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				 teatro in Bolivia 4 
                  
                Teatro di confine 
                  
                di Federica Rigliani 
                    
                In una Bolivia frammentata, attraversata da lingue ed etnie diverse, un'esperienza teatrale in bilico tra le tecniche occidentali e la ricchezza della tradizione andina. La storia di César Brie e del Teatro de los Andes. 
                 
                  Il Teatro de los Andes è 
                  un gruppo di teatro che attualmente vive e lavora in Bolivia, 
                  a Sucre. La sua è la storia singolare di alcune persone 
                  che si sono ritrovate e riconosciute in quelle motivazioni che 
                  le hanno avvicinate e fuse in una comunità di vita e 
                  di lavoro. Il loro scopo era quello di fare teatro, l'obiettivo 
                  quello di vivere del proprio lavoro. Ho vissuto e lavorato con 
                  loro circa tre anni e ho riportato con me un'esperienza unica 
                  che mi ha permesso di conoscere un gruppo deciso a intraprendere 
                  un progetto teatrale in una Bolivia internamente frammentata, 
                  vissuta e attraversata da diverse etnie, lingue, religioni e 
                  culture che rappresentano la sua grande ricchezza, ma che continuano 
                  ad occupare un posto marginale e discriminato all'interno del 
                  paese. Ciò che segue è la storia del Teatro de 
                  los Andes dal 1991, anno in cui il regista argentino César 
                  Brie lo fondò, e dei primi dieci anni di lavoro e attività 
                  realizzate in Bolivia, salutati con un festival organizzato 
                  proprio per quell'occasione dopo il quale sono rientrata in 
                  Italia. 
                  L'idea di costituire un gruppo di teatro in Sudamerica venne 
                  a César Brie quando, dopo il 1989, decise di riavvicinarsi 
                  alla sua cultura, alla terra delle sue origini e alla sua lingua. 
                  Aveva lasciato l'Argentina durante la dittatura di Lanusse in 
                  una sorta di esilio volontario: allora aveva 17 anni, viveva 
                  a Buenos Aires e lavorava con la Comuna Baires. Nel 1973, 
                  appena diciannovenne, approdò in Italia con la Comuna 
                  Nucleo di Horacio Czertok e Cora Herrendorf ma presto fondò 
                  il gruppo Tupac Amaru al Centro sociale Isola di Milano, 
                  dove lavorò per lo più da solo, spesso ai limiti 
                  della sopravvivenza, organizzando corsi di teatro nei centri 
                  sociali: “Riconosco quegli anni come fondamentali nella 
                  mia formazione umana ed artistica. Facevo teatro, un laboratorio 
                  [...] ossessionato col teatro e le ricerche, ma ancora incapace 
                  di esprimere niente di importante”. 
                  Insieme a Danio Manfredini, Giampaolo Nalli e Dolly Albertin 
                  lavorò con il Teatro di Base fino al 1980, quando 
                  un seminario di lunga durata lo portò a Fara Sabina. 
                  Lì conobbe Farfa, il gruppo teatrale diretto da 
                  Iben Nagel Rasmussen, la grande attrice dell'Odin Teatret 
                  che per lui “incarnava ciò che Barba diceva sull'attore, 
                  sull'etica, sull'idea di gruppo”. Fu così che arrivò 
                  in Danimarca, all'Odin Teatret di Eugenio Barba, dove 
                  rimase fino al 1989. 
                  Chissà quanto incisero su di lui e sulla sua scelta di 
                  tornare in Sudamerica i numerosi viaggi di scambio e baratto 
                  interetnico dell'Odin Teatret – che lo riportarono 
                  spesso nel suo continente mettendolo di fronte all'evidente 
                  dimenticanza dell'uso della sua propria lingua – fatto 
                  sta che abbandonò quella strada per lui ormai solo in 
                  salita e affrontò il ritorno per essere di nuovo uno 
                  straniero. Non scelse, infatti, l'Argentina, ma la Bolivia. 
                  Arrivò nell'agosto del 1991 con Giampaolo Nalli e, ironia 
                  della sorte, Naira Gonzáles, il cui esordio in teatro 
                  risaliva a quando aveva solo cinque anni e percorreva in lungo 
                  e in largo il territorio boliviano con il padre Edgar Darío 
                  Gonzáles e i suoi burattini. A Brie per primo sembrava 
                  difficile, quasi impossibile, realizzare il suo progetto in 
                  una terra dove non esisteva un teatro professionale e dove era 
                  difficilissimo incontrare un pubblico interessato, ma solo lì 
                  trovò quella motivazione che spiegò fino in fondo 
                  la sua scelta di fermarsi, di stabilirsi per vivere e fare teatro. 
                  Questa fu la sua sfida. 
                  Imparare a vivere in Bolivia, guardarsi intorno, osservare, 
                  prendere in prestito parti della magia locale, delle forme, 
                  dei colori e delle musiche che li prevalevano fu il primo passo, 
                  cominciare a pensare in che modo usarli con l'intenzione di 
                  trovare una formula teatrale in grado di comunicare con tutte 
                  le tipologie del pubblico boliviano divenne prioritario. Compito, 
                  questo, estremamente difficile. Per poter parlare a tutte le 
                  diversità sociali, ai creoli, ai meticci e agli indigeni 
                  bisognava, infatti, creare un ponte tra quelle che erano 
                  le tecniche occidentali da loro conosciute e praticate e la 
                  ricchezza infinita della tradizione andina che abitava questa 
                  parte del mondo. Proprio le tradizioni locali e la storia del 
                  paese furono la forza di cui piano piano si alimentarono, un'energia 
                  che risiede nei gesti ancestrali di questo popolo e che entra, 
                  lentamente ma a pieno diritto, nella drammaturgia dei Los 
                  Andes. 
                
                  
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 Teatro 
                        de los Andes, La Ilíada  | 
                   
                 
                 
                  Tra due mondi 
				  
                 In questo viaggio nella cultura boliviana stava tutto il tentativo 
                  di realizzare “un teatro nuovo e allo stesso tempo antico”, 
                  i cui elementi formali interrogassero quelli rurali e indigeni. 
                  Con questi presupposti inizia l'avventura del Teatro de los 
                  Andes all'interno di una cultura, di un paese e di un popolo, 
                  perché proprio nella convivenza tra questi due mondi, 
                  l'occidentale e l'andino, esisteva un luogo per il teatro che 
                  César Brie aveva in mente: “un teatro che accogliesse 
                  forme e colori, che raccogliesse voci e diversità”. 
                  La ricerca sui materiali formali e scenici è senza dubbio 
                  l'elemento che ha permesso di guardare e di assorbire le forme 
                  tipiche di questa cultura per poi fissarle in quei punti/ponti 
                  di unione e di scambio che volevano costruire. La volontà 
                  di avvicinarsi alla metafisica andina e al suo sentire, passaggio 
                  indispensabile per comunicare con la realtà dei meticci, 
                  dei contadini e degli autoctoni, muove dal profondo il progetto 
                  teatrale dei Los Andes e la sua produzione drammaturgica 
                  apre le porte a riflessioni artistico-analitiche evidenti soprattutto 
                  negli spettacoli che consideriamo espressione di unione e connubio 
                  tra mondi e culture diverse. Ogni elemento locale diventa materiale 
                  formale da interrogare, ma guardare la realtà significa 
                  paradossalmente allontanarsi da essa: “Il teatro, la scena, 
                  sta nella vita ma non è la vita, è a fianco della 
                  vita, è un luogo autonomo che forma parte della vita”.1 
                  Secondo il regista, infatti: “[...] le opere d'arte devono 
                  porsi il problema di superare l'imitazione della realtà. 
                  Devono essere opere indipendenti, creazioni vive [...] sistemi 
                  [...] liberi dal realismo aneddotico della vita quotidiana”2 
                  per risolversi nella convenzione coerente in cui essa stessa 
                  si trasforma, considerando tutte le ricerche fatte nel tentativo 
                  di rappresentarla e partendo “dalla lezione di Mejerchol'd, 
                  [...] un teatro reale nell'evento non nella realtà, ma 
                  nell'idea di assumere un'eterna convenzione al cui interno tutto 
                  può succedere”. 
                  L'esperienza europea accumulata dal regista fa sì che 
                  in questa ricerca trovino posto tutte le avanguardie di questo 
                  secolo che, in un modo o nell'altro, hanno influenzato il suo 
                  lavoro: “Le ricerche delle avanguardie, i colori dell'America 
                  latina, le diverse forme di pensare, ciò che la geografia 
                  provoca nelle persone, i problemi sociali che qui esistono... 
                  tutto questo deve costruire una parte nella nostra estetica”. 
                  Un'estetica di una semplicità commovente. Prescindendo 
                  volontariamente dal superfluo, l'estetica del Teatro de Los 
                  Andes prende vita dalla consapevolezza della forza e della potenza 
                  proprie della scena, dei suoi elementi e dei suoi oggetti. Questa 
                  ricerca è guidata dallo studio di forme semplici, per 
                  un teatro popolare comprensibile e immediato. E la vera essenza 
                  di un “teatro popolare” sta, per l'autore, nell'espressione 
                  di una ricerca teatrale che sia comprensibile a più livelli, 
                  ma che sia contemporaneamente universale e colta. Quello della 
                  semplicità è un concetto che racchiude in sé 
                  una enorme difficoltà, perché ciò che è 
                  semplice non è facile e, soprattutto, non è facile 
                  da costruire: “Dal punto di vista della costruzione, (le 
                  nostre opere) possono essere molto complesse [...] però 
                  cerchiamo di far sì che ciò che è complesso 
                  diventi semplice [...] il semplice è il complesso 
                  che assume una forma immediata”3. 
                  Non a caso, nell'esaminare la semplicità delle forme 
                  sceniche con cui i Los Andes si presentano, Lupe Cajías 
                  fa un bellissimo paragone tra la loro estetica e le immagini 
                  che predominano la cultura andina nella quotidianità: 
                  “l'unione della parola e della musica, l'uso delle maschere, 
                  l'uso dei colori forti. Elementi molto importanti nella cultura 
                  andina. Inoltre il ballo, il gioco permanente, le azioni molto 
                  semplici. Come la montagna. La montagna non è complessa, 
                  la puoi vedere, non è la selva. Non ci sono rumori, c'è 
                  semplicità nella musica delle Ande, nella coreografia, 
                  nel cibo frugale, nel lavoro che si relaziona molto direttamente 
                  con la natura.”4. 
                  Secondo Brie sono due le spinte motrici che regolano la forza 
                  della scena e che esistono solo nel momento in cui vanno nella 
                  direzione degli spettatori per tornare poi al teatro, e viceversa: 
                  la rap/presentazione ed il ri/conoscimento. Per 
                  l'attore rap/presentare risponde all'esigenza di presentare 
                  forme della vita che nella vita non si percepiscono, per lo 
                  spettatore ri/conoscersi risponde all'esigenza di conoscere 
                  di nuovo quelle stesse forme, brutte e dolorose nella vita, 
                  per ritrovarle belle sulla scena “Se ciò 
                  che è orribile nella vita diventa bello nell'arte, questo 
                  significa che la vita, così com'è, è irrappresentabile 
                  e che l'arte si alimenta della vita ma mostra sempre una metafora, 
                  non una riproduzione”.5 
                  Forma organica nello spazio 
				  
                 La semplicità si confronta quindi con la bellezza, 
                  con le sue forme e la sua essenzialità, prescindendo 
                  da canoni estetici o modelli costituiti: “ogni cosa che 
                  facciamo, deve essere bella. [...] Non mi riferisco al bello 
                  di una tendenza estetica, ma alla bellezza nella sua accezione 
                  originale: possedere forma organica in rapporto allo spazio 
                  e agli elementi che in esso agiscono”6. 
                  Lo scopo è quello di aprire al pubblico le porte della 
                  percezione per introdurlo nelle emozioni metafisiche e arrivare 
                  nella parte più intima e profonda della sua anima. Ma 
                  semplicità e bellezza devono poter commuovere lo spettatore 
                  e solo attraverso la poesia propria di un testo teatrale, delle 
                  immagini e delle metafore sceniche si può arrivare a 
                  scuotere ciò che di più intimo e profondo alberga 
                  dentro di noi. In questo senso il lavoro degli attori del Teatro 
                  de los Andes è dare voce e immagine alla poesia che ciascuno 
                  di loro sente dentro: ascoltare la propria sensibilità 
                  permette all'attore-poeta di scoprire la propria abilità 
                  di creare immagini poetiche e la capacità di dargli forma 
                  attraverso metafore visive e sceniche. 
                  Gli ultimi spettacoli preparati in Europa, Il mare in tasca, 
                  monologo autobiografico del 1989 e Romeo y Julieta, trasposizione 
                  del testo di Shakespeare, scritto e interpretato da Brie-González 
                  nel 1991, furono i primi ad essere rappresentati in Sudamerica 
                  e segnarono l'inizio dell'attività del Teatro de Los 
                  Andes. Brie si presenta con un monologo personale di grande 
                  componente biografica, dominante in questa fase della sua produzione 
                  artistica e presente anche in alcuni monologhi successivi. L'artista 
                  ripercorre le tappe della sua esistenza: il suo esilio, gli 
                  amori perduti, la scoperta del sesso, momenti importanti che 
                  hanno segnato il suo percorso umano ed artistico. Temi di gioia 
                  e di sofferenza cari all'uomo, che lasciano la dimensione biografica 
                  dell'autore per universalizzarsi, come parte esistente in tutti 
                  i percorsi umani, per questo la sua biografia non diventa autocelebrazione, 
                  ma colpisce lo spettatore nel fondo della sua propria storia 
                  e universalizza la comunicazione teatrale “Il teatro è 
                  universale quando, parlando di qualcosa di molto particolare 
                  o di un luogo o di una persona, dici qualcosa a tutti. [...] 
                  Quando ciò che mi riguarda riguarda tutti, e quando ciò 
                  che riguarda gli altri riguarda anche me. In quel momento il 
                  teatro è universale. Non sono molti i temi dell'uomo, 
                  e ogni teatro universale affronta questi temi e li fa riconoscere 
                  all'uomo in forme particolari.” Coincidenza volle che 
                  proprio il Centro de Portales di Cochabamba, lo stesso 
                  che aveva permesso a Chango di iniziare, finanziò un 
                  progetto di pochi mesi durante i quali furono presentate queste 
                  prime due opere. Ma per poter cominciare a lavorare davvero 
                  divenne fondamentale cercare una sede e a Yotala, un piccolo 
                  paese di duemila abitanti a 15 Km da Sucre, trovarono un vecchio 
                  podere abbastanza grande che si prestava bene ad ospitare il 
                  teatro. Intanto gli attori Emilio Martínez dalla Spagna, 
                  Maria Teresa Dal Pero e Filippo Plancher dall'Italia, e i boliviani 
                  Gonzalo Callejas e Lucas Achirico si erano uniti al gruppo, 
                  tutti insieme ristrutturarono la casa, costruirono la sala teatro 
                  e lavoravano al loro primo spettacolo: “Il Teatro de los 
                  Andes inizia il suo lavoro in Bolivia nell'agosto del 1991. 
                  Ma il gruppo si formò soltanto nel luglio del '92, quando 
                  cominciammo a costruire il nostro primo spettacolo, Colón, 
                  ed abitare nella nostra casa di Yotala.”7 
                  Il successo con cui fu accolto Colón e l'ultimazione 
                  della casa-teatro permisero la professionalizzazione dell'attività 
                  teatrale del gruppo e il lavoro dell'attore divenne un vero 
                  e proprio mestiere a cui dedicarsi totalmente, con indipendenza 
                  e assoluta libertà di espressione artistica, per una 
                  nuova ricerca formale ed estetica. La casa si aprì subito 
                  all'esterno grazie all'organizzazione di numerosi seminari, 
                  secondo il regista punti di incontro rivolti soprattutto ai 
                  giovani: “bambini, giovani, educatori e cultori del teatro: 
                  loro saranno il punto di partenza di questo progetto”, 
                  ma anche di scambio e confronto con le realtà sociali 
                  e con tutti coloro interessati alla ricerca e allo sviluppo 
                  del linguaggio teatrale, dentro e fuori la Bolivia. 
                
                   
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                    |   Teatro 
                        de los Andes, Odisea  | 
                   
                 
                 
                  Attraversamenti e frontiere 
				  
                 La convivenza delle diversità all'interno del nucleo 
                  dei Los Andes è già rappresentativa di quell'esigenza 
                  di incontro e di rispetto per l'altro che trova fusione nell'espressione 
                  di un'arte come punto di arrivo collettivo. Le differenze vengono 
                  assorbite ed elaborate con lo scopo di creare un linguaggio 
                  comune, all'interno e all'esterno del gruppo, che non ne limiti 
                  in alcun modo la ricerca espressiva. Costruire un teatro portavoce 
                  di pluralità significa rispettare anche la radice da 
                  cui questo stesso teatro proviene, perché ognuno partendo 
                  dalla propria formazione all'interno delle diverse culture di 
                  appartenenza esprime singolari maniere di sentire e di conoscere 
                  il mondo: “Per esempio qui in Bolivia la gente indigena 
                  ha un modo di fare che crea inevitabilmente un modo di essere 
                  attori differente. È difficile che Lucas, che è 
                  un ragazzo aymara, alzi la voce [...] certi sentimenti 
                  non ci sono, per cui la voce per esprimerli in quel modo non 
                  esce [...] e la rabbia si traduce in sofferenza, in dolore, 
                  non in furia. Tutte queste cose sono da scoprire.” 
                  Il carattere interetnico è il primo di tre distinti piani 
                  della zona di frontiera su cui si posiziona il gruppo, gli altri 
                  riguardano la frontiera relativa ai due campi, quello rurale 
                  e quello urbano, e la frontiera della doppia presenza, relativa 
                  alla strategia della presenza nei luoghi del teatro istituzionale. 
                  Per capire la seconda frontiera, zona di confine tra culture, 
                  usanze, lingue e tradizioni del territorio in cui il Teatro 
                  de los Andes agisce, è necessario proiettare la sua realtà 
                  interna verso la realtà sociale boliviana, contraddittoria 
                  e piena di differenze, che determina una difficile identificazione 
                  culturale delle diverse classi sociali. L'aspetto andino e quello 
                  occidentale coesistono in Bolivia come due culture diverse e 
                  non come aspetti diversi di una stessa cultura, realtà 
                  che mostra gli scarsi punti di contatto tra due mondi socialmente 
                  lontani: da una parte una società urbana, minoritaria 
                  e concentrata nelle città, economicamente influente e 
                  impegnata culturalmente nell'imitazione del sapere occidentale; 
                  dall'altra un vasto mondo rurale, povero e marginale, appartato 
                  e isolato dalla cultura moderna ma intimamente legato alle sue 
                  lontane radici e alle sue divinità. Per entrare in contatto 
                  con il pubblico indigeno, e con la sua ancestrale tradizione, 
                  il gruppo doveva raggiungere i senza teatro, i contadini, 
                  gli indigeni, i minatori, i lavoratori, coloro che non vanno 
                  al teatro perché non si vedono rappresentati. Arrivare 
                  fisicamente a questo pubblico significava, per Brie, abbattere 
                  la frontiera tra i due campi: “Perché non togliere 
                  il teatro dai suoi antiquati edifici e non portarlo, come è 
                  stato già fatto, nei luoghi di lavoro, nei carnevali, 
                  nelle sale parrocchiali, nelle piazze? Ci renderemo conto di 
                  quanto questo arricchirà il nostro teatro, di quanti 
                  pregiudizi cadranno, di quanto è molto più facile 
                  di quello che crediamo comunicare con gli altri”.8 
                  L'ultima frontiera, invece, è il corridoio che il Teatro 
                  de los Andes percorre tra i luoghi istituzionali del teatro 
                  e quelli non convenzionali. Nei primi è importante esserci 
                  per diverse ragioni. Da un lato permettono la conoscenza di 
                  altri gruppi e il confronto con i loro metodi e il loro studio: 
                  “nei festival hai la possibilità di capire verso 
                  dove stanno andando le loro ricerche, cos'è quello che 
                  loro vogliono esprimere e cosa stanno cercando”. Dall'altro 
                  concretizzano una totale indipendenza economica, quindi creativa: 
                  “Si tratta di incontrare un equilibrio. La cosa più 
                  concreta è pensare di fare qualcosa che ti dia denaro 
                  per fare altro... venire a La Paz e lavorare nel (Teatro) Municipal 
                  tre giorni, ci permette di andare a El Alto, conoscere Chulumani 
                  e dopo andare ad Oruro”9. 
                  Questo avvicinamento, come forma comunicativa del fare teatrale, 
                  è stato teorizzato dal gruppo nell'idea di un triplice 
                  attraversamento: geografico, drammaturgico e etnico-antropologico. 
                  L'attraversamento geografico e sociale consiste nell'andare 
                  ovunque, “nell'attraversare questo paese in ogni suo luogo” 
                  raggiungendo villaggi isolati e piccoli pueblos. Un proposito 
                  che diventa ogni volta un'impresa perché viaggiare in 
                  Bolivia non è semplice e far viaggiare un gruppo di teatro 
                  che trasporti, oltre ai componenti, tutto ciò di cui 
                  ha bisogno, diventa molto difficile quando le strade si trovano 
                  a oltre 3000 metri di altezza, sono poco percorribili e difficilmente 
                  accessibili. Ma ridurre le distanze e rompere con l'isolamento 
                  tra una città e l'altra, tra un villaggio e l'altro, 
                  significa dialogare con le diverse culture di questo paese, 
                  conoscere e farsi conoscere. L'attraversamento drammaturgico, 
                  invece, impone al gruppo un confronto diretto con la tradizione 
                  culturale e storica, come dimostrano gli spettacoli Ubu in 
                  Bolivia (1994) e per alcuni aspetti Las abarcas del tiempo 
                  (1995): il primo rappresentativo del potere dittatoriale presentato 
                  come storia circolare tanto della Bolivia quanto del continente 
                  latinoamericano; il secondo come penetrazione più orizzontale 
                  della realtà del campo e dell'incontro con i campesinos. 
                  Studiare la storia di questo popolo, presentare scene che abbiano 
                  i colori di queste terre, i costumi, gli odori caratteristici 
                  e le immagini familiari che caratterizzano la vita delle Ande, 
                  significa per César Brie toccare le forme con 
                  le quali il gruppo si incontra ogni giorno, “è 
                  l'asse su cui noi costruiamo il nostro lavoro [...], in questa 
                  ricerca si trovano gli studi, il vissuto, gli interessi, il 
                  nostro pensiero estetico, la nostra sensibilità, le musiche, 
                  la ricerca cromatica...” 
                  L'ultimo, l'attraversamento etnico, pur legato strettamente 
                  all'attraversamento geografico comporta problemi differenti. 
                  Sólo los giles mueren de amor (1993) è 
                  il primo tentativo di attraversamento etnico, è il monologo 
                  con il quale entrano prepotentemente in scena nuovi elementi. 
                  Il protagonista viaggia verso l'oltretomba in un clima di forte 
                  spiritualità, tipicamente andina più che boliviana, 
                  che permea la cosmovisione delle popolazioni indigene. L'autore 
                  sceglie di utilizzare simboli del mondo autoctono e rurale attraverso 
                  la messa in scena di una veglia funebre: è la misa 
                  chica, scena funeraria allestita nelle case delle campagne 
                  delle comunità rurali andine il 2 Novembre, giorno dei 
                  morti. La scena si apre con un velorio, luogo della veglia 
                  in cui sono disposti, in maniera ordinata, tutti gli elementi 
                  che nel Dia de Difuntos si usano tra la gente del campo. 
                  Guardare la tradizione non significa, per Brie, trasportare 
                  sulla scena rituali e feste popolari, molto forti e molto concrete 
                  in Bolivia, ma capire la sensibilità delle popolazioni 
                  andine e la percezione che hanno del mondo che le circonda, 
                  solo così è possibile la trasposizione teatrale 
                  di quei temi ai quali loro credono e nei quali possano riconoscersi 
                  una volta diventati spettatori. Gabriel Martínez aveva 
                  capito l'importanza di questo aspetto per la realizzazione di 
                  un Teatro Campesino Indigeno: le tematiche che poteva 
                  affrontare con più facilità erano tutte contenute 
                  nei sogni di quei contadini e nel mito regionale; qualcosa di 
                  molto sentito e di molto profondo, sia dal punto di vista intimo, 
                  sia spirituale. Toccare questi settori è estremamente 
                  difficile, non richiede solo ricerca e studio ma una profonda 
                  conoscenza della spiritualità delle popolazioni che si 
                  vogliono raggiungere e delle loro lingue. Solo dopo nove anni 
                  dalla sua permanenza il Teatro de los Andes è arrivato 
                  in una comunità con uno spettacolo in lingua autoctona: 
                  lo spettacolo era En la cueva del lobo, la comunità 
                  indigena quella di Potolo, la lingua usata, il quechua. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Teatro 
                        de los Andes, Colón  | 
                   
                 
                 
                  La poetica del grottesco 
				  
La necessità di essere compresi con immediatezza e facilità ha dato vita ad una forma teatrale che, in un primo momento, è stata espressa dal Teatro de los Andes con la poetica del grottesco, attraverso gli spettacoli satirici Colón e Ubu in Bolivia. I Los Andes irrompono nello scenario boliviano con la forza della novità estetica e drammaturgica e creano nuove forme teatrali, che guardano alla tradizione e respirano la forza che da essa emana. 
Colón è il racconto del viaggio di Cristoforo Colombo e della scoperta dell'America, presentato in una versione libera e adulterata in cui i conquistatori interrogano i conquistati. Il Teatro de los Andes schernisce il pubblico con la malizia e l'aspetto dissacrante di una satira acida fortissima. L'umorismo sottolinea “che stai criticando qualche cosa, che stai facendo ridere con l'intenzione di sfuggire battute semplici e risa facili”. Ubu in Bolivia, l'adattamento della realtà boliviana dell'Ubu Rey di Alfred Jarry, è lo spettacolo che affronta il tema del potere e delle dittature, così presenti per ciclicità nella storia sudamericana, con la parodia ironica e grottesca del tiranno che sempre prende il potere uccidendo, rubando e sottomettendo le libertà degli uomini. 
                  Il testo prende spunto dalla storia nazionale, da eventi accaduti 
                  e da alcuni personaggi realmente esistiti, quelli che hanno 
                  fatto 'e disfatto' la storia di questo paese, quelli che hanno 
                  sempre deciso in nome della 'salvaguardia del bene nazionale' 
                  ma che nella realtà hanno poi garantito solo privilegi 
                  e ricchezze personali, relegando troppi uomini e troppe donne 
                  a una condizione di impoverimento e miseria assoluta. Ubu in 
                  Bolivia mette lo spettatore di fronte ad alcune crudeltà 
                  normali, gliele fa osservare con affanno e lo fa sorridere amaramente 
                  per la loro storica continuità. Ma non parla solo ai 
                  boliviani: aperto alla violenza che costringe l'intera umanità 
                  alla sofferenza diventa metatesto capace di usare forme così 
                  tipiche di un luogo e di uno spazio per cantare i grandi temi 
                  dell'uomo ed evidenziare più in generale la nostra impotenza 
                  come esseri umani. 
                  Il volgare e il sublime 
				  
                 La satira diventa il mezzo che distorce i fatti storici, ed 
                  i temi di questi due spettacoli si prestano molto, poiché 
                  il viaggio di Cristoforo Colombo verso la conquista dell'America 
                  e la ciclicità della tirannide nelle amministrazioni 
                  locali sono eventi universali, grandi ed epopeici e ”più 
                  grande è il modello o l'evento, maggiori sono le possibilità 
                  di satirizzarlo. Il grottesco fa ridere e si esprime 
                  tramite un linguaggio mal parlato che crea “una specie 
                  di contrappunto tra ciò che è volgare e ciò 
                  che è sublime”10, 
                  mettendo in ridicolo avvenimenti e personaggi attraverso la 
                  tensione, tenuta costantemente viva, dal punto di equilibrio 
                  tra perfezione e grossolanità, consegnando allo spettatore 
                  una visione ridanciana della realtà: “Il nostro 
                  teatro deve divertire, però anche dividere, provocare, 
                  scandalizzare. Consideriamo il teatro un gioco, però 
                  un gioco serio e divertente come la vita. Ci proponiamo di commuovere, 
                  però tagliando la testa alla commozione attraverso il 
                  riso. È un ridere che rimbalza, come una pietra lanciata 
                  nello stagno, affinché lo spettatore scorga nel fondo 
                  il suo volto deformato. E il suo ghigno possa interrogarlo”.11 
                  Questa è la formula con cui il Teatro de los Andes arriva 
                  al grande pubblico, andando oltre l'aspetto del teatro realista 
                  e presentando un teatro diretto, immediato, di facile comprensione 
                  e divertente. Lo stesso regista sembra convinto di questo quando 
                  afferma “credo che con il grottesco siamo partiti con 
                  il piede giusto...” 
                  Dopo Ubu in Bolivia, però, la poetica del grottesco non 
                  sarà più un aspetto totalitario nella loro produzione 
                  drammaturgica, poiché se da una parte permetteva di sviluppare 
                  alcune possibilità, dall'altra imponeva dei limiti al 
                  loro agire teatrale: “per esempio non ci permetteva di 
                  affrontare la tragedia, cosa che poi abbiamo fatto con Las Abarcas 
                  del Tiempo”. 
                  Proprio con la tragedia il gruppo indaga un nuovo linguaggio 
                  in cui ironia e sguardo beffardo rimangono elementi fondamentali, 
                  ma non più così caratterizzanti. Ancora una volta 
                  lo studio permette di attingere il materiale per l'opera ma, 
                  a differenza di Ubu, la ricerca non è prettamente storica: 
                  si studiano miti e rituali, ma soprattutto si approfondiscono 
                  le ricerche sociologiche e antropologiche, la cosmovisione andina 
                  e la concezione della morte, già iniziata con Solo los 
                  giles mueren de amor, i costumi, le usanze e le leggende. 
                  In Las abarcas del tiempo (1995) prendono la voce i campesinos 
                  minatori, quelli che per poter costruire una piccola casa lasciano 
                  tutto, scendono nella profondità delle miniere, si ammalano 
                  di silicosi e muoiono soli. Sono i contadini snaturati, i minatori 
                  improvvisati. Il mondo minerario diventa il punto di 
                  contatto tra la realtà urbana e quella rurale: “la 
                  miniera in Bolivia è uno dei luoghi dove città 
                  e campagna si toccano in un modo drammatico ed intenso. Dove 
                  anche l'occulto e il visibile si riconoscono e si confrontano”.12 
                  La scelta del viaggio nell'Ukhupacha, l'oltretomba, ha lo scopo 
                  di aiutare i vivi a trovare una nuova relazione, prima di tutto, 
                  con i vivi stessi. La memoria ha qui la stessa funzione che 
                  in Ubu: ricordare per capire, per non dimenticare. Cantare la 
                  morte per parlare della vita quindi, in una sorta di Divina 
                  Commedia andina che ci mostra una galleria di biografie locali 
                  segnate da morte violenta: Tomás Katari, Ismael Sotomayor 
                  e padre Espinal tra gli altri. Sono proprio loro a dare dimensioni 
                  diverse della morte, non solo morte fisica, ma morte della giustizia, 
                  morte della cultura, morte della dignità, morte della 
                  poesia. E ogni personaggio racconta la propria morte con voce 
                  delicata e poetica: “Il breve testo di quest'opera sintetizza 
                  studi di mesi, però non è un testo teorico, ma 
                  poetico, come è proprio di una scena teatrale. Abbiamo 
                  imparato molto da quest'opera. Ma soprattutto abbiamo imparato 
                  a conoscere l'enorme mole di cose che dobbiamo studiare e filtrare 
                  per poter continuare ad andare avanti”13. 
                  E se fino a questo momento lo studio per una nuova drammaturgia 
                  partiva dalla Bolivia, nel 2000 La Ilíada segue 
                  il percorso contrario: una delle più antiche opere greche 
                  parte dall'Europa per arrivare nelle città boliviane, 
                  nei villaggi e nelle comunità rurali. Attraverso questo 
                  spettacolo il gruppo riafferma il suo sguardo etico e responsabile, 
                  il suo impegno costante e attento. La tragedia dell'umanità 
                  porta il Teatro de los Andes a percorrere la storia delle guerre, 
                  delle madri senza più figli, degli orfani, delle vedove, 
                  delle donne schiave, degli affetti squarciati, della brutalità 
                  che semina morte e distruzione. Tutto questo prende forma ne 
                  La Ilíada, non una Iliade andina, ma una guerra 
                  eterna e universale, dove un'attualità sconcertante sembra 
                  passeggiare dentro e fuori le mura di Troia, all'ombra delle 
                  violente dittature sudamericane, sullo sfondo dei campi di concentramento 
                  di Dachau e Auschwitz, mentre gli stadi vengono riempiti di 
                  profughi, mentre le bombe cadono su Grozny e sull'Afghanistan, 
                  mentre l'Agamennone di turno sferra il suo feroce attacco all'umanità 
                  inerme. E la comprensione del testo è ancora immediata 
                  per tutti. 
                  Un teatro popolare e universale, quindi, possibile quando il 
                  testo drammaturgico diventa un metatesto capace di riunire tutte 
                  le differenze in un ponte che comunica e dialoga con la coscienza 
                  più intima degli spettatori; quando parla a più 
                  voci attraverso vari linguaggi che convivono; quando permette 
                  a chi lo guarda di ritrovarsi in contenuti diversi. Per restituire 
                  al teatro il suo ruolo comunicativo: “Ci interessa comunicare 
                  attraverso il teatro, e teatro per noi è un evento realizzato 
                  da attori di fronte a un pubblico, mediato dalle azioni, dal 
                  testo, dalle immagini, dai suoni, dal racconto e dalla musica. 
                  Questo intreccio, se arriva agli spettatori, se crea commozione, 
                  se scuote, diverte, è teatro. O almeno, è il teatro 
                  che noi vogliamo”14. 
                  Allora non è più il boliviano o l'europeo a riconoscersi, 
                  ma l'uomo. Questo rende universale il teatro. 
                
                   
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                    |   Teatro 
                        de los Andes, En un Sol Amarillo  | 
                   
                 
                 
                  ...ognuno il proprio cammino 
				  
                 Il Teatro de los Andes, caparbio e risoluto nell'intenzione 
                  di seguire i propri obiettivi, è riuscito a firmare una 
                  teatrografia vasta e varia attraverso spettacoli che viaggiano 
                  sulle note di canzoni di ogni parte del mondo, che decollano 
                  dai 4200 metri dell'aeroporto di La Paz per arrivare in tutto 
                  il continente sudamericano, ma anche in Italia, Spagna, e Francia. 
                  Non è stato solo il Teatro de los Andes ad incontrare 
                  gli altri, sono stati anche gli altri ad incontrarlo, ad amarlo, 
                  ad apprezzarlo. Lo dimostra il favore che ha riscosso dalla 
                  critica e dal pubblico, ma ancor di più l'essere diventato 
                  punto di riferimento per i giovani boliviani e sudamericani 
                  che vogliono approfondire la loro ricerca teatrale. Portatore 
                  di un esempio utopico e fautore di una vera e propria scuola 
                  di teatro, ha dimostrato la possibilità di professionalizzare 
                  il mestiere dell'attore e ha determinato un livello di crescita 
                  dell'intero movimento teatrale boliviano oltre ogni ottimistica 
                  previsione. E forse è proprio questa la dimostrazione 
                  di quanto i loro sforzi siano riusciti ad andare nella giusta 
                  direzione. 
                  Il Teatro de los Andes ha voluto vedere, toccare, sperimentare 
                  e scoprire tutto questo, perché era sua intenzione realizzare 
                  un teatro indigeno campesino insieme a questa gente, 
                  con loro, non attraverso di loro. Gabriel e Verónica, 
                  Chango, e ancor prima Liber, cercavano qualcosa che desse un 
                  diverso valore al loro teatro. E per questo nella rivista El 
                  Tonto del Pueblo che il Teatro de los Andes ha editato in 
                  questi anni, il regista parla di loro come di altri tonti 
                  che hanno considerato il teatro un luogo dove spendere la vita. 
                  Arrivarono e si innamorarono di questa terra dopo averla conosciuta, 
                  si occuparono di questa Bolivia nascosta, tentarono di dialogare 
                  con i poveri, i marginali, i dimenticati. Cercarono di conoscere 
                  e di amare le forme espressive e culturali dell'ancestrale tradizione 
                  di cui si facevano portavoce. Gabriel e Verónica Martínez, 
                  Edgar Darío González, Liber Forti e il suo Conjunto, 
                  tutti loro riuscirono a trovare dei punti di incontro con un 
                  territorio, geografico e sociale, nascosto agli occhi e al cuore 
                  degli intellettuali boliviani, con proposte nuove e diverse 
                  che hanno portato, in ogni singolo caso, a un teatro boliviano, 
                  perché fatto con boliviani e portatore di quella cultura, 
                  dei suoi valori, dei suoi caratteri e dei suoi contenuti. 
                  Ma si sa che la vita spesso divide e allontana, questo è 
                  valso anche per il Teatro de los Andes, che nei suoi lunghi 
                  anni di attività vede arrivare e partire molti attori 
                  e che il 24 febbraio 2010 si separa ufficialmente con queste 
                  poche righe alla stampa: “Il Teatro de los Andes e César 
                  Brie, regista e fondatore del gruppo, dopo 18 anni di attività 
                  hanno deciso di separarsi per continuare a crescere nel proprio 
                  lavoro. Entrambi continueranno a sviluppare la propria attività 
                  artistica seguendo ognuno il proprio cammino nel maggior rispetto 
                  e nella maggiore considerazione per il lavoro dell'altro”. 
                  Il nome resta in Bolivia con Giampaolo Nalli, uno dei cofondatori, 
                  Lucas Achirico e Gonzalo Callejas, i due attori che lavorarono 
                  con il gruppo fin dall'inizio, e l'attrice brasiliana Alice 
                  Guimaraes. Il gruppo, che collabora con diversi registi e sperimenta 
                  metodi di lavoro confrontandosi con altre esperienze, pur consolidando 
                  all'interno una propria esperienza di regia ha realizzato Hamlet 
                  (2012) e sta lavorando al suo nuovo spettacolo. César 
                  Brie, invece, vive e lavora in Italia dove, oltre ai suoi monologhi, 
                  ha messo in scena: Karamazov, Albero senza ombra, Il Vecchio 
                  Principe.
                  Federica Rigliani
                 
                  
                    Gli 
                      ultimi spettacoli
  
                      Teatrografia del Teatro de los Andes dopo La Ilíada 
                      e prima della separazione ufficiale di César Brie 
                      dal gruppo 
                      2002: El Ciclope 
                      2002: Fragil 
                      2003: La mujer de anteojos 
                      2004: En un Sol amarillo, memorias de un temblor 
                      2005: Otra vez Marcelo 
                      2006: 120 kilos de jazz 
                      2007: ¿Te Duele? 
                      2009: Odisea | 
                   
                 
                 
                Note 
                 
                  - Le parti tra virgolette senza nota e citazione sono tratte 
                  da un intervista a César Brie, Yotala, Sucre, maggio 
                  1997. Le informazioni sul Teatro de los Andes dopo il 2010 sono 
                  frutto di una mail- intervista a Giampaolo Nalli.
 
                  C. Brie, Appunti Autobiografici, archivio César 
                  Brie, pag. 4.
                   - C. Brie, Por un teatro necesario, 'El tonto del Pueblo' 
                    Revista de artes escenicas, N. 0, Agosto 1995, pag. 70. 
                  
 - ***, Por un teatro inmediato, donde lo complejo se ve 
                    sencillo, in 'Cultura hoy', La Paz, 9 maggio 1995. 
                  
 - Intervista a Lupe Cajías, Yotala, Sucre, marzo 1997.
                  
 - C. Brie, Insegnare a pensare il teatro, 'Teatro e 
                    Storia', n° 20-21, annale 1998-1999. 
                  
 - C. Brie, Pensieri, 'Società di pensieri', 
                    N° 4, dicembre, edizioni: Riflessi-Società di Pensieri, 
                    Bologna, 1996, pp. 27-28. 
                  
 - C. Brie, Appunti autobiografici. Cit. pag. 8.
                  
 - César Brie, Por un teatro necesario, Cit. pag. 
                  67.
                  
 - G. Arauz Crespo, Teatro de los Andes: cómo crear 
                    un teatro profesional, in 'La Razón', 1° novembre 
                    1992, La Paz. [Intervista a César Brie]. 
                  
 -  ***, 'Colón': una mirada de corte grotesco sobre 
                    la historia, in 'La Razón', La Paz, 18 ottobre 
                    1992. 
                  
 - C. Brie, Por un teatro necesario, Cit. pag. 71.
                  
 - C. Brie, Appunti autobiografici, Cit. pag. 14.
                  
 - C. Brie, Algunas reflexiones sobre “Las abarcas 
                  del tiempo”, archivio C. Brie.
                  
 - César Brie, Insegnare a pensare il teatro. 
                  Cit.
  
                   
                
                  
                    Il 
                      teatro sulle Ande
  
                      Con questa quarta puntata si chiude la serie di quattro 
                      scritti curati da Federica Rigliani e dedicati ad alcune 
                      significative esperienze teatrali nella Bolivia della seconda 
                      metà del '900. Il primo contributo, dedicato a Liber 
                      Forti e al Conjunto Teatral Nuevos Horizontes, è 
                      stato pubblicato sul numero di 376 di “A” (dicembre 
                      2012-gennaio2013); il secondo, che racconta l'esperienza 
                      del teatro Kollasuyo, è apparso sul numero 377 
                      (febbraio 2013); infine il terzo, dedicato a Chango 
                      e al suo Teatro Runa, è stato pubblicato su “A” 
                      378 (aprile 2013). | 
                   
                 
                
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