Stranierismi straniati  
                  
                di Nicoletta Vallorani 
                 
                  Insegno una lingua straniera, 
                  dall'inizio della mia vita professionale. Per molto tempo l'ho 
                  insegnata a italiani di ogni regione, smantellando tracce persistenti 
                  di accenti locali e falsilinguismi confusi che riaffioravano 
                  anche nell'alta formazione. E adesso smantello altre lingue 
                  straniere, che sono di fatto le lingue madri di molti studenti 
                  universitari, in un momento in cui internazionalizzare gli atenei 
                  è il mantra e la formula magica pronunciata ossessivamente 
                  da ogni rettore e da ogni ministro. E vi dirò una cosa: 
                  è vero, gli atenei italiani sono pieni di studenti stranieri. 
                  Questo non accade necessariamente perché siamo bravi, 
                  ma per una serie di motivi differenti, non tutti nobili. 
                   La 
                  prima questione da tenere in conto è questa: molti paesi 
                  in crescita e dotati di fondi da spendere hanno capito al volo 
                  che il primo investimento da fare è nella formazione. 
                  Così, ad esempio, Brasile, Cina e Corea – per dirne 
                  solo alcuni – mettono a disposizione budget favolosi per 
                  la formazione di una nuova classe dirigente che possa completare 
                  il suo iter accademico all'estero senza dover passare i weekend 
                  a lavorare in birreria. Ora, per questi paesi, l'università 
                  italiana – statale e con una buona fama, per quanto spesso 
                  tradita dai fatti – costa pochissimo ed è quindi 
                  conveniente. Una volta qui – e specie in tempi recenti, 
                  nei quali le vacche magre stanno inducendo a sostituire le tasse 
                  pagate dagli utenti ai finanziamenti statali che non arrivano 
                  – gli studenti stranieri vengono percepiti come una risorsa 
                  economica imperdibile (e di fatto lo sono), con la spiacevole 
                  conseguenza che i parametri di preparazione richiesti a uno 
                  studente straniero per superare un esame sono spesso diversi 
                  rispetto a quelli di un italiano. Ora, se io mando un mio allievo 
                  a studiare in Uk o in Usa, l'istituzione accademica locale impone 
                  la conoscenza preliminare della lingua, spesso esclude l'attribuzione 
                  di borse di studio e applica – anche qui spesso, ma non 
                  sempre – una tassazione più alta (a meno che, naturalmente, 
                  lo studente italiano in questione non sia un maledetto genio, 
                  e dunque da proteggere). E come sappiamo, lo stato italiano 
                  non aiuta in alcun modo i volenterosi kamikaze che vanno all'estero 
                  a conoscere il mondo. 
                  Qualche tempo fa, un collega più anziano e di altra disciplina 
                  mi raccontava di aver fatto parte di una commissione durante 
                  la quale uno studente straniero aveva letto una relazione integralmente 
                  in inglese sul suo lavoro. Interpellato brevemente, sia in italiano 
                  che in inglese, sul significato di quello che aveva detto, è 
                  risultato incapace di rispondere. Dopo di che il mio collega 
                  è stato indotto al silenzio e successivamente rimproverato 
                  per aver ostacolato il sereno svolgimento della discussione 
                  della tesi di un ospite proveniente da un altro paese. Insomma 
                  è una questione di ospitalità, la stessa che dimostriamo, 
                  collettivamente e al dettaglio, quando assumiamo stranieri in 
                  nero, quando li sistemiamo in centri d'accoglienza che sono 
                  campi di coltura per i batteri, quando diamo fuoco ai campi 
                  rom e quando diciamo che i negri puzzano. 
                  Sono contenta di lavorare in un posto pieno di studenti stranieri. 
                  Però io devo attribuire un titolo ufficiale, che è 
                  italiano. Questo fa di me un funzionario pubblico e del neolaureato 
                  una persona in grado di spendere le sue competenze in una struttura 
                  professionale italiana. In che lingua? Ed è pure un po' 
                  umiliante, a ben guardare: non va bene, cioè, che, quando 
                  protesto perché si vogliono attribuire troppi punti alla 
                  discussione di uno studente straniero, condotta come i colloqui 
                  d'accesso dei migranti italiani di tanto tempo fa a Ellis Island, 
                  mi si risponda: «Ma è stato bravissimo! Ti rendi 
                  conto? È straniero! In due anni, mica si impara l'italiano!» 
                  Già: in due anni non si impara l'italiano, soprattutto 
                  se non è necessario saperlo per prendere una laurea italiana. 
                  E quei denari ci servono, perciò non ci resta che venderci 
                  al miglior offerente. Ho la sensazione che questo siamo diventati: 
                  piazzisti in cerca del miglior offerente. La mia amica saggia 
                  e prossima alla pensione dice che dobbiamo rassegnarci: il progetto 
                  culturale si sta rapidamente trasformando in una istituzione 
                  imprenditoriale, che però non è equipaggiata del 
                  personale giusto. Non siamo capaci, o almeno non lo sono quelli 
                  tra noi che sono persone di cultura. Se ci va proprio bene, 
                  assisteremo alla derubricazione degli atenei a panda (come specie 
                  protetta e come utilitaria), ma non è escluso che in 
                  entrambi questi ruoli – zoologici e automobilistici – 
                  preferiremo il confuso miraggio di una utilità economica 
                  al mantenimento di un'etica professionale e di una funzione 
                  formativa. 
                  Direi che lo abbiamo già visto succedere nell'editoria, 
                  e di recente i due mondi si sono coniugati nella mia esperienza 
                  personale. Non troppo tempo fa, uno dei miei studenti stranieri 
                  ha consegnato una prova scritta nella quale veniva usato il 
                  termine “eccitamento”. Siccome, nella lingua italiana, 
                  questo termine non esiste, ho pensato di far cosa grata allo 
                  studente straniero segnalandogli la parola corretta che avrebbe 
                  dovuto usare. A questo punto, lo studente, molto volenteroso 
                  e molto impassibile ai miei consigli, ha estratto dalla borsa 
                  l'ultimo romanzo di un autore italiano molto famoso. Il volume 
                  era in edizione cartonata, ed era contrappuntato di post-it 
                  dell'intrepido lettore, che, dopo breve ricerca ha reperito 
                  il termine in questione: eccitamento, stampato nero su bianco. 
                  Confusa, ho preso a girarmi il volume fra le dita. Credo di 
                  aver impietosito il mio studente che, avendo ottenuta la derubricazione 
                  dell'errore sulla base dell'evidente autorità di un libro 
                  nobile in una collana nobile e indubitabilmente italiana, ha 
                  insistito per darmi in prestito il libro. Così ho scoperto 
                  che, nella nuova lingua italiana (o, dovrei dire, anatomia) 
                  non solo esiste l'eccitamento, ma il sangue defluisce dai piedi 
                  alla testa. E qui mi sono fermata, per evitare che il mio sangue 
                  e la mia bile prendessero direzioni improbabili. 
                  
                Nicoletta Vallorani 
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