in direzione 
                  ostinata e contraria 7 
                  Tirai una freccia al cielo per farlo respirare 
                  
                Intervista a Paolo Solari 
                di  Renzo Sabatini
                   
                   
                  Nel disco Fabrizio De Andrè 
                    (1981), meglio conosciuto come L'indiano, si intrecciano 
                    due fili conduttori: la Sardegna e i nativi americani. 
                    A colloquio con uno studioso, appassionato di cultura indigena del Nord America. 
                 
                 
                   
                  Giornalista, esperto di storia americana, ricercatore, con 
                  una passione particolare per i popoli indigeni del Nord America. 
                  Da dove nasce questa passione? 
                   
                  Nasce dall'infanzia, da una scelta di simpatia verso quelli 
                  che una volta venivano chiamati “selvaggi”. E questa 
                  simpatia non mi ha mai lasciato, per cui ha costituito anche 
                  il bagaglio dei miei studi universitari, del mio lavoro di ricerca 
                  e dell'impegno sociale e anche culturale, attraverso un'associazione 
                  che si chiama Hunkapi1 e che 
                  pubblica una rivista dove io intervengo sia come storico che 
                  come redattore per la cronaca dei fatti più recenti. 
                  Questa cosa me la porterò dietro anche nella vecchiaia, 
                  sperando di continuare ad arricchirmi sempre di più con 
                  la cultura dei nativi americani. 
                   
                  Hunkapi è nata nel 1996 a Genova. Quali sono gli obiettivi 
                  e l'attività? 
                   
                  Genova è una città molto critica, nonostante possa 
                  vantare come cittadino (anche se a me non è molto simpatico) 
                  il presunto scopritore dell'America. L'associazione quindi è 
                  nata sull'onda di alcune iniziative molto critiche nei confronti 
                  delle celebrazioni del 1992, del cinquecentesimo anniversario 
                  della scoperta. È nata da semplici cittadini, da questa 
                  voglia di stare assieme e riscoprire la cultura e la storia 
                  dei nativi americani, proprio a partire da un humus cittadino 
                  molto ricco, tanto che al momento in cui si è deciso 
                  di costituire l'associazione c'erano già duecento iscritti. 
                  Oggi superiamo il migliaio di adesioni in tutta Italia e anche 
                  in Germania e Francia, abbiamo rapporti diretti con quasi tutte 
                  le nazioni di nativi americani e, oltre a raccontare la loro 
                  realtà, cerchiamo di sostenere concretamente la loro 
                  causa. Per esempio lavoriamo molto con le scuole, non solo di 
                  Genova: facciamo un lavoro immenso con le scuole per far conoscere 
                  ai bambini la realtà dei nativi americani. 
                   
                  Nel 1979 De André e Dori Ghezzi vengono rapiti in 
                  Sardegna e restano nelle mani dei sequestratori per quattro 
                  mesi. Da questa esperienza nasce l'album conosciuto come “L'indiano”, 
                  scritto con Massimo Bubola, in cui si parla di nativi americani 
                  e di sardi. Lei come ha reagito quando è stato pubblicato 
                  questo lavoro? 
                   
                  Ne sono rimasto entusiasta. Ho avuto la fortuna di essere in 
                  contatto con il gruppo di musicisti che avrebbero poi suonato 
                  nell'album, quindi sapevo già che Fabrizio voleva fare 
                  questo lavoro sui nativi americani e anche che voleva collegare 
                  la sua esperienza sarda, mettendo assieme queste culture. Mi 
                  ha particolarmente colpito la canzone Fiume Sand Creek, 
                  perché ricorda un massacro efferato2, 
                  un avvenimento tra i più tragici della storia dei nativi 
                  americani. 
                   
                  L'album affianca il popolo sardo ai nativi americani. La 
                  canzone d'avvio, Quello che non ho, evoca le grandi praterie 
                  ma, secondo il racconto dello stesso De André, rappresenta 
                  la psicologia dei pastori sardi che erano stati i suoi carcerieri. 
                  La canzone è un elenco di cose che il protagonista decisamente 
                  rifiuta della cultura arrogante del colonizzatore, dal conto 
                  in banca alle pistole. Lei pensa che qui il cantautore abbia 
                  colto bene il punto di vista dei nativi americani, la loro sensibilità? 
                  O rischiamo di trovarci nel campo dello stereotipo? 
                   
                  Sicuramente Fabrizio è riuscito a mettere assieme in 
                  una sola canzone alcune caratteristiche particolari, proprie 
                  dei nativi americani. Caratteristiche che però oggi ritroviamo 
                  soprattutto nei nativi che noi chiamiamo tradizionalisti, che 
                  non è un termine utilizzato in senso negativo. Definiamo 
                  tradizionalisti quelli che sono rimasti ancora oggi legati alle 
                  loro tradizioni e così conservano la storia e la cultura 
                  dei nativi americani. 
                  Al giorno d'oggi però il quadro è complesso: le 
                  nazioni o alcune loro componenti sono molto diverse fra loro, 
                  alcune hanno quotazioni in borsa, altre sono molto povere. Ecco, 
                  forse quelle più povere sono quelle che sono rimaste 
                  più tradizionaliste e quindi sono più vicine al 
                  quadro tracciato da De André. 
                
                   
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                    Manifesto della Festa Madre Terra promossa annualmente da Hunkapi, associazione 
culturale per la divulgazione delle tradizioni dei Nativi Americani  | 
                   
                 
                  
                    Fu un 
                  generale di vent'anni...  
                 Lei ha già citato Fiume Sand Creek, che senza 
                  dubbio è la canzone simbolo di questo lavoro ed è 
                  rimasta nelle scalette di tutti i concerti di De André. 
                  Personalmente la ritengo una canzone simbolo anche di tutte 
                  le violenze subite dai popoli indigeni non solo americani, tanto 
                  che la utilizziamo spesso, qui in Australia, per parlare dei 
                  massacri subiti dagli aborigeni. Parliamo allora di questa canzone, 
                  dal punto di vista di uno appassionato ed esperto della tematica 
                  come è lei. 
                   
                  Mi ha colpito subito e mi ha colpito anche il ritmo della musica 
                  così legata al testo, perché rende bene la sensazione 
                  di quei momenti tragici in cui è stato compiuto questo 
                  massacro, che è diventato uno dei simboli di tutti i 
                  massacri che hanno subito nella storia le nazioni americane 
                  e anche altri popoli, inclusi gli aborigeni australiani. Quello 
                  di Sand Creek è uno dei massacri più efferati 
                  della storia americana: donne e bambini vennero mutilati, parti 
                  di corpi vennero esposte e portate nei teatri come trofei. 
                  La canzone ha questo ritmo tragico ma finisce comunque in una 
                  speranza, che è una speranza che dura ancora oggi, perché 
                  si parla di quelli che sono conosciuti come cheyenne, che oggi 
                  sono una nazione molto piccola e molto sofferente. Però 
                  è una nazione che non è ancora morta, che non 
                  si è arresa. È una di quelle che più di 
                  ogni altra sta lottando, per esempio per la conservazione della 
                  lingua. E questo secondo me è un bel paragone, se vogliamo 
                  tornare al confronto con la Sardegna, perché la Sardegna 
                  è uno dei posti dove si conserva meglio l'eredità 
                  culturale, anche attraverso la lingua. 
                   
                  Nel concerto del 1991 De André, presentando questa 
                  canzone, polemizzava con le celebrazioni del cinquecentenario 
                  della scoperta dell'America. Aveva proposto ai suoi concittadini 
                  di armare due caravelle per andare a chiedere scusa agli indiani 
                  e diceva che la sera del 12 ottobre 1992 sarebbe stato vicino 
                  a loro per ricordare quello che loro considerano il più 
                  grande lutto nazionale. Invitato alle “Colombiadi” 
                  assieme a Bob Dylan rifiutò di partecipare. Qual è 
                  stata la sua reazione? 
                   
                  Quando Fabrizio se n'è andato noi lo abbiamo salutato 
                  pubblicando sulla rivista un mio editoriale, nel quale abbiamo 
                  ricordato proprio questa cosa. Per noi, che eravamo contrari 
                  alle celebrazioni, quella sua presa di posizione è stata 
                  importante perché, poiché lui era un personaggio 
                  molto conosciuto, il fatto che avesse scelto di non celebrare 
                  ci diede un po' più di coraggio. E in effetti, poi, quelli 
                  che non hanno celebrato erano tanti, a Genova. Noi ritenemmo 
                  giusto che lui non celebrasse, così come non abbiamo 
                  celebrato noi. Perché, si può dire quel che si 
                  vuole sul presunto scopritore, ma loro, i nativi americani, 
                  giustamente non ritengono di essere stati scoperti da nessuno! 
                  Erano già lì, questa è una cosa evidente, 
                  e sicuramente per loro l'arrivo di Colombo è stato un 
                  giorno luttuoso ed era giusto chiedere scusa. Noi l'abbiamo 
                  fatto diverse volte, nei rituali, in tutti le celebrazioni, 
                  gli appuntamenti, i convegni, gli eventi, le manifestazioni 
                  che abbiamo fatto. E devo dire che – Fabrizio sarà 
                  stato contento di questo – quel giorno a Genova c'era 
                  più gente fuori a non celebrare che personaggi nel palazzo 
                  a celebrare, e questo nonostante una mezza alluvione. Con questo 
                  non intendo dire che a Genova non ci siano quelle persone, magari 
                  legate al business cittadino, che ritengono che sia giusto celebrare. 
                  Noi però abbiamo detto che non è giusto, perché 
                  si celebra così il più grande massacro della storia 
                  e perché Colombo sicuramente non è andato là 
                  per fare il bene dei nativi americani. Basti ricordare che i 
                  Taino, i primi che Colombo ha incontrato, sono estinti. E non 
                  erano una piccola etnia: erano centinaia di migliaia di persone! 
                   
                  Eh, già, Cristoforo Colombo: “chioma fluente, 
                  occhio sognante e piede sicuramente fetente”, così 
                  lo definiva De André nei concerti di quel tempo. Bruno 
                  Lauzi però ha polemizzato con questo atteggiamento di 
                  De André che vede Colombo come invasore di terre abitate 
                  da altri. Lauzi sosteneva invece che Colombo era un viaggiatore, 
                  un sognatore, e che le critiche fatte 500 anni dopo non tengono 
                  conto del contesto storico. Che ne pensa di questo “scontro” 
                  fra cantautori genovesi? 
                   
                  Io non vorrei polemizzare con Lauzi, ma penso che noi di Hunkapi 
                  abbiamo una migliore conoscenza storica. È vero che Colombo 
                  era un viaggiatore anche se sulle tre barchette che ha armato 
                  c'erano personaggi poco raccomandabili. Comunque non si può 
                  dire che sia andato a portare la civiltà. È andato 
                  là per prendere possesso di territori, qualunque essi 
                  fossero (perché lui pensava di essere arrivato nelle 
                  indie, questo lo sanno tutti, ed è per questo che i nativi 
                  sono stati chiamati indiani). Lauzi3 
                  comunque non potrà negare che quello che è 
                  successo ai nativi americani dopo l'arrivo di Colombo è 
                  fondamentale e corrisponde ad avvenimenti storici importanti 
                  in Europa: la costituzione del Regno spagnolo, la cacciata dei 
                  mori e degli ebrei dalla Spagna. Insomma, bisognerebbe andarsi 
                  a rileggere nei documenti storici i veri motivi per cui questo 
                  personaggio è partito. 
                   
                    De Andrè: 
                  una sensibilità maggiore  
                 Il tema dei selvaggi sanguinari da film di John Wayne nel 
                  1980 era stato già superato da un pezzo. Film come Soldato 
                  Blu e Il piccolo grande uomo e libri come Seppellite 
                  il mio cuore a Wounded Knee avevano offerto un punto di 
                  vista nuovo. Pensa che il lavoro di De André abbia aggiunto 
                  qualcosa o tutto sommato questo album è arrivato un po' 
                  tardi? 
                   
                  Seppellite il mio cuore a Wounded Knee è stato 
                  il libro che ha consentito a una generazione di scoprire cosa 
                  è realmente accaduto ad alcune nazioni indigene del Nord 
                  America, soprattutto degli Stati Uniti. Quindi certamente rispetto 
                  al libro e anche rispetto ai due film Fabrizio De André 
                  arriva dopo. Però De André porta su questo tema 
                  una maturazione di comunicazione come solo lui sapeva fare. 
                  Anche rispetto alle immagini finali di Soldato Blu, orrende 
                  ma vere, o rispetto al libro, la poesia in note di De André 
                  ha dato un corpo maggiore, una maggiore sensibilità, 
                  una maggiore coscienza, maggiore opportunità e anche 
                  maggiore immediatezza. E c'è qualcuno, magari appartenente 
                  alla generazione successiva alla mia, che ha scoperto la storia 
                  dei nativi americani così. 
                   
                  Parlando di questo, Mariano Brustio, della Fondazione De 
                  André, ha scritto: “Fabrizio De André ha 
                  tentato di aprire la mente a qualcuno, lo ringrazio perché 
                  l'ha aperta anche a me”. Una canzone come Fiume Sand 
                  Creek potrebbe aver aperto la mente a qualcuno più 
                  di quanto poteva fare il libro di Dee Brown? 
                   
                  Qualche beneficio è arrivato anche alla nostra associazione, 
                  ma sono sicuro che proprio a livello di massa, come fenomeno 
                  generale, questa canzone ha avvicinato molta gente alla causa 
                  dei nativi americani. La stessa immagine scelta per la copertina 
                  dei disco4, i testi delle canzoni... 
                  sono sicuro che molti si sono avvicinati o riavvicinati allo 
                  studio delle culture native proprio grazie a questo disco, come 
                  per altre cose del lavoro di De André. Pensi al fatto 
                  che lui, dopo questo lavoro, ha riscoperto il genovese antico5: 
                  in molti qui a Genova, io per primo, abbiamo riscoperto la voglia 
                  di parlare nella nostra lingua nativa. Anche dalla nostra volontà 
                  di salvaguardare le culture dei nativi americani è nata 
                  la voglia di riscoprire le nostre radici e questo penso che 
                  sia in sintonia con il messaggio di Fabrizio. 
                   
                  Fiume Sand Creek, pur parlando di un terribile massacro, 
                  è delicata nella scelta dei termini, ricca di riferimenti 
                  poetici e immagini evocative. Crede che De André abbia 
                  volutamente utilizzato un linguaggio evocativo per avvicinarsi 
                  alla spiritualità dei nativi americani? 
                   
                  Sicuramente sì. La canzone, nel ritmo e nel testo, è 
                  molto evocativa della ritualità e della spiritualità 
                  dei nativi americani, basti pensare a quando ricorda il gioco 
                  delle frecce: una freccia verso al cielo, una freccia al vento... 
                  è molto spirituale. 
                   
                  Parlando di spiritualità, la vostra associazione è 
                  anche impegnata a diffondere la conoscenza della spiritualità 
                  dei nativi americani. De André affida la chiusura dell'album 
                  a una canzone come Verdi pascoli che si ispira a una 
                  danza rituale. I verdi pascoli ci appaiono come una sorta di 
                  Paradiso, un sogno di futura liberazione dall'oppressione e 
                  dall'annientamento. 
                   
                  È una canzone piena di speranza, come sono pieni di speranza 
                  anche i nativi americani, pur essendo la minoranza per eccellenza, 
                  soprattutto in Nord America (per l'America del Sud l'analisi 
                  è diversa). Può sembrare un'immagine un po' stereotipata, 
                  questa dei nativi che parlano sempre dei pascoli celesti, dei 
                  verdi pascoli, ma è sicuramente un'immagine che rappresenta 
                  la speranza, perché i nativi americani alcuni anni fa 
                  hanno avuto un rinascimento piuttosto consistente, paragonabile 
                  al nostro Rinascimento, e oggi certe cose non si possono più 
                  fare in Nord America. Non si può più dire che 
                  sono dei selvaggi, non si possono più dire certe cose 
                  o usare certe parole offensive. 
                  Allora i verdi pascoli oggi non sono più quelli del nativo 
                  americano stereotipato, ma rappresentano una speranza legata 
                  a questo rinascimento che chiede il rispetto della cultura, 
                  che invoca una sopravvivenza anche fisica, che chiede il rispetto 
                  della lingua. Basti pensare che al confine con il Canada c'è 
                  una nazione composta oggi solo da 900 individui e una sola persona 
                  che ancora parla la lingua indigena di questo gruppo! Quando 
                  morirà questa persona, che oggi ha 89 anni, morirà 
                  quella lingua e morirà quella cultura. 
                  Oggi allora la speranza dei verdi pascoli è questa: quella 
                  di riconquistare un'identità e di avere dei diritti sacrosanti. 
                  I nativi americani sanno di essere pochi, numericamente, quindi 
                  per esempio il loro peso elettorale è nullo. Però 
                  la speranza c'è.  
                   
                    Una 
                  spiritualità libertaria 
                 Per completare il quadro spirituale, l'album contiene anche 
                  Se ti tagliassero a pezzetti, una canzone che, nelle 
                  parole di De André “è ispirata al tema della 
                  libertà che, minacciata dalla civiltà, sopravvive 
                  sempre nel cuore dell'uomo”. Un tema che era già 
                  caro al De André libertario e anarchico. Un indiano si 
                  sarebbe ritrovato in queste definizioni? 
                   
                  Ricordo che un paio di mesi dopo la morte di Fabrizio è 
                  venuto a Genova Gilbert Douville6, 
                  un amico Lakota che doveva tenere delle conferenze nelle scuole. 
                  In quella occasione gli abbiamo raccontato di Fabrizio, gli 
                  abbiamo fatto vedere le immagini del funerale con quella grande 
                  partecipazione di popolo, abbiamo provato a spiegargli chi era, 
                  raccontando proprio di questa spiritualità in senso libertario. 
                  Lui ha molto apprezzato. Non è stato semplice, perché 
                  bisogna tener conto che il nostro concetto di libertà 
                  non è facilmente comprensibile per loro. I nativi americani 
                  non hanno vissuto le esperienze della nostra società 
                  industriale, se non come vittime della conquista. Certo, capiscono 
                  la libertà suprema della poesia, ma sicuramente bisogna 
                  spiegarglielo cos'è un anarchico! Comunque Gilbert mostrò 
                  grande apprezzamento per Fabrizio. 
                   
                  La canzone si apre e si chiude con una strofa molto poetica, 
                  di quelle che, come si dice oggi spesso parlando di De André, 
                  “reggono il foglio” anche senza bisogno di spartito. 
                  Ci troviamo il vento, il regno dei ragni, la luna, i capelli, 
                  il viso, il polline di Dio e il suo sorriso. È tutta 
                  fantasia degli autori o lei ci riconosce anche uno studio accurato 
                  del modo di esprimersi dei nativi americani? 
                   
                  Io riconosco lo studio e so anche, da quello che si racconta 
                  nell'ambiente musicale genovese, che lui si era documentato 
                  molto, aveva fatto delle ricerche, voleva capire. Col suo spirito 
                  di poeta è andato a interpretare dei messaggi, delle 
                  parole che sicuramente fanno riferimento ai nativi americani, 
                  perché davvero i nativi americani hanno questo modo di 
                  esprimersi, spesso anche molto legato a simboli naturali o spirituali. 
                  Quindi le immagini della canzone le vedo tutte bene con riferimento 
                  ai nativi americani. Basti pensare al ragno: ci sono culture 
                  native che hanno proprio delle leggende legate ai ragni. 
                   
                  Queste canzoni potrebbero superare i confini della questione 
                  nordamericana e diventare simboli dell'oppressione di tutti 
                  i popoli indigeni? Abbiamo già detto che parlando dell'Australia 
                  ci viene spontaneo riferirci agli aborigeni. 
                   
                  Sicuramente sono canzoni simbolo, forse non tanto per gli indigeni 
                  stessi, quanto per noi europei, per spingerci a ricordare quelle 
                  culture, quelle popolazioni e quella volontà di continuare 
                  ad esistere nella loro diversità. Fabrizio dava dei messaggi 
                  forti, ma questi messaggi soprattutto dobbiamo recepirli noi, 
                  perché i popoli indigeni hanno già i loro messaggi. 
                  Ma le canzoni di De André possono servire a noi, per 
                  farci capire cosa abbiamo sbagliato nei confronti di queste 
                  popolazioni. 
                   
                  Ricordo di aver letto, qualche anno fa, su un giornale, che 
                  alcuni esponenti dei movimenti dei nativi americani avevano 
                  fatto dei complimenti a De André per questo disco. Però 
                  poi questo dato è scomparso dalle biografie dedicate 
                  al cantautore. Lei che si occupa di queste cose ha qualche elemento? 
                  Può confermare questo dato oppure è solo una mia 
                  allucinazione? 
                   
                  Posso confermarlo, ma solo a un livello molto generico: so che 
                  questa cosa è accaduta però, pur essendo un discreto 
                  ricercatore, che accumula molto materiale sui nativi americani, 
                  un riferimento scritto su questo non l'ho ancora trovato. Però 
                  so che c'erano state queste prese di posizione. Ma soprattutto 
                  posso dire che le abbiamo verificate direttamente noi, dopo 
                  la morte di De André. Prima ho citato Gilbert Douville, 
                  ma noi annoveriamo fra i nostri collaboratori anche altri nativi, 
                  di altre nazioni e a tutti abbiamo spiegato chi era Fabrizio 
                  De André e gli elogi ci sono stati, veramente, perché 
                  capiscono anche la spiritualità del messaggio e la volontà 
                  dell'autore. Capiscono che finalmente qualcuno, anche a questi 
                  livelli, si è accorto che i nativi americani esistono. 
                   
                    L'ultimo 
                   grande capo 
                 Durante questa intervista l'ho sentita riferirsi sempre 
                  molto affettuosamente a De André, chiamandolo Fabrizio, 
                  quasi fosse un vecchio amico. Se lei avesse avuto la possibilità 
                  di conoscerlo, dopo Fiume Sand Creek, da appassionato e studioso 
                  dei nativi americani, cosa le sarebbe piaciuto dirgli? 
                   
                  In effetti io Fabrizio l'ho conosciuto, qualche anno prima di 
                  quel disco. Ero entrato in contatto con lui tramite il gruppo 
                  musicale con cui cantava all'epoca e quando l'ho incontrato 
                  era già una persona di grande spiritualità. Se 
                  lo avessi incontrato nuovamente dopo la pubblicazione del disco 
                  probabilmente gli avrei detto quello che ho scritto sulla nostra 
                  rivista, nell'editoriale dedicato al suo ricordo. L'editoriale 
                  s'intitolava: Oka Eja, che, in lingua Lakota, è 
                  una sorta di invito a continuare, anche se non c'è più. 
                  Si trattava di una incitazione per i giovani guerrieri, un invito 
                  ad andare avanti, a continuare comunque. Nell'editoriale io 
                  avevo citato anche una frase a cui tengo molto, una frase pronunciata 
                  da Alce Nero7, cugino di Cavallo 
                  Pazzo8 (dico Alce Nero e Cavallo 
                  Pazzo per chiarezza, ma in realtà noi ormai tendiamo 
                  a utilizzare i nomi veri e non questi nomi strani che hanno 
                  inventato i bianchi). Cavallo Pazzo è stato l'ultimo 
                  grande leader dei nativi americani, tanto grande che adesso 
                  gli stanno facendo il monumento più grande del mondo, 
                  una montagna intera! Si tratta di un progetto completamente 
                  autofinanziato. Quando Cavallo Pazzo è stato assassinato, 
                  Alce Nero ha pronunciato questa frase, che io ho voluto dedicare 
                  a Fabrizio: “non importa dove giace il suo corpo, ma dove 
                  vola il suo spirito, sarebbe bello stare”. Ecco, questo 
                  è proprio quello che pensiamo di Fabrizio. 
                   
                  Vuole concludere con una sua riflessione? 
                   
                  L'anno prossimo sembra che vogliano fare a Genova dei festeggiamenti 
                  per l'anniversario della nascita di Colombo. Anche in quella 
                  occasione inviteremo a non partecipare e a chiedere scusa ai 
                  nativi americani. L'ha fatto anche il Papa, l'ha fatto persino 
                  Clinton, potremmo farlo anche noi! Io sono contento di poter 
                  riaffermare oggi, da questi microfoni, che io non partecipo 
                  alle celebrazioni colombiane. Poi, guardi, sinceramente: c'è 
                  questa lotta con gli spagnoli per decidere se Colombo è 
                  nostro o è loro... ma se la Spagna lo vuole, che se lo 
                  tenga! Che senso ha andare a celebrare l'inizio del più 
                  grande massacro della storia? Parliamo piuttosto dei nativi, 
                  della loro storia, di quello di cui hanno bisogno oggi. 
                   
                  Renzo Sabatini 
                Note
 
                  - Per approfondimenti: www.hunkapi.it. 
                  
 - Il 29 novembre 1864 la cavalleria americana attaccò 
                    in forze i cheyenne accampati sul fiume Sand Creek, nel Colorado, 
                    massacrando, torturando, e mutilando brutalmente oltre 160 
                    persone inermi. I cheyenne avevano avuto rassicurazioni sulla 
                    propria incolumità dal comandante del vicino Fort Lyon, 
                    da cui partirono le truppe che compirono il massacro, al comando 
                    del colonnello Chivington. I guerrieri erano perciò 
                    partiti per la caccia, lasciando nell'accampamento solo vecchi, 
                    donne e bambini. Le inchieste che seguirono il brutale massacro, 
                    sebbene forti di molte testimonianze, non ebbero alcun esito. 
                    L'episodio è riportato ampiamente nella storiografia 
                    americana (si veda ad esempio: Dee Brown, Seppellite 
                    il mio cuore a Wounded Knee, USA, 1970). 
                  
 - Bruno Lauzi (1937-2006) era vivente all'epoca dell'intervista. 
                  
 - L'album, senza titolo, è stato popolarmente ribattezzato 
                    “L'indiano” proprio perché sulla copertina 
                    è rappresentato un quadro del pittore statunitense 
                    Frederic Remington (1861-1909) raffigurante un indiano a cavallo. 
                  
 - Si riferisce al successivo album di De André, 
                  “Creuza de Ma”, scritto con Mauro Pagani, pubblicato 
                  nel 1984.
                  
 - Nato nel 1951, membro dei Lakota. Dopo aver conseguito 
                  una laurea in diritto penale ha fatto una scelta “tradizionalista”, 
                  dedicandosi all'artigianato, alla poesia e alla conservazione 
                  della cultura millenaria del suo popolo. I Lakota, sottogruppo 
                  dei Sioux Brulé, sono originari di quello che oggi è 
                  lo stato settentrionale USA del South Dakota.
                  
 - Black Elk o Alce Nero (1863-1950), sciamano della tribù 
                    Oglala, della famiglia dei Sioux-Lakota, ha raccontato la 
                    sua vita nel libro Black Elk Speaks (pubblicato in Italia 
                    con il titolo “Alce Nero parla”), divenuto un 
                    autentico caso editoriale, di fondamentale importanza anche 
                    per la conoscenza antropologica della cultura dei nativi americani. 
                  
 - Crazy Horse o Cavallo Pazzo (1840-1877), guerriero Oglala, 
                    leader nella resistenza contro l'esercito americano, assassinato 
                    a Camp Robinson, Nebraska, dopo essersi arreso.
  
                (intervista realizzata via telefono il 30 agosto 
                  2005. Registrata presso gli studi di Rete Italia – Melbourne. 
                  Andata in onda nell'ambito della trasmissione radiofonica settimanale: 
                  “In Direzione Ostinata e contraria”, dedicata ai 
                  personaggi delle canzoni di Fabrizio De André) 
                
                   
                    |   In 
                        direzione ostinata e contraria  
                       Con 
                        questa intervista a Paolo Solari, prosegue la pubblicazione 
                        su “A” di una parte significativa delle 27 
                        interviste radiofoniche realizzate da Renzo Sabatini 
                        e andate in onda in Australia nel programma “In 
                        direzione ostinata e contraria” sulle frequenze 
                        di Rete Italia fra il maggio 2007 e l’agosto 2008. 
                        In tutto si è trattato di sessanta puntate (ciascuna 
                        della durata di circa quaranta minuti, per un totale di 
                        quasi 40 ore di trasmissioni), nel corso delle quali sono 
                        state trasmesse le 27 interviste e messe in onda tutte 
                        le canzoni di Fabrizio De André. Si tratta dunque 
                        della più lunga e dettagliata serie radiofonica 
                        mai dedicata al cantautore genovese. 
                       Se proponiamo questi testi, 
                        è innanzitutto per dare ancora una vlta spazio 
                        e voce a quelle tematiche e a quelle persone che di spazio 
                        e voce ne hanno poco o niente nella “cultura” 
                        ufficiale. E che invece anche grazie all’opera del 
                        cantautore genovese sono state sottratte dal dimenticatoio 
                        e poste alla base di una riflessione critica sul mondo 
                        e sulla società, con quello sguardo profondo e 
                        illuminante che Fabrizio ha voluto e saputo avere. Con 
                        una profonda sensibilità libertaria e – scusate 
                        la rima – sempre in direzione ostinata e contraria. 
                       Precedenti interviste 
                        pubblicate: a Piero 
                        Milesi (“A” 370, aprile 2012), a Carla 
                        Corso (“A” 371, maggio 2012), Porpora 
                        Marcasciano (“A” 372, maggio 2012), Franco 
                        Grillini (“A” 373, estate 2012), Massimo 
                        (“A” 374, ottobre 2012), Santino 
                        “Alexian” Spinelli (“A” 375, 
                        novembre 2012). 
                        
                        la redazione di “A” | 
                   
                 
                 |