sbalzo 
                  umorale sfogliando un libro che Dori ci aveva regalato, perché 
                  aveva visto una particolare fotografia o forse un articolo di 
                  giornale e ha esclamato: “ma questo è il sequestro“. 
                  Si è subito vergognata di aver tirato fuori davanti a 
                  Dori un argomento così doloroso. Ci siamo tutti un po' 
                  messi in tensione, invece Dori, dolcissima, con grande sincerità, 
                  ha detto a Valeria che quell'episodio era stato fondamentale 
                  nella loro vita ed è servito anche a far loro capire 
                  quanto amassero la Sardegna; che in qualche modo quell'episodio 
                  ha rafforzato una serie di sentimenti e di cose che nel corso 
                  del tempo avevano colto di questa terra. Da questa esperienza, 
                  per quanto minima, vissuta con Dori in quel momento, ho avuto 
                  la sensazione che questa cosa non solo è sempre stata 
                  vera nel loro cuore, ma è anche una cosa molto singolare 
                  e in qualche modo un insegnamento per chi è capace di 
                  leggere queste loro parole. 
                  Come in un film western 
                 Un'idea maturata dopo il rapimento è stata quelle 
                  di mettere a confronto la Sardegna e i nativi americani, come 
                  culture indigene lontane geograficamente ma vicine per molti 
                  aspetti culturali e storici, in particolare per aver subito 
                  lo stesso destino di aggressioni imperialistiche, sfruttamento 
                  e abbandono. Per noi che viviamo in Australia questo confronto 
                  si sarebbe potuto fare con i popoli aborigeni. Tu, da sardo, 
                  come hai vissuto questo paragone che ti avvicina ai Cheyenne? 
                  Penso di averlo vissuto un po' come tutti i sardi che hanno 
                  amato De André (e siamo in tanti). Ci riconosciamo in 
                  questa visione, ma non solo: il modo in cui lui ha restituito 
                  questo aspetto rende quell'opera internazionale. Cioè 
                  non siamo solo noi sardi che possiamo leggerci nella sua opera. 
                  Perché De André descrive una situazione che in 
                  realtà è accaduta un po' dappertutto e che ancora 
                  continua a succedere. Qui possiamo riallacciarci al discorso 
                  sul rapimento, perché anche la condizione del bandito 
                  De André è capace di leggerla nell'ottica dell'uomo 
                  prigioniero nella propria terra, quindi non identificato come 
                  il male ma semmai come vittima di una situazione di oppressione. 
                  Questo è un aspetto fondamentale e ci rende anche chiaramente 
                  il pensiero di De André sui popoli oppressi. 
                   
                  Ad esempio in Quello che non ho si 
                  parla di praterie e il protagonista sembra essere, appunto, 
                  un Cheyenne. Ma De André disse che quella canzone rappresentava 
                  anche la psicologia dei suoi carcerieri.  
                  Certamente, anche se bisogna tener conto che i suoi testi sono 
                  spesso polivalenti, non così espliciti, e sta anche a 
                  chi ascolta trarne degli spunti, decidere se il protagonista 
                  è appunto un sardo o un indiano. Comunque questo continuo 
                  rimando e abbinamento tra la cultura degli indigeni americani 
                  e la Sardegna è estremamente valido, lo dico proprio 
                  da sardo. C'è stato un momento, alla fine degli anni 
                  settanta, in cui in Sardegna ci sentivamo un po' di vivere come 
                  se fossimo in un film western e noi eravamo gli indiani, proprio 
                  come De André ha colto. Io vengo da un paese del centro 
                  della Sardegna che è situato ai piedi del Supramonte, 
                  quindi molto rappresentativo delle cose che ci stiamo dicendo. 
                  Beh, io ricordo questi altipiani del mio paese dove un po' tutti 
                  salivano a cavallo e ci sentivamo davvero un po' indigeni. Da 
                  noi venivano spesso anche gli Inti Illimani3 
                  che avevano degli amici nel nostro paese. E ricordo che quando 
                  venivano c'era una fortissima solidarietà, perché 
                  ci riconoscevamo con quel popolo oppresso in maniera molto forte. 
                  Insomma mi pare che De André abbia identificato questa 
                  cosa in maniera molto corretta. 
                   
                  Voi avete incluso Disamistade nel 
                  vostro lavoro discografico, una canzone che tra l'altro è 
                  stata ricantata in inglese dai Walkabouts4. 
                  Cosa ci vedi in questo testo, che per un non sardo potrebbe 
                  apparire anche un po' misterioso? 
                  Tra i brani di De André Disamistade è forse 
                  quello che amo di più e, per tornare al filo del nostro 
                  discorso, è un brano che fornisce uno spaccato di uno 
                  degli aspetti della società sarda. Si tratta di un brano 
                  in cui si sarebbe potuti facilmente scivolare nel folclore, 
                  ma De André non l'ha fatto, neanche nella lingua. Infatti 
                  il titolo è in sardo ma il brano è in italiano, 
                  ma in un italiano che ha un potere così evocativo da 
                  permettergli appunto di affrontare questo tema con una traslazione 
                  del linguaggio. Assolutamente un capolavoro. 
                   
                  De André ha cantato anche la figura del servo pastore 
                  con particolare poeticità. In realtà si tratta 
                  di gente particolarmente sfruttata. Secondo te questo Canto 
                  del servo pastore rientra in quella che potremmo definire 
                  la “poetica degli oppressi“ di De André, 
                  cioè la sua determinazione a cantare sempre i più 
                  emarginati di una società? Oppure questa figura rappresentata 
                  quasi come un sioux al bivacco è un po' troppo romantica? 
                  Forse tutti e due. Come dicevo, spesso c'è questa doppia 
                  pista nei testi di De André e ti puoi ritrovare a vivere 
                  e assimilare due sentimenti che possono essere anche fra loro 
                  contraddittori, e forse anche in questo risiede la magia della 
                  sua poesia. Secondo me, insomma, un po' l'uno e un po' l'altro. 
                  Cioè da un lato il servo pastore di De André conserva 
                  questa sua immagine un po' romantica, quasi bucolica, dove si 
                  mette l'accento anche sui dettagli, sui particolari del luogo, 
                  sulla contemplazione della natura che lo circonda. Dall'altro 
                  è chiaro che torna il discorso che abbiamo fatto prima, 
                  perché qui De André racconta una figura emarginata 
                  che fa parte di un popolo emarginato e di cui nessun altro ha 
                  mai parlato. 
                   
                  Ma queste riflessioni sulla Sardegna fatte da un autore 
                  genovese sono state apprezzate dai sardi? 
                  De André è molto amato in Sardegna e non solo 
                  da quando lui è scomparso, anche da prima, da sempre. 
                  Ci sarà certamente, sia fra gli addetti ai lavori sia 
                  fra la gente comune, una parte che non si è mai trovata 
                  in sintonia o che non si è riconosciuta in quello che 
                  lui ha detto della Sardegna. Però, quello che io ho potuto 
                  vedere, girando l'isola, è che lui ha coinvolto la gente 
                  proprio sentimentalmente, intimamente, a fondo. Tanto che per 
                  la maggior parte dei sardi è stato impossibile non amarlo. 
                   
                  Abbiamo detto che non c'è folclore posticcio nella 
                  poetica di De André. Ma che ne pensi dell'uso delle lingue 
                  sarde, della metrica, della musica? 
                  È stato un uso molto rispettoso, proprio perché 
                  non ha avuto l'intenzione di ricalcare, per esempio, la forma 
                  ortodossa della poesia sarda, magari utilizzandola folcloristicamente. 
                  Si è trattato di un atteggiamento libero e rispettoso 
                  allo stesso tempo. Ha scritto della Sardegna ma non ha fatto 
                  dei brani “sardi“ e questo è fondamentale 
                  per capire il rispetto che emerge da quella poetica, nei confronti 
                  della tradizione sarda. 
                   
                  E fra gli artisti sardi che si dice? 
                  Qualcuno non è mai entrato in sintonia, perché 
                  ci sono degli artisti che si identificano magari in un unico 
                  genere musicale, in una corrente. Lui invece depistava, faceva 
                  scelte controcorrente. Basti pensare all'arrangiamento rock 
                  dell'Ave Maria sarda, un brano che appartiene alla tradizione 
                  più antica dell'isola. Però direi che più 
                  che un disaccordo si sia trattato di una non affinità 
                  e più dal punto di vista musicale. Dal punto di vista 
                  poetico pochi si azzarderebbero a dare giudizi negativi. 
                   
                  Sul piano politico De André, che si professava 
                  anarchico, ha anche appoggiato un certo tipo di separatismo 
                  sardo, sottolineandone la diversità rispetto a quello 
                  “rozzo e scurrile“ della Lega nord. Questo tipo 
                  di scelte rientrava anche nel suo vagheggiare un ritorno a forme 
                  di governo più comunitarie, più vicine alla gente. 
                  Tu cosa ne pensi? 
                  Frequentare il movimento indipendentista sardo penso che sia 
                  stato un modo per capire meglio quali erano le spinte che muovevano 
                  i sardi in quel periodo a parlare di indipendenza. Però 
                  non credo che si sia trattato di una militanza di tipo politico, 
                  visto l'atteggiamento che ha sempre avuto nei confronti dei 
                  movimenti politici. Basti pensare che lui ha sempre sostenuto 
                  il movimento anarchico ma senza legarsi in modo militante e 
                  politico. Questo appoggio al movimento indipendentista sardo 
                  per De André ha avuto il significato di riconoscere nel 
                  popolo sardo un popolo oppresso alla ricerca di un riscatto. 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Gli 
                        Andhira - da sinistra: Elena Nulchis, Cristina  
                        Lanzi, Luca Nulchis ed Egiziana Carta  | 
                   
                 
                L'umanità del bandito 
				  
                 Questa attenzione di De André verso i popoli 
                  oppressi lo ha portato a parlare di rom, palestinesi, indiani 
                  e anche di sardi. Ciascuno con la sua peculiarità ma 
                  tutti accomunati dal fatto di essere costretti alla marginalità 
                  per poter difendere la propria cultura e identità. Tu 
                  ti senti in buona compagnia accanto a questi altri popoli? 
                  Assolutamente sì. Ed è un sentimento che condividiamo 
                  in molti qui in Sardegna. In qualche modo è come se lui 
                  avesse creato una fratellanza fra popoli che magari sono anche 
                  molto distanti e di cui noi stessi non sappiamo un granché, 
                  dei quali però percepiamo una forte vicinanza, anche 
                  se sono situazioni geograficamente distanti. Questa forse per 
                  i sardi è stata la cosa più forte e per questo 
                  dico che De André qui è molto amato, perché 
                  si è creato questo sentimento di condivisione che in 
                  tanti sentono. 
                   
                  La canzone Franziska, secondo quanto 
                  raccontato da De André, è stata ispirata da racconti 
                  dei carcerieri ai tempi del sequestro. A quanto pare i vari 
                  banditi come Mesina erano visti dai due pastori come eroi romantici 
                  alla stregua di Billy The Kid o, per quanto riguarda l'Australia, 
                  Ned Kelly5. 
                  Che ne pensi? 
                  È sempre il particolare sguardo di De André sul 
                  mondo. Con questo sguardo De André considera il bandito 
                  e la sua condizione umana in modo distinto da come lo considerano 
                  gli altri: la società ti dice che il bandito è 
                  l'uomo malvagio, l'uomo da condannare. Lui invece spulciava 
                  nella condizione del bandito per cercare di capire realmente 
                  cosa fosse, coglierne l'umanità, senza giudicare e sentenziare. 
                  Spesso da queste canzoni ma anche dalle interviste, esce fuori 
                  questa sua capacità di comprensione: lui comprende che 
                  la situazione degli oppressi contiene anche questi aspetti, 
                  per cui si è costretti a darsi a una vita che la società 
                  giudica immorale, perché in realtà non ci sono 
                  alternative. Non è una scelta ma una condizione alla 
                  quale non ci si può sottrarre. 
                   
                  Insomma, questo mosaico di testi, pensieri, canzoni e 
                  interviste sulla Sardegna restituisce una immagine della tua 
                  terra che condividi? 
                  Non è un'opera omnia, ovviamente, non c'è tutta 
                  la Sardegna, però in quello che lui ha restituito mi 
                  posso riconoscere ampiamente. Naturalmente lui aveva il suo 
                  sguardo particolare, un suo punto di osservazione. Quindi resta 
                  un punto di vista personale. Ma vista l'acutezza e la sensibilità 
                  del personaggio direi che ci si può fidare. Anche sentimentalmente 
                  io, come sardo, mi ritrovo in tutte le tracce della sua ricerca 
                  e di come ha restituito l'immagine della Sardegna. Probabilmente 
                  avrebbe potuto raccontare anche molte altre cose. 
                   
                  Pensi che questa opera sia servita anche a far cadere 
                  qualche pregiudizio sui sardi? 
                  Questo non lo so, perché la gente è tosta da convincere! 
                  A noi capita di viaggiare molto, facciamo più concerti 
                  fuori che in Sardegna. E devo dire che continuo a trovare mentalità 
                  stereotipate nei confronti dei sardi, anche se viviamo nell'epoca 
                  della globalizzazione e c'è questo maggiore tentativo 
                  di comprendere l'altro e circolano certi messaggi che parlano 
                  di uguaglianza. Ma sono falsi, vengono più dalla testa 
                  che dal sentimento e quindi certi stereotipi in realtà 
                  sopravvivono. 
                   
                  Torniamo in chiusura a parlare degli Andhira. Tu ci hai 
                  raccontato, all'inizio della nostra chiacchierata, che avete 
                  lavorato su De André quando Dori Ghezzi vi ha coinvolti 
                  in questo progetto con le detenute del carcere di San Vittore. 
                  Com'è andata quell'esperienza, che tipo di reazione hanno 
                  avuto quelle detenute? 
                  A noi non era mai capitato di affrontare una situazione forte 
                  di questo tipo e siamo arrivati a San Vittore con mille interrogativi. 
                  Quando si parla di certi temi e magari lo si fa attraverso la 
                  poesia di De André la commozione è facile e avevamo 
                  paura che finissimo tutto in lacrime! Volevamo evitare questo 
                  e invece ci siamo cascati in pieno. L'attenzione delle detenute 
                  è stata fortissima e si è creata un'energia molto 
                  intensa. Siamo arrivati all'ultimo brano, che era il Recitativo, 
                  da Tutti morimmo a stento, che avevamo scelto perché 
                  è estremamente rappresentativo di quelle tematiche. Quindi 
                  immagina: il Recitativo fatto in un luogo di quel tipo, con 
                  tutto il significato che si porta appresso, recitato da Lella 
                  Costa, che è stata bravissima... insomma, l'abbiamo finita 
                  a piangere come vitelli, proprio come non volevamo fare, perché 
                  volevamo evitare di ostentare commozione. Invece niente, l'emozione 
                  ci ha fregato a tutti! Questo per dire che è stato talmente 
                  emozionante il contatto con le detenute che è andato 
                  oltre il nostro controllo. La tensione era altissima. Dopo lo 
                  spettacolo siamo riusciti anche a stare un po' con loro, nei 
                  limiti che ci hanno concesso, quindi qualcuno di noi è 
                  riuscito anche a fare due chiacchiere. Per noi era l'esordio 
                  e anche simbolicamente lo ricordiamo come una potenza, una cosa 
                  difficile da dimenticare. 
                   
                  Se avessi avuto la possibilità di parlare direttamente 
                  con De André, magari proprio di queste canzoni che riguardano 
                  la tua terra, cosa gli avresti detto? 
                  Piuttosto che parlare dei brani mi sarebbe piaciuto entrare 
                  nel discorso più generale della Sardegna, del popolo 
                  sardo, degli aspetti psicologici. Avrei avuto timore di parlare 
                  dei brani. E poi sarebbe stata bella una cena assieme. Insomma, 
                  non vivere solo un'esperienza intellettuale. Ecco, mi sarebbe 
                  piaciuto cenare assieme o fare una bella passeggiata nel bosco 
                  e una bella chiacchierata, ma non necessariamente una cosa intellettuale. 
                   
                  Vuoi chiudere con un'ultima riflessione? 
                  Ci sarebbero tante altre cose da dire... mi ha fatto piacere 
                  parlare di popoli oppressi ma qui in Sardegna ci sono tanti 
                  altri argomenti importanti che magari avrei voluto sfiorare, 
                  dalle industrie alle servitù militari... ma mi rendo 
                  conto che nello spazio di un'intervista non si può parlare 
                  di tutto. Però forse potremmo concludere su una nostra 
                  scelta di vita che ha un po' a che fare con i temi di questa 
                  intervista. Noi abbiamo scelto di vivere fuori dalla città 
                  e spesso ci troviamo a ragionare su questo aspetto: cosa ci 
                  dà vivere in un luogo che ci fa riscoprire delle cose. 
                  Da piccolo una volta sono inciampato su una pietra e sono caduto 
                  a terra e così ho scoperto che stando a terra si potevano 
                  vedere bene tutti i fiori piccoli gli insetti e le altre cose 
                  che stando in piedi non si vedono mai. Questo per dire che ci 
                  sono delle situazioni che ci passano sotto gli occhi per tutta 
                  la vita e magari non le vediamo mai. Noi abbiamo scelto di vederle 
                  e per questo abitiamo in campagna. Questo mi riporta alla scelta 
                  di De André di vivere in campagna in Sardegna. Mi rimanda 
                  a questo aspetto del suo rapporto molto intimo con il circostante. 
                  Lui ricordava che il circostante non sono solo le persone. In 
                  noi c'è sempre questo aspetto molto autoreferenziale, 
                  pensiamo che il mondo sia fatto solo di esseri umani, invece 
                  il mondo è fatto di mille altre cose, di terra, di insetti 
                  di fiori... riappropriarsi di questo, riscoprire questo aspetto 
                  rappresenta una crescita. C'è chi decide di perdersi 
                  queste cose. Noi invece, come De André, abbiamo deciso 
                  di non perdercele. 
                 Renzo Sabatini 
                Note  
                  - Gruppo musicale nato nel 2000. Informazioni sulla storia e 
                  il lavoro artistico sono reperibili nel profilo Facebook della 
                  band.
                  
 - Inaugurata nel 2002 grazie a un progetto di riqualificazione 
                  di uno spazio urbano nel popolare quartiere della Magliana, 
                  nella periferia sud occidentale della città.
                  
 - La band cilena si trovava in tournée in Europa quando, 
                  nel settembre 1973, l'esercito cileno, con il sostegno della 
                  Cia, scatenò un sanguinoso colpo di stato. Gli Inti Illimani 
                  trascorsero i 15 anni del loro esilio in Italia.
                  
 - Formazione statunitense nata a Seattle nel 1984, la cui musica 
                  è basata sull'innesto di elementi folk su una base rock.
                  
 - Ned Kelly (1854-1880), un Mesina australiano. Kelly 
                  si diede alla macchia dopo aver ucciso tre poliziotti in uno 
                  scontro a fuoco divenendo un “bushranger“ (nell'inglese 
                  australiano, l'equivalente del nostro “brigante“). 
                  Riuscì a sfuggire alla caccia con grande destrezza per 
                  oltre due anni ma venne infine catturato, condannato e impiccato. 
                  Nel folclore australiano Kelly è considerato un eroe 
                  popolare e le sue gesta sono raccontate e celebrate in numerose 
                  opere.
  
                  
                (Intervista realizzata via telefono nel maggio 2007. Registrata 
                presso gli studi di Rete Italia – Melbourne. Andata in onda 
                nell'ambito della trasmissione radiofonica settimanale: “In 
                direzione ostinata e contraria“, dedicata ai personaggi 
                delle canzoni di Fabrizio De André).    
                   
                    |   In 
                        direzione ostinata e contraria  
                       Con 
                        questa intervista, prosegue la pubblicazione su “A” 
                        di una parte significativa delle 27 interviste radiofoniche 
                        realizzate da Renzo Sabatini e andate 
                        in onda in Australia nel programma “In direzione 
                        ostinata e contraria” sulle frequenze di Rete Italia 
                        fra il maggio 2007 e l’agosto 2008. In tutto si 
                        è trattato di sessanta puntate (ciascuna della 
                        durata di circa quaranta minuti, per un totale di quasi 
                        40 ore di trasmissioni), nel corso delle quali sono state 
                        trasmesse le 27 interviste e messe in onda tutte le canzoni 
                        di Fabrizio De André. Si tratta dunque della più 
                        lunga e dettagliata serie radiofonica mai dedicata al 
                        cantautore genovese. 
                       Se proponiamo questi testi, 
                        è innanzitutto per dare ancora una vlta spazio 
                        e voce a quelle tematiche e a quelle persone che di spazio 
                        e voce ne hanno poco o niente nella “cultura” 
                        ufficiale. E che invece anche grazie all’opera del 
                        cantautore genovese sono state sottratte dal dimenticatoio 
                        e poste alla base di una riflessione critica sul mondo 
                        e sulla società, con quello sguardo profondo e 
                        illuminante che Fabrizio ha voluto e saputo avere. Con 
                        una profonda sensibilità libertaria e – scusate 
                        la rima – sempre in direzione ostinata e contraria. 
                       Precedenti interviste 
                        pubblicate: a Piero 
                        Milesi (“A” 370, aprile 2012), a Carla 
                        Corso (“A” 371, maggio 2012), Porpora 
                        Marcasciano (“A” 372, maggio 2012), Franco 
                        Grillini (“A” 373, estate 2012), Massimo 
                        (“A” 374, ottobre 2012), Santino 
                        “Alexian” Spinelli (“A” 375, 
                        novembre 2012)); Paolo 
                        Solari (“A” 376, dicembre-gennaio 2012-2013); 
                        Gianni Mungiello, 
                        Armando Xifai, Alfredo Franchini (“A” 
                        377, febbraio 2013); Giulio 
                        Marcon e Gianni Novelli (“A” 378, marzo 
                        2013); Sandro 
                        Fresi e Paola Giua (“A” 379, aprile 2013). 
                       la redazione di “A”  | 
                   
                 
                
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