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                teatro in Bolivia 2 
                  
                La parola alla cultura indigena 
                  
                di Federica Rigliani 
                    Due registi cileni nell'altopiano boliviano alla fine degli anni '60 per realizzare il teatro Kollasuyo, popolare e atavico, costruito a partire dal mito e dal sogno.              
                  
                   
                  Il Teatro Kollasuyo è 
                  un'esperienza che segna un momento molto importante nel teatro 
                  boliviano. Con questo gruppo, infatti, per la prima volta il 
                  teatro entra in una comunità rurale autoctona per assorbirne 
                  ritmi di vita e di lavoro, rispettare gli atavici e tradizionali 
                  cicli di semine e raccolti dei suoi abitanti e ascoltare, silenzioso, 
                  gli uomini morenos parlare e raccontarsi. Possiamo definirlo, 
                  quindi, il primo teatro indigeno-campesino realizzato 
                  con e da gli abitanti delle Ande. 
                  Era la fine degli anni sessanta quando Gabriel Martínez 
                  e sua moglie Verónica Cereceda fondarono il Teatro 
                  Kollasuyo nella regione di Oruro, situata tra quelle di 
                  La Paz e Potosí, nel sud della Bolivia. Ma la loro storia 
                  ha inizio in Cile, terra di origine di entrambi, dove lavorarono 
                  a lungo nella cittadina universitaria di Concepción. 
                  Avevano un teatro-tenda chiamato El Caleuche. 
                  Mito molto conosciuto nel sud del Cile, quella del Caleuche 
                  è la storia di una nave fantasma che appare nel buio 
                  della notte con le luci accese, le vele spiegate e l'equipaggio 
                  condannato. Ogni qual volta Gabriel e Verónica issavano 
                  il tendone e lo riempivano di tutti gli oggetti che servivano 
                  al teatro, dalle tende ai teloni, dalle fioche luci di scena 
                  ai suoi teatranti erranti, rievocavano questo mito e lo facevano 
                  rivivere nei luoghi che visitavano. Durante la campagna elettorale 
                  pro-Allende del 1964, la loro tenda-teatro divenne il 
                  punto di contatto di numerosi artisti e intellettuali, e se 
                  Gabriel e Verónica rappresentavano lì un teatro 
                  di grande qualità, basato esclusivamente su drammaturgie 
                  nordamericane ed europee, in quel tendone Pablo Neruda e Nicanor 
                  Parra leggevano le loro poesie. 
                  Man mano che El Caleuche visitava l'entroterra cileno, 
                  avvicinando culture e tradizioni locali, la coppia percepiva 
                  uno scontento professionale che la mise ben presto di fronte 
                  a una crisi ideologica e artistica: “Io ero cosciente 
                  che il nostro era un buon teatro d'intrattenimento, niente più 
                  di questo... quello che facevamo non entrava profondamente nella 
                  gente e nel pubblico, non eravamo capaci di produrre in loro 
                  profondi processi spirituali”.1 
                  Animati dall'ansia di una nuova ricerca teatrale indirizzata 
                  in qualche modo verso l'esperienza mistica e catartica, i Martínez 
                  non sapevano quale fosse la strada da seguire, né quali 
                  obiettivi prefiggersi in questo cammino che sentivano assolutamente 
                  necessario: “Quello che invece sapevamo con certezza era 
                  che non volevamo continuare a fare quel tipo di teatro che avevamo 
                  sempre fatto: il teatro europeo, il teatro spagnolo, il teatro 
                  occidentale, l'ultimo grido di New York...”. 
                  Cominciarono a pensare di lasciare il Cile, sia perché 
                  delusi dal pubblico cileno “non ci incitava, non ci permetteva 
                  di svolgere una ricerca così come noi volevamo farla”, 
                  sia a causa della situazione politica interna. Quando la schiacciante 
                  vittoria di Eduardo Frei Ruiz su Salvador Allende impedì 
                  di fatto l'apertura a un rinnovamento politico, il loro desiderio 
                  di partire si trasformò in un'esigenza. Divenne fondamentale 
                  cercare un villaggio, una società dell'America del Sud 
                  che rappresentasse un nuovo uditorio e l'occasione per lavorare 
                  con artisti “per i quali l'esercizio del teatro fosse 
                  realmente, ogni notte, con sacralità, una notte di consegna, 
                  di sfida, di creazione e, pertanto, di disciplina interiore”2. 
                  Indecisi tra Guatemala e Bolivia, alla fine optarono per quest'ultima: 
                  “Quando giunse il momento di lasciare il Cile [...] la 
                  scelta cadde sulla Bolivia, senza sapere esattamente che cosa 
                  avremmo trovato. [...] Avevamo dei contatti. Eravamo stati a 
                  Cochabamba, sapevamo che c'era qualche possibilità di 
                  lavorare nell'università di Oruro, nient'altro. Andai 
                  a parlare con il rettore, già intenzionato a creare un 
                  teatro universitario, [...] noi non proponemmo un teatro legato 
                  alla sperimentazione e allo stile dei teatri universitari esistenti 
                  in America Latina. Noi volevamo fare un teatro nuovo”. 
                  Volevano trovare nuove forme e nuovi contenuti per un teatro 
                  “che parlasse al cuore della gente”, ancorato alle 
                  tradizioni locali e alla cultura autoctona: “Sapevamo 
                  chiaramente che il nostro teatro doveva essere molto, molto 
                  vicino alla cultura tradizionale, alla cultura indigena, però 
                  quale dovesse essere la sua forma concreta, quale il suo aspetto 
                  reale, scenico e drammaturgico, non lo sapevamo proprio [...]. 
                  Per noi, fu davvero un'avventura, una ricerca, un'ansia di trovare 
                  cose nuove”.3 E la Bolivia, 
                  abitata per oltre il 60 per cento da indigeni che vivono con 
                  forte spiritualità e intenso misticismo anche la ritualità 
                  quotidiana, avrebbe offerto loro la formula. 
                  Quando arrivarono, nella metà degli anni '60, continuarono 
                  a fare i conti con una realtà sociale non molto dissimile 
                  da quella da cui si erano allontanati. La società boliviana 
                  era delusa e amareggiata dalla gloriosa Rivoluzione Nazionale 
                  del 1952, all'indomani della quale il paese non incontrò 
                  il reale processo di liberazione economica e di progresso sociale 
                  che tanto si aspettava. L'originale sentimento rivoluzionario, 
                  lo stesso che visse a fianco di Nuevos Horizontes e che 
                  vide la nazionalizzazione delle miniere, l'istituzione del voto 
                  universale e l'abolizione del latifondo, era stato lentamente 
                  schiacciato dalla corruzione interna del MNR (Movimento Nazionalista 
                  Rivoluzionario), il partito di governo. E il futuro sarebbe 
                  stato ancor più oscuro: il colpo di stato del 1964 di 
                  René Barriento Ortuño avrebbe inaugurato un periodo 
                  di diciotto anni di potere militare alternato all'elezione di 
                  tre presidenti civili per una durata complessiva di soli quattro 
                  anni di governi democratici. Mentre tutta l'America Latina viveva 
                  l'effervescenza della Rivoluzione Cubana, l'esperienza della 
                  guerra del Vietnam e il sogno integralista nel continente, la 
                  Bolivia, nonostante investita già da un decennio da sentimenti 
                  rivoluzionari, fu tra i primi paesi a passare da un potere democratico 
                  all'autoritarismo militare. 
                   
                    Il problema 
                   linguistico  
                
  Nella cittadina di Oruro la collaborazione con l'Università 
                  partì grazie al rettore Julio Garret che accettò 
                  il loro progetto. Da questo momento in poi tutta la loro esperienza 
                  teatrale si volse alla ricerca di quella spiritualità 
                  che animasse e motivasse dal profondo i loro attori e il loro 
                  pubblico. Inaugurarono un teatro universitario dai tratti nuovi: 
                  “Era un teatro universitario di nuovo tipo, con un altro 
                  stile, realizzato dagli studenti più poveri e umili, 
                  non universitari al modo cileno o europeo che si dedicano al 
                  proprio corso di studio approfondendo altre attività 
                  culturali, ma meticci umili e indigeni più poveri della 
                  città”. Sua moglie Verónica cominciò 
                  a scrivere un'opera basandosi sugli scritti di Canal Fejó, 
                  autore che guardò molto al folclore del nord dell'Argentina, 
                  e questo materiale si avvicinava molto al mondo quechua, 
                  l'etnia prevalente della zona scelta, e alla sua area culturale. 
                  Il racconto fu drammatizzato e messo in scena con il nome El 
                  atoj Juancito. 
                  Già in questo primo lavoro il Teatro Kollasuyo 
                  cominciò ad esprimere una revisione totale del punto 
                  di vista della messa in scena e della scenografia: non più 
                  il teatro frontale, non più il telone, non più 
                  un sistema complesso di illuminazione, nella loro ricerca di 
                  un contatto maggiore con lo spettatore il pubblico doveva circondare 
                  la scena o trovarsi molto vicino ad essa. E questo rompeva con 
                  tutti gli schemi scenici presentati fino a quel momento. L'altra 
                  grande novità fu l'uso della lingua autoctona, il quechua: 
                  “Presentammo la nostra opera in spagnolo chiedendoci cosa 
                  sarebbe successo se avessimo reso delle battute in lingua quechua. 
                  Facemmo una prova e, con l'aiuto di persone legate al mondo 
                  universitario di Cochabamba che conoscevano molto bene il quechua, 
                  scrivemmo l'introduzione e traducemmo un episodio.” Fu 
                  proprio usando il quechua che capirono quanto uno dei 
                  problemi maggiori della ricerca che si prefiggevano era quello 
                  linguistico: per parlare al pubblico cui volevano rivolgersi 
                  era necessario l'uso della lingua autoctona come lingua teatrale: 
                  “Il nostro pubblico era un pubblico popolare. Noi non 
                  facevamo pagare l'ingresso, distribuivamo semplicemente biglietti 
                  gratis alle 'cholitas', ai meticci, alla gente del villaggio 
                  di Oruro, alla gente del mercato, agli operai... Tutta gente 
                  povera. [...] Improvvisamente, durante lo spettacolo [...] questo 
                  pubblico ascoltò un episodio nella sua propria lingua 
                  e, senza rendersi conto del passaggio linguistico, incominciò 
                  a partecipare di più, cominciò a ridere, a integrarsi 
                  allo spettacolo, a goderne pienamente. Poi tornò lo spagnolo. 
                  Questo ci indicò chiaramente che una delle linee del 
                  lavoro era la lingua, la lingua autoctona, la lingua che per 
                  tutta questa gente è la propria lingua, la lingua che 
                  danno con il latte quando allattano i bambini”. 
                  Questo portò inevitabilmente a una immediata rivalorizzazione 
                  della lingua nativa: la elevarono dal folklore locale cui era 
                  stata confinata legittimandone l'uso in teatro, nei processi 
                  creativi e in quelli artistici. Lo stesso Gabriel sosteneva 
                  che per loro “valorizzare la lingua quechua [...] 
                  come lingua teatrale significava darle la possibilità 
                  di esprimersi artisticamente... Quello che sapevamo della lingua 
                  rispetto al teatro è che in Bolivia si faceva e si era 
                  fatto solo un teatro in lingua spagnola, tranne una piccolissima 
                  parentesi antecedente [...], come la rappresentazione del Carnevale 
                  di Oruro o la Morte di Atahualpa che non bastarono 
                  a dare al quechua un posto nell'espressione artistica 
                  locale, bensì nel folclore”. 
                  Da queste premesse Gabriel e Verónica svilupparono la 
                  fase forse più importante del loro lavoro: scendere in 
                  profondità. Desideravano lavorare con i campesinos, 
                  trovare con loro, nel loro mondo, la formula di un teatro nuovo 
                  che non riuscivano a teorizzare, far fluire un nuovo processo 
                  creativo per immaginare drammaturgie provenienti da quel mondo 
                  e ad esso riconoscibili: “Vedevamo passare gli indigeni 
                  a Oruro con i 'bastones de mando' e i vestiti peculiari, 
                  isolati in loro stessi, padroni di un proprio essere che ci 
                  risultava affascinante. Era quella la 'vera Bolivia' che volevamo 
                  penetrare”. Si rivolsero ancora al rettore e gli esposero 
                  la ferma intenzione di voler lavorare per un teatro 'popolare' 
                  davvero indigeno che affondasse le proprie radici nella cultura 
                  tradizionale andina: “Non vogliamo più fare né 
                  El atoj Juanito, né il teatro che facevamo in 
                  Cile. Ci dia il permesso per fare teatro con le comunità, 
                  creiamo un teatro davvero indigeno, di lingua quechua, 
                  che abbia i suoi propri contenuti e un'organizzazione drammatica 
                  e scenica diversa”4. Non 
                  più un teatro urbano, quindi, ma un teatro per le comunità. 
                  Volevano lavorare con gli indigeni che non parlavano lo spagnolo, 
                  sperimentare un teatro davvero indigeno-campesino, trovare 
                  nuove forme sceniche ai nuovi contenuti che speravano di avvicinare 
                  e generare risoluzioni artistiche come frutto della partecipazione 
                  dei nativi al processo creativo. 
                  Interessato al progetto, e di fatto di nuovo motivato ad appoggiarli, 
                  Garret creò le condizioni perché i Martínez 
                  potessero trasferirsi a vivere in una comunità rurale: 
                  “Non conoscevamo molto bene la Bolivia, viaggiammo molto 
                  per scegliere quale delle aree indigene ci sembrasse più 
                  interessante e rimanemmo affascinati dalla zona di Charazani. 
                  Era molto importante da un punto di vista culturale, oltre ad 
                  essere parte integrante della cultura andina e delle sue tradizioni, 
                  mantiene degli aspetti propri molto forti. Lunlaya fu la nostra 
                  comunità, i suoi abitanti furono i nostri attori, il 
                  quechua la nostra lingua e i materiali li estraemmo da 
                  loro, dalla loro cultura.” 
                   
                    Come 
                  un gioco   
                  A proposito dell'incontro con la gente della comunità, 
                  avvenuto nel 1968, Gabriel mi disse: “Sarebbe stato più 
                  facile parlar loro di coltivazioni di patate... ma teatro? Non 
                  conoscevano quella parola”. Il loro ingresso fu difficile, 
                  gli abitanti avvezzi al loro atavico isolamento li guardavano 
                  con diffidenza. Dovettero farsi conoscere, concedersi affinché 
                  si manifestasse la fiducia che avrebbe garantito l'apertura 
                  e l'integrazione, così trascorsero i primi sei mesi semplicemente 
                  vivendo, incontrando le persone, partecipando ai lavori agricoli 
                  e alle loro feste. Provando a parlare il quechua. Sapevano 
                  che i comuneros non avrebbero capito le loro intenzioni 
                  se non avessero imparato a confidare ciecamente in loro. Dopo 
                  un periodo di convivenza, però, gli abitanti capirono 
                  la nuova realtà che si era aggiunta ai loro ritmi vitali 
                  e Gabriel e Verónica iniziarono a farli incuriosire con 
                  la pratica di alcuni esercizi fisici e di improvvisazione. Inizialmente 
                  furono presi come un gioco nel quale gli abitanti della comunità 
                  dovevano “fare finta”, questo li incuriosiva. Ma 
                  come procedere dopo il training, l'allenamento fisico e le improvvisazioni? 
                  Come farli entrare in un processo creativo partecipato? 
                  Pensarono al mito e al sogno. Secondo Gabriel e Verónica, 
                  mito e sogni avrebbero potuto essere raccontati come una 'realtà 
                  presente', sentita in maniera forte in ciascuno di loro, familiare, 
                  autentica e ancestrale. A loro avviso lavorare su miti e sogni 
                  avrebbe potuto offrire un 'materiale teatrale' capace di mettere 
                  in scena l'interiorità autoctona e gli indigeni si sarebbero 
                  riconosciuti facilmente nei temi rappresentati. Questo era un 
                  aspetto molto importante strettamente legato alla storia andina 
                  e alle tradizioni di questa gente, alla religione e a un forte 
                  clima spirituale che avrebbe dovuto garantire una profonda partecipazione 
                  emotiva interiore. Scelsero il mito regionale del Meqalo: “Quello 
                  del Meqalo è un mito molto suggestivo. È un essere 
                  antropomorfo che visita le valli di Lunlaya, che scendono giù, 
                  fino alla conca amazzonica”. In estate, durante la stagione 
                  delle piogge, la quantità di acqua che precipita genera 
                  molta umidità e una nebbia sale dalle valli più 
                  basse verso il canyon di queste terre frastagliate. Si dice 
                  che il Meqalo, essere particolarmente elastico e un po' ondulante, 
                  con una lunga coda e una luce intensa sul viso, si allunghi 
                  e si accorci nei crepuscoli di Lunlaya risalendo la valle, volando 
                  rasoterra per sedersi poi sulle rocce più grandi che 
                  la sovrastano. Lì rimane per molto tempo osservando silenzioso 
                  i luoghi che lo circondano con sguardo penetrante. Si dice sia 
                  l'aiutante del Inca Rey e vigili i suoi tesori sotterrati in 
                  questa valle per restituirglieli al suo ritorno. E proprio per 
                  la sua vicinanza al mito panandino del Inca Rey fu scelto. Perché 
                  del Inca si aspetta il ritorno. Lui restituirà a queste 
                  popolazioni il maltolto, in termini materiali e morali, li salverà 
                  dalla povertà e restituirà loro il rispetto negato 
                  dalla storia degli uomini: “Per tutti loro questo mito 
                  [...] incarnava il ritorno della dignità e della giustizia, 
                  nonché la valorizzazione della cultura andina. Cosa succederebbe 
                  se tornasse? Chiesi loro.” E tutti cominciarono a immaginarne 
                  la venuta. 
                  Per sviluppare questi temi Gabriel e Verónica tentarono 
                  due vie parallele: lui curava l'attività fisica degli 
                  attori, basata soprattutto sull'improvvisazione, cercando di 
                  provocarli e stimolarli, immaginando come avrebbe dovuto verificarsi 
                  la venuta del Meqalo; lei raccoglieva, registrandole e trascrivendole, 
                  le testimonianze di lunghe conversazioni, soprattutto i racconti 
                  dei sogni degli abitanti. 
                  Tutto avrebbe portato alla realizzazione di Ukhu Ukhumanta, 
                  'dal più profondo' in lingua quechua, spettacolo 
                  che nella parte riguardante il mito doveva provocare un fatto 
                  reale: l'arrivo e l'incarnazione del Meqalo in uno degli attori. 
                  Gabriel sottolineava con fervore l'enorme pressione a cui il 
                  gruppo di attori venne sottoposto: “Ottenemmo tutto attraverso 
                  una pressione psicologica e spirituale molto forte che esercitammo 
                  su di loro. Non si parlava di nient'altro che del Meqalo, se 
                  qualcuno lo aveva mai visto o sognato [...]. Pian piano la sua 
                  immagine si oggettivò nella loro fantasia e divenne sempre 
                  più concreta; [...] lavoravamo tutta la notte, masticando 
                  coca e conversando con la gente. Chiaramente non avevamo luce 
                  elettrica, per cui parlavamo al chiarore di queste lampadine 
                  molto fioche, in una penombra molto intima all'interno di un 
                  piccolo spazio, una specie di capanna di rami e fango. Inoltre, 
                  c'era sempre la musica. Non ricordo più se fui io o Verónica 
                  o un campesino a suggerire la possibilità di evocarlo 
                  con la musica, e la musica di Cherazani era molto impressionante. 
                  Suonavano dei bombos grandissimi fatti con il tronco 
                  degli alberi e il suono era molto grave, ti smuoveva le viscere”. 
                  A questo dobbiamo aggiungere che la chiamata del Meqalo era 
                  sempre legata a un rito propiziatorio, una cerimonia rituale 
                  che consisteva nel salire sulle vette delle montagne e invocare 
                  le divinità che abitano il loro interno, perché 
                  sulle Ande le montagne rappresentano esseri divini. A loro chiedevano 
                  aiuto affinché favorissero l'arrivo del Meqalo con chiamate 
                  ogni volta più potenti e angustianti, quasi angosciose. 
                  Gabriel voleva riprodurre una situazione “da riti woodu”: 
                  “speravo che improvvisamente qualcuno si sentisse posseduto 
                  dal Meqalo e diventasse egli stesso il Meqalo”. Secondo 
                  lui, infatti, la presenza vitalizzante del Meqalo doveva passare 
                  attraverso il corpo di uno degli attori producendo in lui uno 
                  stato di estasi e rapimento. Ma durante l'interpretazione di 
                  uno di questi rituali, un attore cadde in una specie di trance 
                  e sbatté la testa contro le rocce. In quello stato di 
                  semi incoscienza chiamava e richiamava il Meqalo piangendo disperatamente 
                  “un pianto isterico di emozione religiosa”. La possibilità 
                  che si verificasse davvero una possessione mise in difficoltà 
                  i registi e Gabriel si rese conto di trovarsi, impotente, di 
                  fronte a qualcosa più grande di lui: “Capii che 
                  il cammino intrapreso era in realtà molto pericoloso, 
                  non sapevo cosa sarebbe successo se si fosse davvero verificata 
                  una possessione e, soprattutto, non avrei saputo come affrontare 
                  il problema né cosa fare in una situazione del genere. 
                  Io non avevo strumenti medici o psichici per uscire da quella 
                  situazione, avevo paura. Non volli più seguire l'esperimento 
                  e abbandonai la possibilità di lavorare in questo modo”. 
                  Furono gli stessi attori a risolvere il problema e fornire la 
                  soluzione drammaturgica, coreografica e scenica. Uno di loro, 
                  Pedrito Condori, colse lo spunto da questa vicenda e, all'insaputa 
                  di tutti, trovò una soluzione tipicamente andina. Raccolse 
                  l'usanza secondo cui gli haiciris, fingendosi condor 
                  che sbattono le ali e simulano un atterraggio, invocano nell'oscurità 
                  le montagne e le divinità che le abitano, con tonalità 
                  da ventriloqui e con voci ora femminili ora maschili. Pedrito 
                  Condori finse una possessione, simulò l'arrivo del Meqalo, 
                  batté le braccia come ali di un condor, cadde a terra 
                  e parlò a lungo con quegli uomini commossi che continuavano 
                  a fare domande sulla loro vita e sulle loro condizioni di miseria. 
                  La partecipazione e il turbamento erano infiniti e la religiosità 
                  dominava una scena nata nel preciso momento in cui si era data. 
                  Il cerchio umano intorno al Meqalo iniziò a danzare all'unisono, 
                  come se chi lo formava avesse studiato un'apposita coreografia 
                  e tutto finì con una danza pacata e rispettosa della 
                  venuta tanto invocata del Meqalo. La conclusione della prima 
                  parte dello spettacolo era stata trovata. La forma scenica pienamente 
                  raggiunta. 
                  Per la seconda parte, quella riguardante i sogni, scelsero il 
                  sogno di una giovane donna che aveva perso il suo bambino: lei 
                  lo vedeva sospeso tra cielo e terra e cercava disperatamente 
                  di afferrarlo senza riuscirci, lui si allontanava lasciandole 
                  gli occhi pieni di pianto mentre la pioggia continuava a bagnarle 
                  il viso.
                 
                   
                    |   | 
                   
                   
                    Gabriel Martínez e Verónica Cereceda,  
                  intervistati in queste pagine  | 
                   
                 
                   Alterne 
                  fortune sceniche 
                  La rappresentazione di Ukhu Ukhumanta all'interno della 
                  comunità fu un momento mistico, quasi religioso, in cui 
                  attori e spettatori realizzarono un processo di catarsi totale: 
                  quando Pedrito Condori cadde a terra e si rialzò vestendo 
                  i panni del Meqalo tutte le donne si tolsero spontaneamente 
                  il cappello nell'esatto momento in cui lo fecero anche gli attori. 
                  Nella capanna c'era un clima speciale che unificava tutti: pubblico 
                  e attori erano in realtà un solo gruppo. Gabriel raccontava 
                  di non aver mai visto nulla del genere. Ma quando lo spettacolo 
                  venne portato nella cittadina di Oruro il pubblico urbano reagì 
                  in modo molto negativo e nessuno riconobbe il valore di questo 
                  lavoro. Per ricreare un'intima connessione con gli spettatori 
                  si decise di distribuire all'inizio foglie di coca e praticare 
                  insieme il rito di akullicar, masticare la coca, ma quando 
                  gli attori più anziani cominciarono la distribuzione 
                  il pubblico si sentì offeso. Il disprezzo verso tutto 
                  ciò che rappresenta il mondo indigeno è una sorta 
                  di autovergogna delle origini della Bolivia e impaurisce 
                  chi in queste origini non vuole riconoscersi. I cittadini, legati 
                  a una forma di pregiudizio e di discriminazione razziale, rimproverarono 
                  ai registi di aver portato sul palcoscenico una Bolivia che 
                  non volevano vedere: per tutti loro vedere miserabili indigeni 
                  che mangiavano i loro pidocchi significò mettere in scena 
                  la parte peggiore di questa terra. La ricezione dell'opera fu 
                  freddissima, le critiche del pubblico negative e l'ambiente 
                  teatrale si mostrò sfiduciato e dubbioso rispetto alla 
                  direzione che la ricerca del Kollasuyo stava prendendo. 
                  Inoltre il rettore Garret, che tanto li aveva sostenuti, lasciò 
                  l'università occupata da studenti e professori comunisti-trotskisti. 
                  L'ambiente universitario di sinistra considerava poco prestigioso 
                  l'interessamento al teatro indigeno per cui chiese ai registi 
                  di considerare una ricerca indirizzata più verso il teatro 
                  operaista e dei minatori, ma Gabriel e Verónica rifiutarono: 
                  “distrussero il nostro contratto e non si fece più 
                  teatro, né operaista né minerario”. Ulteriori 
                  difficoltà al Teatro Kollasuyo furono create anche 
                  dal rifiuto ricevuto direttamente dal mondo indigenista: li 
                  accusò di essere stranieri meticci che 'usano gli indigeni' 
                  sfruttandoli. Idea molto mitizzata anche oggi. Impossibilitati 
                  a continuare il lavoro, Gabriel e Verónica si allontanarono 
                  in maniera traumatica e dolorosa dal teatro e da ogni sua manifestazione. 
                  L'esperienza dei Martínez fu molto importante, diedero 
                  la parola alla cultura indigena, dimostrarono che era capace 
                  di dire qualcosa di vero e inquietante, ne valorizzarono il 
                  processo creativo, diedero dignità alla sua lingua e 
                  alla sua estetica. Per la prima volta, insomma, gli indigeni 
                  furono soggetti teatrali, autori di una drammaturgia che li 
                  rappresentava e fornitori di soluzioni sceniche. In molti sensi 
                  fu anche anticipatrice, sia per la Bolivia sia per il teatro 
                  internazionale sia per le ricerche delle avanguardie che contemporaneamente 
                  muovevano i primi passi da questa parte del mondo, anche se 
                  in pochi purtroppo ne riconobbero i meriti. Loro lavoravano 
                  sui miti e su una forma di scambio tra popoli proprio mentre 
                  in Europa cominciava a diffondersi il teatro sperimentale legato 
                  a un movimento di ricerca che avrebbe cambiato radicalmente 
                  le scene teatrali: il centro interetnico di Peter Brook, la 
                  relazione tra “teatro” e “rito” che 
                  Grotowski si proponeva di approfondire, il baratto interetnico 
                  che Barba teorizzò con le popolazioni marginali del mondo 
                  americano e asiatico sarebbero stati elementi straordinari che 
                  avrebbero aperto nuove visioni alle avanguardie europee. 
                   
                    El tata 
                  Gabriel 
                  Ma l'esperienza con gli indigeni di Lunlaya li segnò 
                  al punto che Gabriel e Verónica non rinunciarono a sviluppare 
                  un percorso di lavoro e collaborazione con le popolazioni native 
                  e senza distogliere lo sguardo da quel mondo che li aveva tanto 
                  colpiti ripartirono con un nuovo ed entusiasmante progetto di 
                  vita. Dopo aver entrambi intrapreso studi di antropologia si 
                  stabilirono a vivere nella cittadina di Sucre dove fondarono 
                  ASUR, Antropólogos del Sur Andino, un museo che ha recuperato 
                  e protetto la tradizione tessile delle comunità di Jalca 
                  e di Tarabuco destinata altrimenti all'estinzione. Da allora 
                  il museo ha sviluppato un'impresa contadina efficiente dal punto 
                  di vista della qualità e della produzione: i campesinos 
                  tessili, infatti, riuniti in cooperative gestiscono imprese 
                  autonome capaci di dar vita ad un processo creativo all'interno 
                  delle singole culture, nel rispetto dei mezzi da loro applicati 
                  per la lavorazione e la colorazione dei tessuti. I loro preziosi 
                  lavori non vengono più scambiati con tessuti industriali, 
                  né sono più acquistabili a pochi pesos nelle strade 
                  delle città, come accadeva prima. Ogni lavoro è 
                  dotato di un'etichetta con il nome e la provenienza di chi l'ha 
                  realizzato, una certificazione nominativa del lavoro manuale 
                  svolto nel rispetto delle più antiche tradizioni tessili 
                  locali. Verónica continua ad occuparsi di ASUR, Gabriel 
                  è morto nel 2000 durante il mio ultimo anno di permanenza 
                  in Bolivia. La camera ardente i suoi campesinos l'hanno 
                  voluta allestire proprio all'interno del museo. In quell'occasione 
                  il portavoce dei suoi compagni, i lavoratori e le lavoratrici 
                  indigene delle comunità tessili di Tarabuco e Jalca, 
                  ci ha comunicato ufficialmente che el tata Gabriel, così 
                  lo chiamavano, abita ora una montagna come divinità. 
                  Appartiene talmente al loro immaginario collettivo che ogni 
                  giorno lo salutano e parlano a colui che, dopo la sua morte, 
                  è pietra delle Ande che ancora li protegge.
                   
                  Federica Rigliani
  Note 
                 
                  - Lupe Cajías, De Concepción a Lunlaya, 
                    'El tonto del Pueblo, Revista de artes escenicas' N. 0/Agosto 
                    1995, pag. 91. 
                  
 - Ibidem: pag. 91. 
                  
 - Intervista a Gabriel Martínez, Sucre, Maggio 1997. 
                  
 - Lupe Cajías, De Concepción a Lunlaya, 
                    op. Cit. pag 93.
                
  
                 
                
                   
                      
                        Il 
                          teatro sulle Ande 
                          Con questa seconda puntata prosegue la 
                          serie di quattro scritti curati da Federica Rigliani 
                          e dedicati ad alcune significative esperienze teatrali 
                          nella Bolivia della seconda metà del '900. Il 
                          primo contributo, dedicato a Liber Forti e al Conjunto 
                          Teatral Nuevos Horizontes, è stato pubblicato 
                          sullo scorso numero di “A” (376, dicembre 
                          2012-gennaio 2013), introdotto dalla premessa In 
                          viaggio col teatro sulle Ande.   | 
                   
                 
                
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