rivista anarchica
anno 43 n. 378
marzo 2013





Stranierismi straniati

di Nicoletta Vallorani


Insegno una lingua straniera, dall'inizio della mia vita professionale. Per molto tempo l'ho insegnata a italiani di ogni regione, smantellando tracce persistenti di accenti locali e falsilinguismi confusi che riaffioravano anche nell'alta formazione. E adesso smantello altre lingue straniere, che sono di fatto le lingue madri di molti studenti universitari, in un momento in cui internazionalizzare gli atenei è il mantra e la formula magica pronunciata ossessivamente da ogni rettore e da ogni ministro. E vi dirò una cosa: è vero, gli atenei italiani sono pieni di studenti stranieri. Questo non accade necessariamente perché siamo bravi, ma per una serie di motivi differenti, non tutti nobili.
La prima questione da tenere in conto è questa: molti paesi in crescita e dotati di fondi da spendere hanno capito al volo che il primo investimento da fare è nella formazione. Così, ad esempio, Brasile, Cina e Corea – per dirne solo alcuni – mettono a disposizione budget favolosi per la formazione di una nuova classe dirigente che possa completare il suo iter accademico all'estero senza dover passare i weekend a lavorare in birreria. Ora, per questi paesi, l'università italiana – statale e con una buona fama, per quanto spesso tradita dai fatti – costa pochissimo ed è quindi conveniente. Una volta qui – e specie in tempi recenti, nei quali le vacche magre stanno inducendo a sostituire le tasse pagate dagli utenti ai finanziamenti statali che non arrivano – gli studenti stranieri vengono percepiti come una risorsa economica imperdibile (e di fatto lo sono), con la spiacevole conseguenza che i parametri di preparazione richiesti a uno studente straniero per superare un esame sono spesso diversi rispetto a quelli di un italiano. Ora, se io mando un mio allievo a studiare in Uk o in Usa, l'istituzione accademica locale impone la conoscenza preliminare della lingua, spesso esclude l'attribuzione di borse di studio e applica – anche qui spesso, ma non sempre – una tassazione più alta (a meno che, naturalmente, lo studente italiano in questione non sia un maledetto genio, e dunque da proteggere). E come sappiamo, lo stato italiano non aiuta in alcun modo i volenterosi kamikaze che vanno all'estero a conoscere il mondo.
Qualche tempo fa, un collega più anziano e di altra disciplina mi raccontava di aver fatto parte di una commissione durante la quale uno studente straniero aveva letto una relazione integralmente in inglese sul suo lavoro. Interpellato brevemente, sia in italiano che in inglese, sul significato di quello che aveva detto, è risultato incapace di rispondere. Dopo di che il mio collega è stato indotto al silenzio e successivamente rimproverato per aver ostacolato il sereno svolgimento della discussione della tesi di un ospite proveniente da un altro paese. Insomma è una questione di ospitalità, la stessa che dimostriamo, collettivamente e al dettaglio, quando assumiamo stranieri in nero, quando li sistemiamo in centri d'accoglienza che sono campi di coltura per i batteri, quando diamo fuoco ai campi rom e quando diciamo che i negri puzzano.
Sono contenta di lavorare in un posto pieno di studenti stranieri. Però io devo attribuire un titolo ufficiale, che è italiano. Questo fa di me un funzionario pubblico e del neolaureato una persona in grado di spendere le sue competenze in una struttura professionale italiana. In che lingua? Ed è pure un po' umiliante, a ben guardare: non va bene, cioè, che, quando protesto perché si vogliono attribuire troppi punti alla discussione di uno studente straniero, condotta come i colloqui d'accesso dei migranti italiani di tanto tempo fa a Ellis Island, mi si risponda: «Ma è stato bravissimo! Ti rendi conto? È straniero! In due anni, mica si impara l'italiano!»
Già: in due anni non si impara l'italiano, soprattutto se non è necessario saperlo per prendere una laurea italiana. E quei denari ci servono, perciò non ci resta che venderci al miglior offerente. Ho la sensazione che questo siamo diventati: piazzisti in cerca del miglior offerente. La mia amica saggia e prossima alla pensione dice che dobbiamo rassegnarci: il progetto culturale si sta rapidamente trasformando in una istituzione imprenditoriale, che però non è equipaggiata del personale giusto. Non siamo capaci, o almeno non lo sono quelli tra noi che sono persone di cultura. Se ci va proprio bene, assisteremo alla derubricazione degli atenei a panda (come specie protetta e come utilitaria), ma non è escluso che in entrambi questi ruoli – zoologici e automobilistici – preferiremo il confuso miraggio di una utilità economica al mantenimento di un'etica professionale e di una funzione formativa.
Direi che lo abbiamo già visto succedere nell'editoria, e di recente i due mondi si sono coniugati nella mia esperienza personale. Non troppo tempo fa, uno dei miei studenti stranieri ha consegnato una prova scritta nella quale veniva usato il termine “eccitamento”. Siccome, nella lingua italiana, questo termine non esiste, ho pensato di far cosa grata allo studente straniero segnalandogli la parola corretta che avrebbe dovuto usare. A questo punto, lo studente, molto volenteroso e molto impassibile ai miei consigli, ha estratto dalla borsa l'ultimo romanzo di un autore italiano molto famoso. Il volume era in edizione cartonata, ed era contrappuntato di post-it dell'intrepido lettore, che, dopo breve ricerca ha reperito il termine in questione: eccitamento, stampato nero su bianco. Confusa, ho preso a girarmi il volume fra le dita. Credo di aver impietosito il mio studente che, avendo ottenuta la derubricazione dell'errore sulla base dell'evidente autorità di un libro nobile in una collana nobile e indubitabilmente italiana, ha insistito per darmi in prestito il libro. Così ho scoperto che, nella nuova lingua italiana (o, dovrei dire, anatomia) non solo esiste l'eccitamento, ma il sangue defluisce dai piedi alla testa. E qui mi sono fermata, per evitare che il mio sangue e la mia bile prendessero direzioni improbabili.

Nicoletta Vallorani