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                letture 
                  
                Quaderni dal carcere 
                  
                a cura di Laura Antonella Carli  
                fotoAFA - Archivi Fotografici Autogestiti 
                    L'universo carcerario raccontato attraverso i libri: dalle testimonianze dirette degli ergastolani a riflessioni di ampia portata sulla legittimità stessa dell'esperienza penitenziaria. Con un racconto e un breve estratto drammaturgico.              
                 
                   
                  I libri che presentiamo in queste 
                  pagine hanno degli aspetti in comune che vanno oltre l'argomento 
                  carcerario. Sono entrambi opere corali: il primo, dedicato al 
                  tema dell'ergastolo ostativo, raccoglie le testimonianze di 
                  alcuni detenuti, il secondo è invece una raccolta di 
                  saggi curati da Silvia Buzzelli, docente di diritto penitenziario 
                  e procedura penale europea e sovranazionale e si accompagna 
                  a un dvd contenente un documentario di Germano Maccioni, girato 
                  nel 2011 presso la Casa circondariale di Lodi. La scrittura, 
                  l'origine dei contributi, il punto di vista dei due lavori è 
                  chiaramente molto diverso, entrambi però aprono a una 
                  serie di dubbi: la pena detentiva è davvero “un 
                  male necessario”? È davvero la “migliore 
                  delle pene possibili”? 
                  Quando ci si avvicina a certe tematiche, come ci avverte don 
                  Ciotti, «non è possibile attivare il pensiero semplice» 
                  e questi due documenti, anche in virtù della propria 
                  diversità di approccio, ci offrono utili strumenti per 
                  rapportarci al mondo del carcere in modo complesso, non complicato, 
                  ma meditato e consapevole, aprendo a punti di vista e insinuando 
                  qualche dubbio. Se infatti Francesco Maisto, presidente del 
                  Tribunale di sorveglianza di Bologna, nel documentario di Maccioni 
                  chiarisce immediatamente che il carcere è soltanto una 
                  delle pene possibili previste dalla costituzione, don Ciotti 
                  cita Carlo Maria Martini, secondo il quale non ci si può 
                  limitare a pensare a “pene alternative” ma è 
                  necessario immaginare “alternative alle pene”. «Il 
                  carcere, insomma, – spiega il sacerdote – è 
                  un prodotto dell'uomo e in quanto tale ha avuto un inizio ma 
                  può dunque anche avere una fine».
                
   
                   
                  Brevi 
                  interviste  a 
                  uomini ombra 
                
  Urla a bassa voce. Dal buio del 41 bis e del fine pena 
                  mai (Nuovi Equilibri, 2012, pagg. 190, € 15.00) è 
                  la testimonianza collettiva di 35 ergastolani, interrogati su 
                  diverse tematiche legate alla loro vita in carcere: la famiglia, 
                  la salute, il perdono, la giustizia, fino ai temi più 
                  delicati: l'omicidio, il suicidio. Don Ciotti, nella sua premessa, 
                  lo definisce «un libro importante e necessario», 
                  come è sempre necessario tutto ciò che ci obbliga 
                  a fare i conti con il sommerso, con le realtà comunemente 
                  esiliate lontano dagli occhi. Ed è proprio dall'angolo 
                  più remoto della già marginale realtà carceraria, 
                  dal “buio del fine pena mai” che provengono le testimonianze 
                  raccolte. Gli “uomini ombra” sono infatti, secondo 
                  una sorta di auto-designazione poetica, gli ergastolani ostativi, 
                  cioè coloro ai quali è negata qualsiasi riduzione 
                  della pena, qualsiasi beneficio: dalle visite familiari ai permessi. 
                  «Vale a dire che l'ergastolo è totale, effettivo 
                  e senza termine», spiega don Ciotti. Tale regime speciale 
                  è una conseguenza dell'inasprimento delle leggi per combattere 
                  la criminalità organizzata in seguito ai delitti di mafia 
                  dei primi anni '90 e coloro che vi sono sottoposti sono i condannati 
                  per reati associativi che hanno scelto di non collaborare con 
                  la giustizia. È una decisione, quella di non collaborare, 
                  che, come spiega la curatrice Francesca de Carolis, «viene 
                  ribadita con forza. Fino a respingere la legittimità 
                  del termine “pentiti” che comunemente ormai tutti 
                  usiamo per indicare i collaboratori di giustizia, trasformando 
                  l'atteggiamento morale che accompagna il riconoscimento di colpa 
                  in figura giuridica.» Si tratta di uno dei temi più 
                  cari ai protagonisti del libro, perché è il vero 
                  discrimine tra gli “uomini ombra” e coloro che, 
                  a parità di reato, sono tornati in libertà. Ed 
                  è uno degli argomenti sui quali sembrano essere tutti 
                  concordi.  
                   
                    Il tempo 
                  scandito e il tempo vuoto 
                  I contributi, tutti raccolti tra la primavera del 2010 e l'autunno 
                  del 2011, sono raggruppati in macro-sezioni tematiche e introdotti 
                  da titoletti che presentano l'argomento e da qualche breve incursione 
                  della curatrice. Le domande che hanno stimolato gli interventi, 
                  raccolte grazie a un appello telematico tra le proposte di medici, 
                  giornalisti, religiosi e cittadini non sono riportate nel libro, 
                  anche se in parte sono intuibili dalle risposte, sulle quali 
                  la curatrice ha cercato di intervenire il meno possibile, limitando 
                  al minimo modifiche e correzioni e lasciando spazio alla testimonianza 
                  diretta, con tanto di incertezze sintattiche e contraddizioni. 
                  Lo stesso discorso vale per le brevi autopresentazioni che aprono 
                  il volume, alcune di poche righe, altre più dettagliate 
                  – anche se i racconti biografici più intimi emergono 
                  nel corso del libro, quando si toccano i temi della famiglia 
                  e degli affetti: tanti rimpiangono di non aver visto crescere 
                  i propri figli e vorrebbero avere la speranza di poter recuperare 
                  almeno con i nipoti. 
                  Nell'ottica di restituire uno spaccato autentico, senza demagogia 
                  e senza giudizi, diversi brani del libro sono dedicati alla 
                  descrizione della vita in carcere: i suoi ritmi, i suoi suoni, 
                  le sue presenze. Sul concetto di tempo in carcere sono due i 
                  ragionamenti che prevalgono: da una parte ciò che più 
                  viene temuto e percepito come alienante è l'ozio forzato 
                  dei regimi penitenziari più duri. Carmelo Musumeci, ricordando 
                  la sua esperienza all'Asinara, spiega: «Non avevo nessuna 
                  attività. A quel tempo il regime di tortura del 41 bis 
                  non prevedeva nessuna attività culturale, sportiva, lavorativa. 
                  Si viveva da cane in un canile». Il secondo aspetto che 
                  emerge a proposito del tempo in carcere è la sua rigida 
                  organizzazione modulare, la stessa descritta da Foucault, che 
                  considerava parte integrante dei meccanismi disciplinari la 
                  ferrea amministrazione del tempo – la stessa della fabbrica 
                  e della scuola –, un modo per garantire insieme efficienza, 
                  controllo, docilità e sorveglianza gerarchica. Giuseppe 
                  Pullara ad esempio vuole sfatare il luogo comune secondo cui 
                  «in carcere c'è più tempo libero; sappiate 
                  che tutto il nostro tempo libero è cadenzato dal regime 
                  penitenziario». Colazione, battitura delle sbarre, passeggiata, 
                  rientro, doccia... tutto ad un'ora precisa, tutto è perfettamente 
                  scandito, limitando «il tempo “libero” a un 
                  lumicino, per cui ogni soggetto lo vive come meglio può: 
                  chi studia per non oziare o pensare alla negatività in 
                  cui è costretto a vivere, chi scrive molte ore, anche 
                  la sera tardi; chi guarda la tv dalla mattina alla sera; chi 
                  si dedica alla cucina preparando piatti succulenti e altri pessimi, 
                  per sperimentare». Ciò che Giuseppe lamenta è 
                  l'assenza di maggiori stimoli per impiegare in modo fruttuoso 
                  anche il tempo non organizzato: lavoro, corsi specialistici, 
                  progetti culturali... La stessa presenza della tv suscita alcune 
                  perplessità, ad esempio Musumeci si mostra scettico: 
                  «Molte persone “perbene” del mondo dei vivi 
                  dicono: “Hanno anche la televisione!” ma spesso 
                  è anche grazie alla televisione che i detenuti sono docili 
                  come pecore». Il motivo per cui Giuseppe non guarda la 
                  tv è invece meno politico, più personale: è 
                  il senso di estraneità e impotenza nei confronti del 
                  mondo raccontato dai teleschermi: i telegiornali gli danno la 
                  netta percezione «di un mondo che cambia senza poterne 
                  fare parte».
                   
                   
                    “Arrugginirò 
                  come il ferro” 
                
  Il libro ospita interventi di vario tenore: militanti, intimi, 
                  propositivi, amareggiati. Alle riflessioni più amare 
                  si alternano momenti più leggeri in cui si racconta ad 
                  esempio la difficoltà di ingegnarsi nella preparazione 
                  di ricette che rendano il vitto carcerario più sopportabile: 
                  sono storie rocambolesche, che vanno dalla sostituzione fantasiosa 
                  di alcuni ingredienti difficili da reperire alla costruzione 
                  di una sorta di forno rudimentale. Da una parte ostinati sprazzi 
                  di vita, come la voglia di studiare, di continuare a comunicare 
                  con il mondo esterno, addirittura di realizzare qualche manicaretto; 
                  dall'altra momenti di sconforto, come il pensiero del suicidio 
                  che, dicono gli “uomini ombra”, una volta o l'altra 
                  sfiora un po' tutti. 
                  Antonio Presta ha 40 anni (38, all'epoca delle interviste). 
                  È entrato in carcere a 19 anni, condannato all'ergastolo 
                  a 25. Racconta: «Un vecchio ergastolano mi disse: “Noi 
                  ergastolani prima diventiamo carcerati, poi il carcere”. 
                  Ecco, non è un luogo comune quando si afferma che diventiamo 
                  arredamento del carcere, perché non potrò oppormi 
                  a lungo; prima o poi, mi piaccia o no, sarò 'il carcere': 
                  arrugginirò come il ferro, sarò umido e pieno 
                  di muffa come i muri, mi aprirò e mi chiuderò 
                  alla stessa ora e morirò ogni volta in un giorno diverso, 
                  fin quando esisterà l'ergastolo, fin quando resisterà 
                  il mio corpo». 
                   
                  Laura Antonella Carli
 
                   
                     
                       
                        Questa 
                          è la storia di Biagio: né morto, né 
                          vivo, né sano 
                         Qui 
                          di seguito ospitiamo un racconto che ci ha inviato Carmelo 
                          Musumeci, ergastolano ostativo, attualmente detenuto 
                          presso il carcere di Padova. Carmelo è nato il 
                          27 luglio 1955 ad Aci Sant'Antonio, in provincia di 
                          Catania. 
                          Quand'era all'Asinara, in regime 41 bis, riprese i suoi 
                          studi e in cinque anni terminò le scuole superiori 
                          per poi conseguire, dopo tre anni di studi la laurea 
                          in giurisprudenza con una tesi in sociologia del diritto 
                          dal titolo Vivere l'ergastolo. 
                          In carcere ha scoperto la passione per la scrittura, 
                          tra i suoi libri Undici ore d'amore di un uomo ombra 
                          e Zanna blu. Carmelo ama il linguaggio fiabesco 
                          e per descrivere la sua condizione di ergastolano utilizza 
                          metafore evocative: gli ergastolani sono gli “uomini 
                          ombra”, l'ergastolo è la “pena di 
                          morte viva”, lo Stato è “il ladro 
                          di sogni”.
                          
                          Mi viene da sorridere quando sento parlare di convegni 
                          sulla sanità in carcere, è un sorriso 
                          ironico e benevolo al tempo; per vivere e per stare 
                          bene c'è bisogno di amare e di libertà. 
                          (Alessandro Bruni) 
                          
                          «Biagio Campailla è un giovane “Uomo 
                          Ombra” arrestato in giovane età e condannato 
                          all'ergastolo ostativo. 
                          È arrivato da poco tempo dalla Sardegna, dal 
                          lager di Badu Carros, e abbiamo fatto presto amicizia. 
                          Tutte le mattine appena ci aprono i cancelli, viene 
                          a trovarmi nella mia cella, gli faccio il caffè, 
                          lo ascolto e provo a confortarlo. 
                          Biagio sta male, soffre di una malattia genetica come 
                          la sorella, che per questa malattia è scomparsa 
                          da pochi anni. 
                          Soffre di numerosi linfonodi latero-cervicali, di cervicobrachialgia, 
                          di ipoastenia sinistra e dell'arteria mammaria interna 
                          sinistra che incrocia e impronta il vaso venoso succlavio, 
                          che da 15mm passa a 6mm con conseguente possibile situazione 
                          clinica di sindrome dello stretto toracico superiore. 
                          Sulle sue spalle pesano due gravi condanne, tutte e 
                          due mortali, ma, bizzarria della sorte, una condanna 
                          può far finire l'altra. 
                          Dagli uomini è stato condannato alla “Pena 
                          di Morte Viva” (così chiamiamo l'ergastolo 
                          ostativo, quello senza possibilità di liberazione), 
                          dal destino invece è stato condannato a questa 
                          rara malattia. 
                          Biagio s'è sposato giovane, appena quattordicenne, 
                          come accade ancora nel meridione, ha quattro figli e 
                          a quarantadue anni ha cinque nipoti. 
                          Ha una famiglia che risiede in Belgio da tanti anni: 
                          dolce, colorita, solare e affettuosa, con una madre 
                          malata ma combattiva che lo segue con affetto da quattordici 
                          anni, l'ho conosciuta nella sala colloqui. 
                          Biagio mi parla spesso dei suoi figli e dei suoi nipotini 
                          e mi confida che gli dispiace che a causa della malattia 
                          non potrà vederli crescere. 
                          L'altro giorno mi ha confidato che non ha neppure più 
                          l'energia per stare male, che quello che lo terrorizza 
                          di più è spegnersi lentamente fra sbarre 
                          e cemento. 
                          Penso che abbia ragione perché quello che fa 
                          più paura ad un uomo ombra malato è morire 
                          prigioniero, lontano dai propri familiari. Invece quello 
                          che terrorizza un uomo ombra sano è continuare 
                          a vivere senza neppure un calendario in cella per segnare 
                          i giorni che mancano al suo fine pena. 
                           
                          Questa è la storia di Biagio: né morto, 
                          né vivo, né sano, che si sta spegnendo 
                          lentamente come una candela senza luce e al buio in 
                          una prigione dei buoni.»
                          
                            
                          Carmelo Musumeci 
                          Padova, dicembre 2012   | 
                   
                 
                 
                  Dove 
                  tutto è scontato  e 
                  niente lo è
                
   La 
                  raccolta saggistica I giorni scontati (Sandro Teti Editore, 
                  2012, pagg. 205, libro + dvd € 20.00) ci invita immediatamente 
                  ad aprire il vocabolario: «cercate il verbo “scontare” 
                  e l'aggettivo “scontato”: non sorprendetevi se i 
                  significati vi condurranno dentro il carcere». I contributi 
                  ospitati nel volume, opera di un gruppo di studiosi, direttori 
                  penitenziari, educatori, esperti europei e giuristi, sono tutti 
                  caratterizzati da una grande precisione terminologica, a cui 
                  Silvia Buzzelli ci abitua fin dall'introduzione, nella quale 
                  utilizza spunti lessicali come chiave d'accesso a una riflessione 
                  che sappia mettere in discussione i falsi assiomi legati all'universo 
                  carcerario. Prima ancora però c'è il titolo, giocato 
                  su un'interessante polisemia. Tra i tanti significati del verbo 
                  “scontare” e dell'aggettivo “scontato”, 
                  i più facilmente riconducibili all'ambito detentivo parlano 
                  di “fare ammenda” e “patire le conseguenze 
                  di uno sbaglio”. In questo caso però, oltre all'ovvio 
                  legame con l'argomento in questione, il titolo pone l'accento 
                  su un'altra accezione: “scontato” significa anche 
                  “previsto, prevedibile, dato per certo” e “dare 
                  per scontato” vuol dire smettere di problematizzare una 
                  questione, considerala ovvia, già data, non oggetto di 
                  discussione. E qui arriviamo a quello che, io credo, è 
                  l'obiettivo del libro: scardinare questa semplicità di 
                  analisi e riaprire la riflessione sul carcere, sul suo funzionamento, 
                  sulle sue criticità, sulla sua stessa esistenza: «Tutto 
                  è scontato e niente lo è, compresa l'esistenza 
                  del carcere. Questa è la ragione degli appunti, questo 
                  il motivo del documentario». 
                  La difficoltà di un discorso così elaborato è 
                  tenuta presente dagli autori stessi, che sono chiamati a scrivere 
                  non dei lavori conclusi quanto degli appunti (non a caso il 
                  sottotitolo è Appunti sul carcere), che rimandino 
                  ad altri approfondimenti e soprattutto testimonino indirettamente 
                  della complessità e della difficoltà di affrontare 
                  l'argomento con organicità e coerenza. Anche il termine 
                  “appunto” non ha un solo significato: è inteso 
                  anche come rimprovero, come osservazione. «E di rimproveri 
                  al nostro sistema detentivo – osserva Bruzzelli – 
                  se ne possono muovere davvero parecchi». 
                   
                    Luogo 
                  ideologico per individui generici 
                  Gli appunti raccolti nel libro sono frutto di approcci 
                  diversi e mettono a fuoco differenti aspetti della questione, 
                  con una grande attenzione allo spazio-carcere: dal significato 
                  – reale, metaforico e simbolico – delle sbarre e 
                  come esse incidono sulla visibilità e sugli incontri 
                  tra detenuti, fino allo studio più specifico di due luoghi-tipo: 
                  l'isola di Gorgona, ultima isola-carcere italiana, sede di un 
                  penitenziario a indirizzo agricolo-zootecnico, e il carcere 
                  di Lodi, raccontato con approccio storico, ricostruendone le 
                  tappe, senza prescindere da chi vi è vissuto.
                  
                
  Proprio nella casa circondariale di Lodi è girato il 
                  documentario I giorni scontati, che costituisce la seconda 
                  parte del progetto. «È un film nel carcere, 
                  non sul carcere», spiega Silvia Bruzzelli, che 
                  ci racconta come l'idea di un progetto diviso in due parti, 
                  strettamente correlate ma che fanno riferimento a due supporti 
                  diversi, video e cartaceo, sia nata dalla volontà di 
                  «abbandonare un'analisi a senso unico», facendo 
                  ricorso ad uno sguardo diverso: quello della telecamera, ma 
                  soprattutto quello di un regista-attore, un artista, che sappia 
                  interpretare la realtà con occhi sensibili e immergersi 
                  in essa in prima persona. In questo modo al lettore-spettatore 
                  è offerta la possibilità di «gettare uno 
                  sguardo dentro locali, di solito opachi, spesso impenetrabili». 
                  «Diamo per scontata l'esistenza delle prigioni, ma non 
                  vogliamo affrontare le realtà che producono e le condizioni 
                  di coloro che le vivono – racconta il regista Maccioni 
                  –. Siccome sarebbe troppo penoso accettare l'eventualità 
                  che capitasse a noi stessi, tendiamo a considerare il carcere 
                  come qualcosa di avulso dalla nostra vita, una sorte riservata 
                  ad altri, un luogo ideologico per generici individui indesiderabili. 
                  Il che ci solleva dalla responsabilità di riflettere 
                  sulle problematiche concrete che affliggono i funzionamenti 
                  di tali strutture. Riflettere su questa presenza-assenza significa 
                  iniziare a riconoscerne i paradossi». 
                  Maccioni ci accompagna alla scoperta della vita nel carcere 
                  di Lodi con l'ausilio della direttrice, Stefania Mussio e con 
                  il commento prezioso di Francesco Maisto, presidente del Tribunale 
                  di sorveglianza di Bologna. Quest'ultimo, fin dal primo intervento, 
                  mira a sfatare il luogo comune secondo cui la pena è 
                  una e una sola: il carcere. «Questo non sta scritto da 
                  nessuna parte. La costituzione, all'articolo 27, parla di pene, 
                  che non possono consistere in trattamenti contrari al senso 
                  di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». 
                  Maisto, anche in virtù della propria professione, non 
                  è un abolizionista, ma ritiene che sia comunque essenziale 
                  partire da questa consapevolezza: il carcere non è l'unica 
                  pena possibile. Dalla sua prospettiva riflette su come la situazione 
                  penitenziaria attuale soffra di un'assoluta mancanza di razionalità, 
                  anche in termini di efficienza dei costi, e si mostra amareggiato 
                  per l'assuefazione che in Italia abbiamo sviluppato nei confronti 
                  del malessere delle persone. Anche questo, secondo Maisto, è 
                  dato per scontato. 
                  Nella seconda parte del progetto si mantiene dunque l'eterogeneità 
                  di contenuti che caratterizza il libro: l'approccio giuridico 
                  si accompagna dunque a quello artistico, per offrire spunti 
                  di analisi su quello che Bruzzelli definisce “il problema 
                  di fondo”: «la presenza, cioè, di un “corpo 
                  carcerato”, prigioniero di un'istituzione naturalmente 
                  contraddittoria e ipocrita nel momento in cui si prefigge lo 
                  scopo di punire senza sofferenza». 
                   
                  Laura Antonella Carli
                
  
 
                   
                      
                        Questa 
                          è la storia di un erbivoro... 
                         «...Un 
                          detenuto condannato alla reclusione fino al giorno 99 
                          del mese 99 dell'anno 9999. “Fine pena mai“, 
                          come una ghigliottina al rallentatore. [...] 
                          Colpire il carcere significa colpire lo stato al cuore. 
                          Cambiare il carcere è il passo più importante 
                          verso un cambiamento radicale della società. 
                          Come cittadino di questa città carceraria posso 
                          lottare per i diritti più elementari. Lo sa, 
                          signor giudice, che nella cella del penitenziario che 
                          mi ospita posso avere solo dodici fotografie? Chi l'ha 
                          deciso questo numero? E da cosa dipende? Sono dodici 
                          come gli apostoli? E perché non trentatré 
                          come i trentini o sette come i nani? Se mia madre mi 
                          porta la foto del matrimonio di mio cugino, le devo 
                          ridare indietro quella di mio nipote che ha fatto la 
                          cresima. Giochiamo alle figurine. 
                          Signor giudice, mi svegliano alle sette con la battitura, 
                          alle otto passa la colazione, mentre la cena è 
                          alle cinque del pomeriggio. Per mangiare di nuovo devo 
                          aspettare venti ore. Oppure devo fare la domandina allo 
                          spesinoto e accedere al sopravvitto, ma per quello si 
                          deve pagare. E quale carcerato può permettersi 
                          di fare la spesa tutti i giorni? C'è gente che 
                          passa le due ore d'aria giornaliere a elemosinare monetine 
                          e gli bastano solo per fare una telefonata a settimana, 
                          perché chiamano in Africa o in Cina. E lo sa 
                          perché, signor giudice? Perché quaranta 
                          detenuti su cento sono immigrati. Detenuti che hanno 
                          commesso reati piccoli e piccolissimi. Perché 
                          ottanta immigrati regolari su cento sono stati irregolari 
                          e dunque in questo paese per un immigrato essere irregolare 
                          è la norma, perciò diventa normale che 
                          finisca in galera. A questi bisogna aggiungere altri 
                          trenta detenuti su cento che sono tossici. Capisce? 
                          Settanta detenuti ogni cento hanno rubato la mela soltanto 
                          per fame. E considerando la totalità degli ospiti 
                          nelle nostre prigioni, soltanto uno su due è 
                          stato condannato in via definitiva, perché quell'altra 
                          metà sconta una pena senza aver ricevuto una 
                          condanna.» 
                          
                            
                          Ascanio Celestini 
                          da Pro patria, Einaudi, 2012, pagg.136, € 
                          17.50 
                          Il libro è tratto dall'omonimo spettacolo teatrale 
                          (vedi “A” 
                          373, estate 2012)   | 
                   
                 
                 
                I 
                  numeri dietro le sbarre 
                  
                  Secondo dati aggiornati al 30 giugno 2012: 
                  1.546 è il numero degli ergastolani in Italia, tra cui 
                  35 donne. 
                  Più di 100 hanno alle spalle oltre 26 anni di detenzione 
                  (limite previsto per accedere alla libertà condizionale); 
                  la metà di questi ha superato i 30 anni di detenzione. 
                  Circa 1.200 è il numero degli ergastolani ostativi; 154 
                  sono i morti in carcere durante l'anno 2012; 60 è il 
                  numero dei suicidi avvenuti in carcere durante l'anno 2012. 
                   
                
 Per 
                  contatti e per saperne di più 
                 http://urladalsilenzio.wordpress.com 
                    www.carmelomusumeci.com 
                    www.associazioneantigone.it 
                      www.ristretti.org 
                     www.informacarcere.it 
                     www.innocentievasioni.net 
                 |