  
                  
 Spezzare il pane nei vicoli oscuri 
                  
                Intervista a don Andrea Gallo di Renzo Sabatini 
				
  
                  “Il mio vangelo è poesia, il mio vangelo è musica, il mio vangelo è una voce che si ispira agli ultimi. Con una spruzzata di anarchia” ha dichiarato una volta don Andrea Gallo a proposito del “Vangelo secondo De André”. 
A colloquio con un “prete da marciapiede” che cerca di portare la buona novella lontano dalle mura del tempio, fra i carrugi, tra il “letame dove nascono i fiori”.  
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Don 
                        Andrea Gallo  | 
                   
                 
                 
                  Che significa essere un “prete da marciapiede”, 
                  come lei ama definirsi?  
                  Come prete, da oltre 46 anni, proprio in questa comunità 
                  di San Benedetto al Porto (1) da cui parlo 
                  adesso (qui siamo nell'angiporto di Genova) ho cercato di mettere 
                  in pratica il consiglio amoroso di Gesù: andate, cercate. 
                  A me piace girare la città, col suo angiporto, con i 
                  suoi vicoli, le sue strade; mi piace andare in periferia; mi 
                  piace il dialogo, l'ascolto. Qui, nel dicembre del 1970, abbiamo 
                  deciso di aprire una porta dove bussano tutti: gli ultimi, i 
                  vinti, i fragili, i perdenti. Ecco il mio incontro anche con 
                  Fabrizio De André. In realtà “don Gallo 
                  prete da marciapiede” me lo hanno attribuito gli altri, 
                  perché io sono sempre da tutte le parti, cercando di 
                  scoprire, di guardare negli occhi, di vivere accanto a loro 
                  e poi, via via, di portare anche una solidarietà liberatrice: 
                  l'inserimento nel lavoro, la cura… ecco, questo è 
                  il mio marciapiede: andare per le strade e cercare di annunciare 
                  un messaggio, una speranza. 
                   
                  Che cosa rappresenta per lei la comunità? 
                  Per me è proprio la mia casa, la mia vita. Don Milani 
                  (ma sono lontano dal volermi paragonare a quel grande maestro) 
                  diceva, parlando della scuola di Barbiana: “Questi ragazzi 
                  così bisognosi di tutto mi hanno insegnato la vita”. 
                  Ecco, io posso dire la stessa cosa: dopo 35 anni di questa comunità 
                  devo dire che i ragazzi, le ragazze, tutti gli emarginati che 
                  ho incontrato, mi hanno insegnato la vita. Mi sono laureato 
                  a questa università della strada. 
                   
                  Di Fabrizio De André lei ha detto che lui lo ha 
                  coinvolto evangelicamente con la sua poesia e che le ha insegnato 
                  a versare il vino e spezzare il pane non solo tra le mura del 
                  tempio ma anche tra i vicoli oscuri. Che significa concretamente? 
                  Come è avvenuta questa sua “conversione”? 
                  È accaduto che io ho creduto davvero al suo messaggio! 
                  Quando dice: “dai diamanti non nasce niente, dal letame 
                  nascono i fior”, chi è che può smentire 
                  questa affermazione? In questa morte che ormai stava diventando 
                  Genova, mi ha insegnato l'alfabeto dell'amore, mi ha migliorato. 
                  Leggere le sue poesie, i suoi canti, che sono una sorta di antologia 
                  dell'amore, mi ha trasmesso una profonda inquietudine dello 
                  spirito che coincide proprio con l'aspirazione alla libertà. 
                  Non a caso recentemente l'editore Mondadori ha voluto intitolare 
                  un libro su di me: “Angelicamente anarchico”. C'è 
                  in Fabrizio questa attenzione agli ultimi, questo amorevole 
                  intreccio che passa, direi, dal filo d'oro evangelico alla lirica, 
                  alle note, e viceversa. Allora mi è sembrato di poter 
                  annunciare il Vangelo veramente dando un senso alla vita, liberandomi 
                  dalle mie paure; poter vivere una vita come servizio. E non 
                  mi importa se chi mi implora tende la mano per gli altri oppure 
                  è un assassino. Anzi, volendo approfondire ancora di 
                  più, vorrei dire che Fabrizio mi ha richiamato alla trascendenza. 
                  Penso al Pescatore, che qui nella comunità i ragazzi 
                  cantavano già più di vent'anni fa. Nel Pescatore, 
                  nel suo guardare oltre, c'è proprio una chiamata alla 
                  trascendenza. Io ho scoperto questo punto di Dio in Fabrizio, 
                  cioè nel senso che l'essere umano, al di là dell'appartenenza 
                  a una qualche religione, può percepire la presenza di 
                  Dio. Ecco allora perché in me c'è l'apertura a 
                  tutte le etiche, a tutte le religioni. Ho scoperto così 
                  il mio punto di Dio e ho capito che avevo un vantaggio direi 
                  proprio della mia natura umana, di possedere un messaggio universale. 
                  In Fabrizio è forte, profonda, questa voce che parte 
                  dal profondo dell'uomo, che grida giustizia radicalmente e per 
                  me gioiosamente, entrando anche in una cultura libertaria. Per 
                  me quindi è stato un riferimento di senso per la mia 
                  stessa vita: ho scoperto la spiritualità che appartiene 
                  all'umano e che non è monopolio delle religioni. Lo dico 
                  come prete cattolico che ama la sua chiesa: ma questo mi ha 
                  insegnato Fabrizio, che la spiritualità non è 
                  monopolio delle religioni. Quindi, al di là di ogni altra 
                  considerazione io dico chiaro e tondo che Fabrizio è 
                  a pieno titolo un mio evangelista, cioè portavoce della 
                  profonda coscienza e della stessa energia vitale umana. Questo 
                  per me è il valore di tutta l'opera di Fabrizio, così 
                  poetica. Io sono legato anche a Fernanda Pivano, che mi ha fatto 
                  scoprire della cose e che lo considera il più grande 
                  poeta del novecento. Poi, vedendo i ragazzi della comunità 
                  che vengono da dei tunnel, da situazioni difficili, ho capito 
                  che quando l'uomo torna a cantare vuol dire che c'è ancora 
                  speranza, non solo per l'individuo, ma per la stessa società. 
                  Quindi tutta l'opera di Fabrizio è un evento universale, 
                  per il mondo, per la storia e io credo che sarà la poesia 
                  a salvarci da questa notte buia che stiamo vivendo. 
                    
                  Ma la chiesa ufficiale, quella del catechismo e dei precetti, 
                  come ci si ritrova in questo “cristianesimo” dell'anarchico 
                  De André? 
                  Voi lo sapete, quando è uscita Si chiamava Gesù 
                  la televisione italiana l'ha censurata mentre la radio Vaticana 
                  la trasmetteva. Come può la chiesa non essere attratta 
                  dalla bellezza, dalla profondità, dalla struggente ricerca 
                  di riscatto della condizione umana? Questo è l'annuncio 
                  di Fabrizio ed è anche il fulcro del cristianesimo. Con 
                  Fabrizio si è consapevoli di partecipare a un importante 
                  rito, certamente laico, senza caste sacerdotali; tuttavia questa 
                  comprensione umana è anche preghiera, è guerra 
                  alle ipocrisie, è amore per i derelitti, gli emarginati, 
                  i perdenti che il mondo lascia sul terreno di questa sua inarrestabile 
                  corsa verso il trionfo materiale. A volte parlo con dei vescovi 
                  che ascoltano volentieri quelle canzoni. Perché quello 
                  che io chiamo: “il Vangelo di De André” è 
                  un percorso di comunione, che entra proprio nella metanoia cristiana, 
                  cioè nel cambiamento di rotta su temi determinanti come 
                  quelli della pace e della guerra. 
                  Potremmo dire che Fabrizio, evangelicamente, si mette in una 
                  posizione di umiltà, perché non ha la presunzione 
                  di trasmettere una sua cultura, di indicare una strada. Casomai 
                  l'unica presunzione che aveva era quella di riconoscere a se 
                  stesso e agli altri la libertà di scelta. Ecco allora 
                  lo spirito libertario, un'anarchia che mi piace tanto perché 
                  non è l'adesione a un catechismo, a un decalogo e tanto 
                  meno a un dogma. Emerge invece (e io conosco tanti anarchici) 
                  come uno stato d'animo, una categoria dello spirito che, secondo 
                  me, rasentava anche il francescanesimo. Quella inquietudine 
                  dello spirito coincideva con l'aspirazione profonda alla libertà. 
                  Pensiamo a quel verso: “signora libertà, signorina 
                  anarchia”. Fabrizio è l'unico che riesce ad accomunare 
                  in una medesima storia vincitori e vinti, per una liberazione 
                  comune. È vero che questa avviene solo per un momento, 
                  magari solo lo spazio di una canzone. Ma lì avviene, 
                  perché rimescola le categorie del bene e del male, fino 
                  a far emergere gli imprevisti: le prostitute insegnano e i professori 
                  vanno a lezione! E allora ecco che mi ricorda la frase di Gesù: 
                  “le prostitute e i pubblicani vi precederanno nel Regno”. 
                  Ecco allora la mia vita di comunità e il nostro incontro: 
                  perché i suoi personaggi sono i miei e lui dice che questi 
                  ragazzi, con cui vivo, appaiono ricchi di una fragilità 
                  che ce li rende cari, come nel Vangelo. Personaggi capaci di 
                  coinvolgerci, che ci inducono a cercarli, come cerco di fare 
                  io tra i vicoli della città vecchia, tra i vicoli delle 
                  periferie. Quanti Miché, Marinella, Bocca di Rosa, Princesa, 
                  incontro! Fabrizio poi si rivolge soprattutto a quelli che sono 
                  tormentati. 
                  È vero, molti mi fanno delle obiezioni e mi dicono: “non 
                  ti sembra che il rapporto di De André con la religione 
                  fosse veramente strano?”. E io rispondo: non era forse 
                  strano, all'epoca, il rapporto di Gesù con i Farisei, 
                  che chiamava “sepolcri imbiancati”? Chiaramente 
                  il Dio di cui parla viene continuamente invitato a presentarsi 
                  come uomo, forse l'unico modo in cui De André trova possibile 
                  e desiderabile l'incontro. L'intero album de La Buona Novella 
                  è una testimonianza di questo, ma già con Si 
                  chiamava Gesù raccontava di un uomo fra gli uomini. 
                  Anche la contestazione dei comandamenti nel Testamento di 
                  Tito è del tutto coerente: Fabrizio contesta i comandamenti 
                  uno a uno ma propone, per ciascuno di essi, un suo personale, 
                  terreno e schiettamente imperfetto modo di appropriarsene. Prende 
                  dentro lo sguardo dell'uomo quanta più vita possibile, 
                  bonificando l'umana pietà dal rancore. Per arrivare, 
                  alla fine, a quella Smisurata preghiera: “ricorda 
                  signore questi servi disobbedienti alla legge del branco, non 
                  trascurare il loro volto...”, ecco perché dopo 
                  tanti anni dalla morte di Fabrizio è tutto un susseguirsi 
                  di iniziative che parlano di lui e non c'è stato un vero 
                  addio alla chiesa di Carignano. E quindi avrai capito che per 
                  me è il mio poeta, il mio evangelista, il mio anarchico, 
                  il mio artista. Ricordo quando abbiamo fondato la comunità, 
                  nel 1970: qui tutti i ragazzi cantavano La guerra di Piero 
                  e le altre canzoni dell'epoca. 
                  
                Una sfrenata allegria  
                 Lei era anche amico personale di De André... 
                  ...ma sai che avevamo finalmente pregustato il suo ritorno a 
                  Genova? Fabrizio aveva già scelto una casa qui nella 
                  zona del porto. Perché lui ormai viveva in Sardegna o 
                  a Milano, ma aveva nostalgia. È mancato proprio in quei 
                  mesi... 
                   
                  Com'era nata questa amicizia? Quando vi incontravate vi 
                  capitava di discutere di queste sue canzoni a tema religioso? 
                  No, mai! Da giovanissimo, viveva qui in zona e frequentava il 
                  nostro bar, con Paolo Villaggio e altri e il suo modo di comportarsi 
                  mi aveva subito attratto. Ma c'era un certo modo di stare assieme 
                  con un'allegria sfrenata, quindi con lui non ho mai fatto delle 
                  grandi discussioni. Lui tra l'altro aveva anche una certa timidezza 
                  e cercava fraternità. Parlava più con gli occhi, 
                  con lo sguardo, col sorriso. Era più facile che finisse 
                  a spintoni e con una gran bevuta. 
                    
                  Lei poco fa ci ha definito De André come un evangelista. 
                  Nessuno le ha mai tirato le orecchie in ambiente diocesano per 
                  queste sue uscite, diciamo, poco ortodosse? 
                  Non si sono mai permessi! Secondo me si sono accorti che la 
                  morte di Fabrizio ci ha migliorati, come sa fare l'intelligenza 
                  e io questo l'ho sempre ripetuto e credo che ormai abbia una 
                  sua autorevolezza. A volte io ricevo dei richiami, perché 
                  nel mio camminare domandando io frequento certe persone, per 
                  esempio certi politici. Ma non ho ricevuto richiami per le cose 
                  che ho detto di Fabrizio. Del resto io sono rimasto sempre accanto 
                  agli emarginati e a volte devo affrontare l'arroganza del potere 
                  ma lui mi ha lasciato una traccia indelebile, perché 
                  in questa mia vita quotidiana mi calo nel racconto crudo di 
                  Fabrizio e mi dà una grande speranza. Nella comunità 
                  abbiamo una bacheca dove chiunque può scrivere e recentemente, 
                  una mattina, scendendo nel salone, ho visto scritta sulla bacheca 
                  questa frase, a caratteri neri, cubitali: “il male grida 
                  forte”. Evidentemente il ragazzo o la ragazza che l'aveva 
                  scritta stava molto male. Dopo qualche giorno io ho preso quel 
                  pennarello e ho scritto: “la speranza grida più 
                  forte”. E penso che questo è quello che ci ha lasciato 
                  Fabrizio. 
                   
                  Gianni Novelli ci ha raccontato che nella comunità 
                  di base di San Paolo, durante la messa, si canta Il pescatore. 
                  Anni fa in una parrocchia romana cantavano l'Ave Maria 
                  tratta da La Buona Novella. Immagino che anche voi nella 
                  comunità continuate a utilizzare queste canzoni, magari 
                  per la preghiera. Ma a De André faceva piacere che le 
                  sue canzoni venissero utilizzate così? O magari lo considerava 
                  un equivoco? 
                  Non l'ha mai considerato un equivoco, così come non ha 
                  mai avuto incertezze anche quando, a volte, c'era qualche accusa 
                  o addirittura strumentalizzazione per quel che riguardava la 
                  sua anarchia. Lui sentiva profondamente il messaggio che riusciva 
                  a mandare. Capiva che, dove si incontrano i deboli con la voglia 
                  di inseguire un'illusione, ampliare i propri orizzonti, sentiva 
                  che le sue canzoni potevano svincolarli dalla passività 
                  e dalla rassegnazione. 
                  Noi abbiamo avuto ospite anche Princesa, la transessuale protagonista 
                  della canzone, che poi era stata in carcere. Abbiamo avuto tanti 
                  altri disperati, che avevano ricevuto delle condanne; tutte 
                  persone che si ritrovavano per esempio in Geordie, perché 
                  capivano che Fabrizio era riuscito a evidenziare la sproporzione 
                  fra il loro gesto trasgressivo, la loro debolezza, e la risposta 
                  impietosa del potere. 
                  Fabrizio era contento di raccontare questa grande possibilità 
                  che suscitava nelle sue “anime salve” un nuovo impegno 
                  civile, di emancipazione per alcuni, per altri di solidarietà 
                  e di lotta; di speranza soprattutto per i vinti, per gli ultimi, 
                  i meno fortunati. 
                   
                  De André si è riferito a Gesù come 
                  colui che: “guerra insegnò a disertare” e 
                  lo ha definito come: “il più grande filosofo dell'amore 
                  che donna riuscì mai a mettere al mondo”. Lei come 
                  si trova in queste definizioni? 
                  Mi trovo molto bene. Ho 77 anni e da 47 sono un prete cattolico 
                  e ho capito che la mia non è stata una scelta ideologica, 
                  come Fabrizio. Chi fa una scelta ideologica può anche 
                  sbagliare ma la mia è stata una scelta di discepolato 
                  di Gesù e quindi mi sono trovato sempre dalla parte dei 
                  poveri, dei perdenti; dalla parte della cultura della pace e 
                  della nonviolenza, come principi institutivi e costitutivi. 
                  Io ho cantato tante volte il Laudate dominum e lui a 
                  un certo punto se n'è uscito fuori con il Laudate 
                  hominem. Perché? Perché sente il peso del 
                  Golgota e vive Gesù come una magnifica persona. Ma riscopre 
                  anche Tito, il ladrone, addirittura più innocente di 
                  Gesù. Si vede che a Fabrizio proprio non interessavano 
                  i santini, ma gli uomini. 
                   
                  In tema di Buona novella, fra i quadri di Via della 
                  croce spicca il gruppo delle donne. Gesù in questo 
                  caso viene individuato come colui che restituisce dignità 
                  a donne: “umiliate da un credo inumano, che le volle schiave 
                  già prima di Abramo”. Come la vede questa immagine 
                  proposta da De André di Gesù e le donne? 
                  Ma io continuo a dirlo alla mia chiesa: come è possibile 
                  che negli anni 2000 siamo ancora a questo punto? Come la mettiamo 
                  con la figura della Maddalena, che è la prima che incontra 
                  Gesù risorto ed è la prima che ha l'incarico di 
                  annunciarne la resurrezione? E dopo le parole di San Paolo: 
                  “non c'è più né uomo, né donna; 
                  né schiavo, né libero...”, come fa la chiesa 
                  a mantenere questa figura arcaica della donna, cittadina di 
                  serie C? Non è possibile! Quindi anche qui quello di 
                  Fabrizio è un annuncio profetico con cui la chiesa prima 
                  o poi dovrà fare i conti. Questa è una delle sfide 
                  del futuro dell'evangelizzazione. 
                   
                  Molti hanno criticato la posizione tenuta da De André 
                  e Dori Ghezzi dopo il sequestro, il perdono offerto ai pastori 
                  che li hanno tenuti prigionieri. Lei cosa ne pensa?  
                  È una conseguenza della sua coerenza. Fabrizio distingue 
                  fra l'errore e l'errante. E ha fatto distinzioni, bisogna ricordarlo, 
                  fra le colpe dei mandanti del sequestro e quelle dei pastori 
                  carcerieri. È una distinzione profondamente umana. Così 
                  Fabrizio offre a tutti una possibilità non solo di risarcimento 
                  del male fatto ma anche di un progetto nuovo di vita. Non si 
                  tratta di buonismo o di “perdonismo”. Comportandosi 
                  così Fabrizio e Dori sono andati più vicini al 
                  vero significato della giustizia. 
                  
                  Il punto di vista di Dio 
                 Perché un artista anarchico e probabilmente non 
                  credente come De André sentiva il bisogno di esprimersi 
                  anche nella forma della preghiera, come in alcune sue canzoni 
                  molto belle?  
                  Io ho scoperto, da non molto tempo, che le scienze hanno delineato 
                  tre tipi di intelligenza: intellettiva, emotiva e spirituale. 
                  Fabrizio aveva in grande misura tutte e tre queste intelligenze. 
                  Secondo gli studiosi esiste in noi, addirittura in maniera scientificamente 
                  verificabile e misurabile, un tipo di intelligenza spirituale, 
                  che ci libera dai fondamentalismi e dagli integralismi di tutte 
                  le religioni e a mezzo della quale non captiamo solo fatti ed 
                  emozioni ma con la quale percepiamo i contesti più grandi 
                  della nostra vita; totalità significative attraverso 
                  le quali ci sentiamo inseriti in un tutto. Il nostro quoziente 
                  di spiritualità ci rende sensibili ai valori, a questioni 
                  legate alla trascendenza. Dei neurobiologi hanno definito questo 
                  quoziente: “il punto di Dio”. Allora possiamo forse 
                  evidenziare il punto di Dio in De André, che è, 
                  come dicevo prima, l'essere umano, che, laicamente, al di là 
                  dell'appartenenza a una qualche religione, può percepire 
                  l'esistenza di Dio. In De André è palese, profondo: 
                  è una voce che parte dal profondo. Costituisce un riferimento 
                  di senso che allo stesso tempo uccide i tentativi di tutte le 
                  religioni di passare all'integralismo e imporre Stati confessionali. 
                  È una liberazione della spiritualità. Fabrizio 
                  scopre che la spiritualità appartiene all'umano e non 
                  è monopolio delle religioni. Quindi al di là di 
                  ogni considerazione Fabrizio è a pieno titolo uno spirituale, 
                  anche se non un credente, che pone l'uomo al centro della sua 
                  spiritualità e che si fa portavoce della profonda coscienza, 
                  dell'energia vitale umana. Del resto in questa epoca che viviamo, 
                  se non si riuscirà ad anteporre l'uomo al mercato non 
                  sarà possibile dirigere le sorti dell'umanità 
                  verso la giustizia. Le canzoni di Fabrizio in questo senso sono 
                  strumenti artistici alti della cultura popolare universale, 
                  sarei quasi tentato di paragonarle alla teologia della liberazione 
                  (2). 
                   
                  Nella Ballata del Miché e in Preghiera 
                  in gennaio De André espone anche la sua amarezza per 
                  quella che, all'epoca, era la posizione della chiesa nei confronti 
                  dei suicidi, destinati a essere seppelliti: “Senza il 
                  prete e la messa, perché d'un suicida non hanno pietà”. 
                  Lei che ne pensa? 
                  In passato mi sono battuto contro questa norma così disumana 
                  che, per fortuna ormai è caduta in disuso. Ma sai che 
                  Fabrizio era tormentato da queste cose già da giovanissimo. 
                  Cose che noi ritroviamo in Si chiamava Gesù e 
                  in Preghiera in gennaio lui le aveva scritte in temi 
                  elaborati ai tempi della scuola. Temi così profondi che 
                  il prete che gli faceva religione e li aveva letti, li aveva 
                  poi mandati al vescovo, perché erano riflessioni che 
                  turbavano la coscienza. Chissà, sarà magari servito 
                  anche quello a far cambiare idea alla chiesa che, almeno su 
                  questo punto, ha fatto un salto di qualità (3). 
                   
                  Io individuo un filo rosso che lega i personaggi dei bassifondi 
                  della Città vecchia ai Rom di Khorakhané. 
                  Un filo che corre quindi lungo più di trent'anni della 
                  nostra storia, dal 1963 al 1996. Nel testo del '63 De André 
                  invitava a non giudicare “da buon borghese” ma a 
                  capire fino in fondo: “se non sono gigli son pur sempre 
                  figli, vittime di questo mondo”. Nel '96, parlando dei 
                  Rom accusati di rubare, De André dice questa cosa, molto 
                  poetica, molto bella: “se questo vuol dire rubare lo può 
                  dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca il punto di vista 
                  di Dio”. Che poi è, tanti anni dopo, lo stesso 
                  invito a cercare di conoscere e di capire, a non giudicare secondo 
                  le categorie del borghese benpensante. Lei che ne pensa? 
                  Assieme a Dori Ghezzi, a Milano, sono stato a presentare Khorakhané 
                  in un campo Rom. È stato un abbraccio con i Rom veramente 
                  profondo, ne ho un grande ricordo. Con Khorakhané 
                  siamo nel solco del camminare verso cieli nuovi e terre nuove, 
                  verso la ricomposizione della famiglia umana e universale. C'è 
                  un'appartenenza all'essenza della natura umana; c'è un 
                  abbraccio che riconosce il rispetto per tutte le etnie e tutte 
                  le culture. E c'è un concetto profondamente libertario. 
                  È come se Fabrizio ci gridasse: “È inutile 
                  che voi vi riempiate la bocca della parola libertà”. 
                  Se accanto a libertà non ci mettete anche giustizia e 
                  uguaglianza, non serve. 
                    
                  Ma non le pare che ci sia anche un ribaltamento netto 
                  della morale comune? Il Rom che ruba, per la società, 
                  è comunque un ladro ma De André ci dice che il 
                  punto di vista di Dio potrebbe essere del tutto diverso. Chi 
                  commette il reato potrebbe essere non chi ruba ma chi costringe 
                  i Rom a rubare perché li tiene nell'emarginazione. 
                  Dovremmo qui approfondire concetti molto importanti. Perché 
                  le chiese tendono a tradurre i testi religiosi in una realtà 
                  pesante, dispotica, autoritaria. Cioè i testi, siano 
                  la Torah, la Bibbia o il Corano, li considerano come fonti di 
                  autorità. Così abbiamo queste caste sacerdotali, 
                  che esistono ancora in tutte le religioni, che prendono questa 
                  lettera e la considerano parola di Dio. Invece quella non è 
                  parola di Dio e i testi devono essere capiti, interpretati. 
                  Bisogna approfondire e andare all'essenza originaria, alla formazione 
                  di quei testi. 
                  Ti voglio fare un esempio, che mi sembra pertinente, che riguarda 
                  un mio vecchio e caro amico, un grande prete, don Dante Clauser, 
                  che ha più di ottant'anni. Lui ha un centro d'ascolto 
                  a Trento dove ha ospitato anche delle prostitute. Adesso è 
                  molto anziano, ma ogni tanto si fa un giretto per Trento. Recentemente, 
                  durante uno di questi giri, ha incontrato una vecchia prostituta, 
                  che l'ha salutato con affetto: “Ciao don Dante, sai ho 
                  smesso il mestiere, ormai son vecchia. Però ti assicuro, 
                  quando incontro qualcuno dei tuoi anziani, la mia prestazione 
                  la faccio lo stesso, gratis. Penso, così, di fare il 
                  bene”. Don Dante questa cosa l'ha scritta, ha scritto 
                  che questo è proprio quello che piace a Dio, questa gratuità 
                  spontanea. Ha scritto che anche questo è amore. Figuriamoci! 
                  Tutte le gerarchie ecclesiastiche gli hanno dato contro, è 
                  uscito anche sul giornale! Ma lui mi ha telefonato ridendo, 
                  mi ha detto che era contento di aver provocato questo scandalo 
                  nei palazzi vescovili. 
                   
                  Questo bell'aneddoto che, ovviamente, qui agli antipodi 
                  non era arrivato, lo offriamo in esclusiva ai nostri ascoltatori! 
                   
                  Quando è uscito: “Il Vangelo secondo De André”, 
                  del giornalista trentino Andrea Ghezzi, lei ha detto che, se 
                  fosse stato il cardinale prefetto per gli studi ecclesiastici, 
                  lo avrebbe inserito come testo di studio nei seminari delle 
                  università teologiche. Ha provato a proporlo davvero? 
                  Per la verità non ricordavo di averlo detto, ma lo confermo 
                  adesso. I nostri seminari sono asfittici! Ci sono ancora solo 
                  i vecchi testi, c'è questa grande ondata di bisogno di 
                  ortodossia, si fanno selezioni accurate. Io direi che se nei 
                  seminari entrasse la musica, non solo quella di De André 
                  ma anche quella di tanti altri musicisti e cantautori, io dico 
                  che la formazione dei seminaristi sarebbe molto più umana. 
                  Avrebbero modo di scoprire delle cose. Io farei suonare Fiume 
                  Sand Creek, le canzoni di quel disco. E lo stesso discorso 
                  vale per le caserme. Farei ascoltare le canzoni delle Nuvole 
                  contro il potere proprio dentro le caserme. Io a tutti gli ufficiali 
                  che incontro gli recito La guerra di Piero: “Dormi 
                  sepolto in un campo di grano...”. 
                    
                  Avviandoci alla conclusione vorrei tornare al rapporto 
                  di De André con la vostra comunità. Ho letto che 
                  c'era un rapporto diretto, che senza farsi pubblicità 
                  lui vi aiutava. 
                  È vero, sempre. Ma ti posso assicurare che lui aiutava 
                  anche altri. Cose che nessuno sa perché i suoi contributi 
                  li elargiva sempre in forma privata. E in questi anni dalla 
                  sua morte Dori Ghezzi ha continuato ad aiutarci. Ha continuato 
                  a dare significato a questo titolo, questo motto che noi usiamo: 
                  “Faber e gli ultimi”. Credo di poter raccontare 
                  che proprio poco tempo fa mi ha annunciato una grossa elargizione 
                  e io volevo organizzare qualcosa di pubblico per ringraziare 
                  a nome della comunità. Ma lei si è assolutamente 
                  opposta, mi ha detto: “no, facciamo come voleva Fabrizio”. 
                  Così ci sostiene senza farsi nessuna pubblicità. 
                  E ricordo anche che quando c'è stata a Genova quella 
                  grande serata al Carlo Felice, il 12 marzo del 2000, con tutti 
                  i big della canzone che sono venuti a cantare per offrire un 
                  tributo a De André, in quella occasione è stata 
                  proprio Dori a coinvolgermi affinché portassi al Carlo 
                  Felice tutti gli ultimi di Genova. Gli organizzatori volevano 
                  riservare ai miei le ultime file ma Dori si è opposta, 
                  voleva invece che questa gente si mischiasse agli altri nella 
                  sala, ai politici, alla gente bene. Gli organizzatori avevano 
                  paura: “ma chissà chi porti, chissà cosa 
                  succederà”. Ma quello che è successo è 
                  che alla fine tutti questi che ho portato: barboni, vecchie 
                  prostitute genovesi e giovani prostitute di colore, disabili, 
                  Rom... alla fine erano tutti commossi. Erano commossi anche 
                  gli artisti: ho visto piangere Jannacci! Attorno a certe canzoni 
                  tutti riscoprono questo bisogno di essere più umani. 
                  Però i più commossi, i più rispettosi, 
                  i più attenti erano loro: gli ultimi. E così anche 
                  in quella occasione abbiamo confermato che dal letame nascono 
                  i fiori. 
                   
                  Ma queste persone che lei ha portato al Carlo Felice... 
                  in un certo senso loro sono proprio i protagonisti di quelle 
                  canzoni. Ma loro ci si riconoscono? 
                  Per loro è una speranza. I ragazzi della mia comunità 
                  le cantano in continuazione quelle canzoni. Da noi, soprattutto 
                  alla domenica, alla fine del pranzo si sfilano le chitarre e 
                  quasi sempre si comincia e si finisce con le canzoni di Fabrizio. 
                   
                  Concludiamo tornando alle canzoni di De André che 
                  più direttamente affrontano il tema religioso: queste 
                  canzoni corrono il rischio di invecchiare o possono servire 
                  anche in futuro per aiutare la gente a riflettere in modo diverso 
                  sugli eventi del Vangelo, magari spingere qualcuno a vivere 
                  la fede in maniera più coerente? 
                  Quelle poesie non invecchieranno mai perché, come dice 
                  Fernanda Pivano, l'opera di De André rappresenta la speranza 
                  in un mondo nuovo e ci dice che un nuovo mondo è possibile. 
                  Queste canzoni dicono che il povero e il perdente potrebbero 
                  prendere consapevolezza e rifiutare questo sistema di oppressione 
                  e, soprattutto, cominciare a costruire delle alternative. Tutta 
                  quest'opera direi che non potrà venir meno, perché 
                  continua ad essere una buona novella. 
                  Renzo Sabatini
                  Poscritto: 
                  Nel gennaio 2008 sono andato a Genova a conoscere don Gallo 
                  e a visitare la sua comunità, in quell'angiporto di Genova 
                  che, come tanti della mia generazione, ho conosciuto, ancora 
                  prima di averci messo piede, ascoltando “La città 
                  vecchia” e “Via del Campo”. Dall'alto dello 
                  scalone che accede alla comunità mi sorrideva Fabrizio 
                  De André, incorniciato in un grande e commovente ritratto. 
                  Ho trascorso ore serene e coinvolgenti con quei “ragazzi” 
                  di cui parla don Gallo nell'intervista. Anche in quell'occasione 
                  hanno tirato fuori le chitarre e cantato per me Fiume Sand Creek, 
                  Il testamento di Tito e altre che non ricordo. Ne approfitto 
                  oggi per ringraziarli dell'accoglienza. Non so che direzione 
                  abbiano preso i loro complessi percorsi di vita, ma conservo 
                  i volti nel cuore e le voci nel registratore. Ringrazio di nuovo 
                  anche don Gallo per gli splendidi racconti che ha voluto donarmi 
                  in quell'occasione, seduto nel suo piccolo ufficio, affollato 
                  da un andirivieni di gente di ogni tipo, fra le nuvole di De 
                  André e quelle del suo immancabile sigaro toscano. 
                   
                  Note 
                 
				  - www.sanbenedettoalporto.org. 
                  
 - Teologia elaborata fin dagli anni '60 in America Latina a 
                  partire dal tema della liberazione dei poveri.
                  
 - Tuttavia nel dicembre 2006 la chiesa negò i funerali 
                  religiosi alla famiglia di Piergiorgio Welby. Don Gallo assunse 
                  in quella occasione posizioni che gli valsero nuove reprimende 
                  e articoli ostili sull'Avvenire. In una conversazione del 2008 
                  mi disse di aver chiesto perdono ai familiari di Piergiorgio 
                  Welby per il comportamento della chiesa in occasione dei funerali.
  
                  
                (intervista realizzata via telefono nell'aprile 2005. Registrata 
                presso gli studi di Rete Italia – Melbourne. Andata in onda 
                nell'ambito della trasmissione radiofonica settimanale: “In 
                direzione ostinata e contraria”, dedicata ai personaggi 
                delle canzoni di Fabrizio De André). 
                 
                
                   
                    |   In 
                        direzione ostinata e contraria  
                       Con 
                        questa intervista, prosegue la pubblicazione su “A” 
                        di una parte significativa delle 27 interviste radiofoniche 
                        realizzate da Renzo Sabatini e andate 
                        in onda in Australia nel programma “In direzione 
                        ostinata e contraria” sulle frequenze di Rete Italia 
                        fra il maggio 2007 e l’agosto 2008. In tutto si 
                        è trattato di sessanta puntate (ciascuna della 
                        durata di circa quaranta minuti, per un totale di quasi 
                        40 ore di trasmissioni), nel corso delle quali sono state 
                        trasmesse le 27 interviste e messe in onda tutte le canzoni 
                        di Fabrizio De André. Si tratta dunque della più 
                        lunga e dettagliata serie radiofonica mai dedicata al 
                        cantautore genovese. 
                       Se proponiamo questi testi, 
                        è innanzitutto per dare ancora una vlta spazio 
                        e voce a quelle tematiche e a quelle persone che di spazio 
                        e voce ne hanno poco o niente nella “cultura” 
                        ufficiale. E che invece anche grazie all’opera del 
                        cantautore genovese sono state sottratte dal dimenticatoio 
                        e poste alla base di una riflessione critica sul mondo 
                        e sulla società, con quello sguardo profondo e 
                        illuminante che Fabrizio ha voluto e saputo avere. Con 
                        una profonda sensibilità libertaria e – scusate 
                        la rima – sempre in direzione ostinata e contraria. 
                       Precedenti interviste 
                        pubblicate: a Piero 
                        Milesi (“A” 370, aprile 2012), a Carla 
                        Corso (“A” 371, maggio 2012), Porpora 
                        Marcasciano (“A” 372, maggio 2012), Franco 
                        Grillini (“A” 373, estate 2012), Massimo 
                        (“A” 374, ottobre 2012), Santino 
                        “Alexian” Spinelli (“A” 375, 
                        novembre 2012)); Paolo 
                        Solari (“A” 376, dicembre-gennaio 2012-2013); 
                        Gianni Mungiello, 
                        Armando Xifai, Alfredo Franchini (“A” 
                        377, febbraio 2013); Giulio 
                        Marcon e Gianni Novelli (“A” 378, marzo 
                        2013); Sandro 
                        Fresi e Paola Giua (“A” 379, aprile 2013); 
                        Luca Nulchis 
                        (“A” 380, maggio 2013). 
                       la redazione di “A”  | 
                   
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