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 teatro in Bolivia 3 
                  
                Burattini nelle miniere 
                  
                di Federica Rigliani 
                    
                Dagli spettacoli itineranti di burattini e marionette alle esperienze didattiche in scuole, miniere e villaggi indigeni: la storia di Chango e del Teatro Runa. 
                 
                  L'argentino Edgar Darío 
                  González, detto “Chango”, arrivò in 
                  Bolivia da Buenos Aires nel 1969 per una tournée di un 
                  mese con il suo teatro itinerante di marionette e burattini. 
                  Ci tornò nel '70 con la moglie Mirta e la sua famiglia 
                  per stabilirsi a La Paz: “cominciai a lavorare con i centri 
                  minerari grazie a un contratto della Comibol – la Confederación 
                  Minera de Bolivia – che mi permise una sopravvivenza di 
                  circa cinque mesi”. Divenne regista e direttore delle 
                  attività teatrali del Tusa di La Paz e del teatro di 
                  Cochabamba, lavorò con l'Universidad Mayor de San Andrés 
                  e con il teatro dell'Universidad Católica: “fui 
                  scelto come direttore perché si pensava di me che fossi 
                  la persona più adatta ad esprimere ciò che, artisticamente, 
                  gli allievi avrebbero voluto imparare. Io venivo da una scuola 
                  che lavorava molto sul corpo dell'attore, sulla voce, conoscevo 
                  forme di lavoro che questi giovani volevano apprendere. Con 
                  il mio gruppo non ci preoccupammo solamente di rappresentare 
                  i nostri spettacoli, ci sembrava doveroso organizzare una vera 
                  e propria scuola di teatro. Pensavamo che non fosse possibile 
                  fare teatro senza avere una preparazione tecnica teatrale solida, 
                  legata al lavoro psicofisico, alla ricerca, al gioco, alla musica, 
                  ai colori del paese in cui stavamo vivendo.” 
                  Ma nel 1971 ci fu il colpo di stato di Ugo Bánzer e Edgar 
                  Darío González lasciò di nuovo paese: “fui 
                  bollato e non potetti fermarmi. È un po' l'ideologia 
                  delle dittature latinoamericane, tutto ciò che aveva 
                  un barlume culturale orientato a sinistra era da perseguire”. 
                  In Argentina, però, lo attendeva la stessa sorte, le 
                  dittature sembravano perseguitarlo e quando nel 1975 il paese 
                  passò al regime di Videla lui fece ritorno in Bolivia 
                  e fondò a Cochabamba il Teatro Runa: “Runa 
                  vuole dire uomo, uomo della terra, uomo campesino. Era 
                  costituito da dieci o dodici persone, tutti giovanissimi, dai 
                  tredici ai venticinque anni. Non eravamo ancora un gruppo, perché 
                  ognuno di noi viveva nelle proprie case. Il Centro de Educación 
                  de Portales ci ospitò e ci dette un minimo di denaro 
                  per poter iniziare a lavorare”. 
                  Perché proprio la Bolivia? “Chissà se è 
                  stato per una parentela storiografica, culturale, affettiva. 
                  Io sono nato a Salta, una piccola città vicina alla Bolivia 
                  che ha la sua stessa cultura. Non so. Io mi sentivo bene in 
                  Bolivia, per questo la scelsi. Mi innamorai di quel paese. Questa 
                  è la ragione. È stato un problema di amore da 
                  popolo a popolo, da uomo a uomo”. 
                  Con la possibilità di mettere in piedi un vero e proprio 
                  progetto González si pose il problema che fu anche di 
                  Nuevos Horizontes: restituire al teatro la sua funzione 
                  etica ed educativa. Tutti gli spettacoli del Teatro Runa, 
                  infatti, erano tratti da racconti accuratamente selezionati 
                  in cui venivano fatti convogliare elementi di attualità 
                  che avrebbero dovuto trasmettere agli spettatori un grande senso 
                  etico e di responsabilità: “[...] Partivamo da 
                  una considerazione molto semplice. Ci chiedevamo cosa stesse 
                  succedendo in quel preciso momento nel paese poi, sulla base 
                  di questo, prendevamo tutti gli elementi che costituivano, in 
                  quell'esatto momento, la realtà e, una volta portatili 
                  sulla scena, realizzavano essi stessi lo spettacolo”. 
                  Motivato anche dal bisogno personale di allontanarsi dal teatro 
                  commerciale, guardò al mondo rurale e declinò 
                  l'esigenza e la ricerca del teatro campesino-indígeno 
                  di Gabriel e Verónica Martínez nella volontà 
                  di avvicinare un pubblico non urbano e di conoscere le tradizioni 
                  legate a questa terra. Nel tentativo di valorizzare e far conoscere 
                  le radici della cultura boliviana, per poi metterle in scena, 
                  si avvicinò sempre più alle leggende native e 
                  ai personaggi della mitologia locale, come la volpe e la tigre. 
                  Ricercò, come dice lui, la magia che qui vive, ma non 
                  approfondì mai il discorso linguistico pur usando sempre 
                  qualche parola quechua nei suoi spettacoli: “Usavamo 
                  poco la parola, se non c'erano altre soluzioni parlavamo, ma 
                  se potevamo esprimerci anche mimando preferivamo quest'ultima 
                  forma espressiva alla parola recitata. La parte più rappresentativa 
                  era quella delle azioni drammatiche, erano facili da vedere 
                  e comprendere.”
                 
                 
                  Castigare  con il sorriso 
                
  La struttura degli spettacoli era estremamente semplice, proprio 
                  per favorire la comunicazione con gli spettatori, mentre lo 
                  spazio assumeva un ruolo di grande importanza soprattutto rispetto 
                  alla presenza dell'attore poiché la scenografia non rappresentava 
                  un problema: “non la usavamo mai, non la consideravamo 
                  importante. Pensavamo che la cosa importante fosse lo spazio 
                  scenico vuoto e, al suo interno, l'attore”. La presenza 
                  del gruppo era accompagnata sempre da musica, gli attori cantavano, 
                  suonavano diversi strumenti e scrivevano loro stessi la maggior 
                  parte delle musiche che interpretavano. Erano rumorosi e gioviali 
                  nel presentare questo teatro, per scelta ironico e satirico: 
                  “Ci sono molti modi di dire la verità. Uno di questi 
                  modi è far ridere la gente, i latini dicevano che bisognava 
                  castigare gli altri con il sorriso. Noi facevamo un teatro satirico, 
                  festivo [...]”. 
                  Il primo spettacolo, Vida, pasión y muerte del Atoj 
                  Antonio, tratto curiosamente dallo stesso testo sul quale 
                  lavorarono Gabriel e Verónica Martínez, era una 
                  metafora della lotta tra l'oppressore e l'oppresso affidata 
                  alle figure mitologiche della volpe e della tigre: “non 
                  volevamo fare un teatro politico. Questo racconto è una 
                  satira della realtà”. Fu ricevuto così bene 
                  dalla critica e dal pubblico che venne scelto per rappresentare 
                  Cochabamba nel Festival Nazionale di teatro di Sucre, nonostante 
                  tutti dicessero che l'argentino in questione non poteva rappresentare 
                  la città perché “straniero”. 
                  Chango non diresse da solo Atoj Antonio, lo realizzò 
                  come un'opera collettiva perché credeva necessario trasmettere 
                  la sua esperienza a chi poteva sviluppare una pratica registica: 
                  “Io ero il regista, ma la mia idea era formare altre persone, 
                  preparare futuri registi, far loro acquisire sicurezza nel lavoro, 
                  io sapevo che un giorno o l'altro avrei lasciato, ma loro avrebbero 
                  potuto e dovuto continuare anche senza di me”. Edgar proponeva 
                  un racconto in cui venivano incastonate tematiche attuali o 
                  tratte dalla storia recente, poi i ragazzi improvvisavano con 
                  le proprie emozioni, le proprie parole, il proprio sentimento 
                  e le proprie esperienze quotidiane. Nascevano quaranta, cinquanta 
                  scene, a volte da pulire altre volte quasi pronte. Ne sceglievano 
                  dieci o quindici, le più espressive, e con quelle strutturavano 
                  lo spettacolo, le liberavano del superfluo affinché svelassero 
                  solo il nocciolo. 
                  Il pubblico accolse con entusiasmo la loro proposta, ma quando 
                  lo spettacolo raggiunse la prima comunità isolata lo 
                  stupore del regista fu enorme: i campesinos conoscevano 
                  la storia perché i loro nonni e i loro bisnonni l'avevano 
                  tramandata all'immaginario collettivo raccontandola. Quel pubblico 
                  cominciò a sfidare sonoramente l'antagonista e ad immedesimarsi 
                  sempre più col protagonista, incitandolo e tifando letteralmente 
                  per lui, con enfasi e ardore. Se González sentiva la 
                  necessità di tornare nelle comunità più 
                  lontane, quelle conosciute agli esordi, dopo quella prima rappresentazione 
                  prese la decisione di viaggiare in lungo e in largo per il paese, 
                  andare “dove stava la gente, alla ricerca di un contatto 
                  diretto con gli spettatori”. Non voleva più fare 
                  teatro nei teatri istituzionali, lì presentava solo la 
                  prima: “A noi non interessò mai né la fama, 
                  né il denaro. Tutto questo non apparteneva alla nostra 
                  ideologia. Al centro del nostro lavoro c'era la comunicazione 
                  umana e il nostro primo problema era quello di capire il modo 
                  di comunicare con una o l'altra comunità.” Il Teatro 
                  Runa arrivò in luoghi dove nessuno era mai stato 
                  e scoprì un paese meraviglioso che neanche i componenti 
                  del gruppo, quasi tutti boliviani, conoscevano. “[...] 
                  conoscevo più io la Bolivia che questo gruppo di giovani 
                  boliviani. [...] Mi sembrò fondamentale organizzare con 
                  loro dei viaggi che li avvicinassero alla cultura da cui provenivano, 
                  affinché potessero conoscere Sucre, Potosí, Cochabamba, 
                  Tarija e i piccoli pueblos sperduti di quelle regioni.” 
                  Il gruppo lavorò nelle comunità indigene e nelle 
                  miniere, nei campi di pallone, nelle chicherias e nelle 
                  carceri traendo la sua forza solo dalla volontà che motivava 
                  ognuno di loro: “Laddove c'era uno spazio libero e pulito, 
                  c'eravamo noi con il nostro teatro. [...] Arrivammo in luoghi 
                  impensabili da raggiungere, impensabili per la gente e ancor 
                  più per il teatro, lavorammo in comunità isolatissime 
                  e visitammo Alquile, Telamayo, Techile, Chorloque, Cenany, Tupiza. 
                  Proprio lì conobbi Liber Forti ed il suo Conjunto: loro 
                  organizzarono la nostra tournée e ci ospitarono nella 
                  loro casa”. Si spesavano gli spostamenti, si muovevano 
                  in autostop dormendo dove capitava e affidandosi alla generosità 
                  delle comunità in cui arrivavano, alle quali chiedevano 
                  un prezzo simbolico per l'entrata “un peso boliviano, 
                  cifra che equivale al niente, però questo ricavato minimo 
                  ci permetteva di vivere”. Furono anni di conoscenza e 
                  condivisione vissuti come consegna totale: “In questi 
                  viaggi apprendemmo molte cose che il teatro non insegna, cose 
                  che si imparano solo nelle relazioni umane tra le persone”. 
                  Il regista credeva più che mai giusta la direzione della 
                  sua ricerca e di questo specifico fare teatrale, ma a un certo 
                  punto dovette fare i conti con i limiti di questa scelta e riconoscere 
                  una serie di problemi che non permettevano di dedicarsi pienamente 
                  al lavoro: “rimaneva sempre ad un livello di non totale 
                  professione, molti di noi lavoravano e studiavano; nonostante 
                  la puntualità che ogni ragazzo metteva nel lavoro, nonostante 
                  la volontà di indagare l'attività teatrale, non 
                  eravamo nella possibilità di dedicarci completamente 
                  al teatro”. E quando, nel 1978, incontrò Odin Teatret 
                  al Festival de Teatro de Ayacucho cominciò a pensare 
                  ad un teatro indipendente e professionale a cui dedicarsi tutto 
                  il giorno, in cui spendere ogni energia, ogni momento: “ci 
                  scontrammo con la serietà e la professionalità 
                  di quel gruppo. Io decisi di abbandonare tutte le attività 
                  parallele che fino a quel momento avevo svolto per vivere decentemente 
                  [...] Proposi al gruppo una vita comunitaria in una casa di 
                  campagna, in molti rimasero, altri andarono definitivamente 
                  via [...]”. In questa fase nacquero De aquí, 
                  de allá, de acullá, Historias de pañuelos 
                  e una collaborazione intensa con le scuole che rappresentava 
                  sempre un alto momento umano. 
                   
                  Il pane  dell'allegria
                  Era un periodo difficile e duro, ma grazie ai chilometri percorsi 
                  negli anni precedenti il gruppo era molto conosciuto per il 
                  suo lavoro, tutti sapevano che il Teatro Runa portava 
                  il teatro dove il teatro non andava, forse fu per questo che 
                  la Fondazione Interamericana non esitò a finanziare 
                  con 100 mila dollari il suo progetto teatrale per quattro anni: 
                  “ci dette il denaro necessario per cucinare questo pane 
                  dell'allegria che andrà ad alimentare una goccia del 
                  sangue dell'uomo nuovo che intendiamo costruire”, si legge 
                  nell'editoriale di uno dei quattro numeri della rivista pubblicata 
                  dal gruppo.1 Da quel momento 
                  in poi nessuno pagò più per assistere a uno spettacolo 
                  del Teatro Runa, né in campagna, né in 
                  città. Il denaro alleggerì le difficoltà, 
                  permise l'acquisto di un'automobile, di mezzi tecnici per il 
                  suono e delle luci, alcuni di loro misero insieme anche i risparmi 
                  e acquistarono una casa a Tarija. Era il 1980. In quella casa 
                  nacquero Aquí estan los cantores, Habla cantando, 
                  Los títeres pasan en el camino. L'organizzazione 
                  della quotidianità si strutturò intorno a una 
                  comunità totalmente autosufficiente e indipendente: “una 
                  piccola grande comunità in cui ognuno aveva i suoi compiti: 
                  cucinavamo, facevamo le pulizie a turno, Organizzammo un orto 
                  molto bello, ricco, con tanta verdura fresca... avevamo una 
                  casa sempre aperta a tutti. I nostri ospiti potevano fermarsi 
                  per una settimana gratis, poi dovevano contribuire alle spese. 
                  Noi non ce l'avremmo mai fatta con la nostra economia ad ospitarli 
                  tutti.” 
                  Gli anni '80 segnarono una grande possibilità dal punto 
                  di vista professionale, ma un nuovo colpo di stato, quello di 
                  García Mesa, inaugurò un altro periodo di repressione 
                  che rese difficile lavorare. Qualche giorno dopo essersi stabiliti 
                  a Tarija, paramilitari che lavoravano per i Servizi di Intelligenza 
                  argentini, protetti dal Dipartimento di Stato nordamericano, 
                  fecero incursione nella casa per cercare armi e prelevarono 
                  il regista e suo figlio. In prefettura li interrogarono sul 
                  loro lavoro, sul perché di quel via vai continuo e sospetto 
                  di stranieri, ma dovettero scusarsi con loro e rilasciarli quella 
                  stessa notte. Il villaggio di San Lorenzo, gli allievi e i maestri 
                  delle scuole elementari e medie si sollevarono in massa per 
                  difenderli, mentre alcuni uomini importanti della destra locale 
                  si fecero garanti per Don Darío e il lavoro del Teatro 
                  Runa. Ma alcuni furono incarcerati, altri ancora vollero andar 
                  via, ed elementi validi, pilastri del lavoro come Juan Espinoza, 
                  Federico Rocha e Gonzalo Cuella lasciarono il gruppo dopo soli 
                  sei mesi di progetto, convinti che “non si poteva rimanere 
                  in un paese che ti uccideva”. Chango, che rimase con i 
                  suoi figli, Naira e Nuri, quell'anno aveva saputo anche che 
                  sua moglie Mirta era desaparecida in Argentina, di lei 
                  non avrebbe mai più avuto nessuna notizia. Dopo un po' 
                  tornò anche Federico, con lui e con alcuni ragazzi che 
                  avevano partecipato ai seminari si costituì un nuovo 
                  gruppo che lavorò fino al 1983. 
                  Due furono le direzioni che il Teatro Runa seguì: 
                  da una parte la preparazione degli attori, la ricerca formale 
                  e la collaborazione con tutto il mondo teatrale che chiedeva 
                  di incontrarlo, dall'altra l'impegno in un grande progetto pedagogico. 
                  Sempre più intensa fu la ricerca teatrale, affrontata 
                  con metodo e disciplina: gli attori ricevevano uno stipendio, 
                  dedicavano un tempo fisso allo studio, all'allenamento, alla 
                  formazione e alla preparazione artistica. Inoltre, per assicurare 
                  l'apertura del gruppo e l'integrazione con altre realtà 
                  artistiche che favorissero uno scambio e una crescita interna, 
                  González offrì delle borse di studio ad allievi 
                  boliviani ed europei: “Avevamo dei borsisti dalla Finlandia, 
                  dall'Islanda, dalla Svizzera, dalla Germania, gente che arrivava, 
                  lavorava con noi e viaggiava con il nostro teatro. Portavano 
                  la loro cultura e le loro radici, ci permettevano di crescere 
                  e conoscere altre forme di sentire la vita, altri modi di mangiare, 
                  di parlare e di conoscere il mondo”. Tra i borsisti boliviani 
                  che lavorarono con lui ci fu anche il gruppo di Mathias Marchiori, 
                  che dopo aver imparato a fare i burattini portò per tanti 
                  anni i suoi, bellissimi, nelle Ville più povere della 
                  Città di Santa Cruz. Infine la sera, dopo cena, terminati 
                  gli impegni quotidiani, il Teatro Runa incontrava tutti 
                  i gruppi di teatro amatoriale che volevano conoscerlo, in una 
                  continua collaborazione in cui gli attori di Chango trasmettevano 
                  le loro conoscenze animati da grande solidarietà: “dal 
                  tardo pomeriggio fino a notte fonda incontravano i gruppi cittadini 
                  che si dedicavano già al teatro. [...] Avevano sempre 
                  problemi tecnici e di repertorio, ma anche di regia e di montaggio 
                  delle scene degli spettacoli. Il lavoro consisteva nell'aiutarli 
                  proprio a costruire lo spettacolo, questo è successo 
                  a Tarija, a Santa Cruz, a La Paz”.
                  
                
  Alfabetizzazione  teatrale 
                  Il progetto pedagogico Teatro y Educación, invece, 
                  si rivelò così impegnativo che di fatto allontanò 
                  gli attori dalla parte più propriamente creativa. Lavorarono 
                  nelle scuole urbane e rurali della Bolivia inserendo il teatro 
                  e l'espressione artistica in un percorso didattico che favorisse 
                  l'alfabetizzazione teatrale degli alunni: “rimanevamo 
                  per sei mesi nella casa di Tarija, tra marzo e aprile partivamo 
                  [...] per sei mesi e andavamo a lavorare con le scuole, urbane 
                  e rurali, della Bolivia. Avevamo dieci scuole, lavoravamo con 
                  cinque classi di quaranta alunni per due ore al giorno, per 
                  un totale di dodici ore settimanali [...]”. In un primo 
                  momento gli allievi lavorarono sulle storie scelte dal gruppo 
                  e attinte dalla tradizione locale: “Paulo Freire, educatore 
                  brasiliano, fautore della 'pedagogia della liberazione', sosteneva 
                  che si poteva fortificare la coscienza nazionale attraverso 
                  il recupero della tradizione popolare. Noi ci sentivamo molto 
                  vicini a questa posizione.” Per questo la scelta dei testi 
                  rappresentava sempre un momento molto impegnativo: “proponevamo 
                  una diversa concezione del bene e del male. [...] Cercavamo 
                  di partire sempre da un concetto molto concreto: volevamo cercare 
                  di formare uomini estremamente solidali, immaginativi, aperti 
                  ai problemi della comunità e disposti a fornire soluzioni 
                  a quei problemi. I nostri non erano racconti moralisti, raccoglievano 
                  la storia del nostro paese descrivendo il modo di pensare, di 
                  sentire e di agire della società”. Dopo, però, 
                  cominciarono a trasmettere i punti cardine della costruzione 
                  di una storia: “Fornivamo le tecniche basilari del racconto, 
                  le figure necessarie per costruire una storia, le relazioni 
                  tra il protagonista e l'antagonista” lasciando che i ragazzi 
                  rappresentassero i loro racconti. L'enorme mole di materiale 
                  prodotto divenne un archivio inestimabile, base di scrittura 
                  di una vera e propria letteratura dell'infanzia: nuova perché 
                  inesistente, antica perché basata sulla mitologia nativa; 
                  “volevamo creare una nuova letteratura per l'infanzia 
                  e per i giovani, consideravamo scarsa quella che c'era. Fu questo 
                  il motivo che ci portò a spingere i maestri a rappresentare 
                  i racconti scritti dagli allievi, affinché essi stessi 
                  potessero, in qualche modo, autorappresentarsi. Tu non sai quanti 
                  racconti ho raccolto, tu non sai quante voci continuano a parlare!” 
                  Ecco, quindi, emergere in tutta la sua importanza la figura 
                  del maestro. Era fondamentale trovare un modo per interessare 
                  gli insegnanti e farli partecipare, era necessario trasmettere 
                  loro le capacità e le tecniche per non interrompere ciò 
                  che ogni volta veniva iniziato in un seminario o in un ciclo 
                  di incontri, permettere loro di continuare anche dopo il termine 
                  della collaborazione. Bisognava affiancare alla loro formazione 
                  le tecniche di costruzione di marionette e burattini, per assicurare 
                  la rappresentazione delle storie prodotte in classe all'interno 
                  di un tempo scuola: “Insegnavamo come inserire in un percorso 
                  didattico l'espressione fisica, manuale ed artistica. Fornivamo 
                  le istruzioni per la creazione delle maschere e dei burattini: 
                  come muoverli, come vestirli, come farli parlare. I ragazzi 
                  scrivevano i loro racconti e davano vita, con il burattino che 
                  avevano costruito, alle storie che avevano immaginato. Fornivamo 
                  esercizi pratici e semplici che ogni maestro del ciclo elementare 
                  avrebbe potuto praticare e spiegare ai suoi allievi”. 
                  Per questo la formazione dell'insegnante divenne uno degli obiettivi 
                  principali del progetto: “non parlavamo mai del maestro 
                  come di colui che insegna [...]. Credevamo che nessuno potesse 
                  insegnare e basta, eravamo convinti che tutti dovessero apprendere 
                  da tutti”. Lo scopo era quello di formare “un maestro 
                  sensibile, creativo, solidale, aperto ai problemi della comunità, 
                  disposto ad apprendere dalla comunità stessa, per poter 
                  partecipare alla formulazione e alla realizzazione delle soluzioni 
                  adeguate”, solo così avrebbe collaborato in prima 
                  persona “alla riaffermazione della coscienza nazionale 
                  mediante il riscatto della cultura popolare”2. 
                  Un grande impegno quello del Teatro Runa, ma il destino 
                  è scritto, dice Chango, anche quando noi lo dimentichiamo. 
                  Perse suo figlio nell'82 in un incidente: “Comprai quella 
                  casa per vivere in Bolivia, ma non potetti più farlo. 
                  Mi sono rotto dentro emotivamente con la scomparsa di mio figlio, 
                  avvertii il gruppo che sarei partito, avrei lasciato Tarija 
                  e la Bolivia alla fine del 1983, ma io quella casa l'avevo comprata 
                  per diventare vecchio lì, in quella terra, tra quella 
                  gente”. Così, proprio durante questi quattro anni 
                  di intenso e proficuo lavoro, Darío González partì 
                  portando con sé il suo grande dolore e la pienezza e 
                  l'importanza dell'attività svolta: “Noi abbiamo 
                  fatto un lavoro nella migliore maniera che abbiamo potuto scegliere, 
                  in un determinato momento storico. Consegnammo pienamente al 
                  nostro sogno i nostri soldi, i nostri ricorsi economici, la 
                  nostra gioventù, la forza della nostra energia. Vivemmo 
                  intensamente. Se il mio dolore fosse stato diverso, oggi sarei 
                  ancora lì”.3 Ma 
                  la sua sensazione, quella che egli stesso definisce “un'idea 
                  romantica”, sopravvive al momento della mia intervista, 
                  sia rispetto alla sua vita privata, quando afferma: “senza 
                  quella gente io non avrei niente [...] la Bolivia mi intrappolò 
                  tanto che, anche oggi penso, sarà sicuramente il paese 
                  della mia vecchiaia, tornerò lì...”; sia 
                  rispetto a quella professionale e alla convinzione che, prima 
                  o poi, qualcun altro avrebbe ricominciato da dove egli era arrivato. 
                  Probabilmente César Brie, nel suo saggio Dove finisce 
                  l'esilio, si riferisce proprio a Chango quando dice: “Quell'uomo 
                  aveva lavorato in Bolivia e aveva fatto teatro di burattini 
                  nelle miniere, nelle scuole, tra le comunità indigene. 
                  Il posto da cui scrivo è la Bolivia, ed il suo lavoro 
                  adesso è il mio”4. 
                  
                Federica Rigliani 
                Note
 
                  - Edgar Darío González, editoriale a Titiricirco, 
                  pubblicazione del Teatro Runa in Bolivia, Qori Llama, Sucre, 
                  Bolivia, s.d. [1982].
                  
 - Edgar Darío González, editoriale a El teatro 
                  y los títires en la educación, Pubblicazione 
                  del Teatro Runa, Qori Llama, Sucre, Bolivia, s.d. [1983].
                  
 - Intervista a Edgar Darío González. Cit.
                  
 - C. Brie, Dove finisce l'esilio, in AA.VV 'Passi Passaggi: 
                    Partecipazione e solitudine nell'arte', Edizioni Sestante, 
                    Ripatransone (AP), 1993, pag.101.
  
                   
                
                   
                      
                        Il 
                          teatro sulle Ande
  
                          Con questa terza puntata prosegue la 
                          serie di quattro scritti curati da Federica Rigliani 
                          e dedicati ad alcune significative esperienze teatrali 
                          nella Bolivia della seconda metà del '900. Il 
                          primo contributo, dedicato a Liber Forti e al Conjunto 
                          Teatral Nuevos Horizontes, è stato pubblicato 
                          sul numero 376 di “A” (dicembre 
                          2012-gennaio 2013), mentre il secondo, che racconta l'esperienza del teatro Kollasuyo, 
                  è apparso sullo scorso numero (“A” 377, febbraio 
                  2013).   | 
                   
                 
                
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