Ecco tutto qui 
                  Enzo Jannacci e gli scricchiolii della memoria
 a cura di Alessio Lega 
                  
                  Era un sacco di tempo fa, potevo 
                  avere 17 anni, ma forse anche 15. Ero in macchina con mamma 
                  e papà e si cantavano canzoni. Mia mamma mi disse “io 
                  penso che uno come Jannacci non si ammalerà mai di cancro, 
                  perché secondo me è un uomo felice...”. 
                  Ora le cose stanno così: o il cancro ha fatto dei grandissimi 
                  progressi (contrariamente alla ricerca medica) o la felicità 
                  non è più quella d'un tempo, oppure ancora siamo 
                  noi che ci eravamo cascati nell'idea che un uomo che sapeva 
                  tenere in bilico il comico e il tragico, insieme nella stessa 
                  canzone, avesse capito tutto e fosse per questo felice. Forse 
                  uno che ha capito tutto non è affatto più felice. 
                  Meno male che non ho capito mai un cazzo io, che mi stupisco 
                  ogni volta che un genio muore, e ci resto malissimo. 
                  Morto un genio non se ne fa un altro. 
                  Per questo ce li dovremmo tenere stretti e ogni giorno coccolare, 
                  i geni... invece ce lo siamo fatto sfuggire per molto tempo, 
                  le cose le perdiamo dagli occhi e dagli orecchi noi italiani. 
                  Per anni, anni e anni, a parte qualche striminzita e del tutto 
                  insufficiente raccolta, di Jannacci Enzo, nei negozi di dischi, 
                  non si trovava niente. Ma proprio niente! 
                  Parlo di quando ancora Milano – la sua Milano – 
                  brulicava di negozi che vomitavano cd di ogni sorta e importazione, 
                  mica di questi ultimi tempi di crisi irreversibile. Basti dire 
                  che non si sono mai ristampati in modo completo e ordinato quei 
                  primi dischi La Milano di Enzo Jannacci, 1964; Enzo 
                  Jannacci in teatro, 1965; Sei minuti all'alba, 1966: 
                  bum, bum, bum... così, uno via l'altro, tre pietre miliari, 
                  tre capolavori assoluti e... da trent'anni introvabili! 
                  Che, se non fosse che il Martucci – un grande amico di 
                  famiglia e poi mio in particolare – ce li aveva dai tempi 
                  in cui aveva fatto lo studente a Bologna ('68 e giù di 
                  lì) e io non glieli avessi strappati e accuratamente 
                  registrati, belli gracchianti e vissuti, su nastro magnetico 
                  a mio uso e consumo a metà degli anni '80, io forse non 
                  sarei mai venuto a Milano, perché non avrei sognato questa 
                  città sin da allora, e non vi starei nemmeno scrivendo, 
                  ora che Jannacci è morto. 
                  Li sbranai, li trangugiai, li ingurgitai, quei dischi lì. 
                  Divennero la mia linfa, la mia follia, mi diedero una volta 
                  per tutte l'impressione che la canzone fosse qualcosa di diverso, 
                  di unico, di impronunciabile. La preghiera fatta a un dio burlone, 
                  che se la ride degli inginocchiatoi e delle frasi fatte, che 
                  pretende il più alto grado di poesia, la parola umana, 
                  parlata, viva. 
                  In quelle canzoni, nei loro accompagnamenti strampalati, jazzati 
                  che s'incollavano alle parole c'erano molte cose che venivano 
                  da ogni parte: cabaret tedesco e canzone francese, tanto per 
                  cominciare. Gli standard jazz e una certa intensità crooner 
                  nelle canzoni, più melodiche e di malinconie amorose. 
                  Poi s'era insinuata (immagino per merito della collaborazione 
                  con Dario Fo) una qual certa epica, temperata sempre dall'improbabile 
                  quotidiano e dall'impossibile assurdo, tipo i tizi nella cella 
                  accanto del partigiano condannato a morte che nell'immensa Sei 
                  minuti all'alba vanno avanti a cantare – coro greco 
                  nella tragedia – e quell'impagabile “Entra un ufficiale; 
                  mi offre da fumar/Grazie, ma non fumo, prima di mangiar/Fa la 
                  faccia offesa... mi tocca di accettar”. Per finire qualche 
                  spruzzata di Cantacronache politico poetico (Qualcosa da 
                  aspettare di Amodei, Quella cosa in Lombardia di 
                  Fortini e Carpi) e la chiara imperscrutabilità del canto 
                  popolare (Sfiorisci bel fiore). 
                  C'era tutto e poi c'era di più, quel di più era 
                  Enzo Jannacci. Ma da dove spuntava quel matto con quella voce 
                  assurda, spezzata, da urlatore cubista? Questa parlata frammentata, 
                  impappinata, come di uno scolaro che recita una dichiarazione 
                  d'amore dalla quale dipende tutta la sua felicità. È 
                  proprio tutto sbagliato, tutto assurdo nel modo di porgere di 
                  Jannacci Enzo, faceva proprio di tutto quell'uomo lì 
                  per cantare in modo da dispiacere a ogni idea di canone. Uno 
                  che canta così lo devi ascoltare per forza. 
                  Li conosco a memoria quei dischi lì, registrati sulle 
                  cassettine con tanto amore, mi ricordo non solo le parole e 
                  le melodie, gli urli e i sussurri, le pause e il silenzio ruvido 
                  del vinile…mi ricordo pure dove saltava la puntina (su 
                  “Veronica/amavi sol la musica sinfonica” era uno 
                  strazio) ma il dottore, in un successivo disco, prescrive “rido, 
                  mi rigo i dischi e rido/non sento l'eco rido/son marce anche 
                  le pere” e allora rido, però mi viene anche il 
                  magone. Quei dischi io li ho proprio sentiti millanta volte 
                  (Angelica dice che la parola “millanta” la usiamo 
                  solo io e Guccini, e forse questo un senso suo ce l'ha). 
                  
                  L'Ultima spiaggia 
                 Per un sacco di tempo sono rimasti ugualmente introvabili 
                  anche i 4 dischi registrati per l'Ultima spiaggia – l'etichetta 
                  indipendente e di ultra sinistra fondata da Nanni Ricordi – 
                  fra il '75 e il '79, il primo dei quali è un altro titolo 
                  imprescindibile: Quelli che. Toni Verona per fortuna 
                  li ha recuperati e finalmente resi disponibili in cd proprio 
                  l'anno scorso. Per inciso, Toni è il discografico dell'etichetta 
                  Ala Bianca che aveva riportato Enzo al disco per i suoi ultimi 
                  due lavori Come gli aereoplani (2001) e L'uomo a metà 
                  (2003). 
                  Con questo articolo strampalato come un discorso tutto rivolto 
                  all'interno, pieno di nomi che a chi legge non dicono nulla, 
                  ho provato a raccontarvi il mio Jannacci, questo artista immenso 
                  e rimosso, inclassificabile e lunare, spesso presente e sempre 
                  inquietante, multiforme, ingestibile e qualche volta persino 
                  cialtronesco, troppo infingardo o troppo umile, quando in un 
                  calo d'ispirazione o davanti a un'interpretazione perfettibile, 
                  alzava le spalle “trattasi di canzonette”, e tirava 
                  via... 
                  Di quale pasta onirica è fatta la geniale follia di Rido, 
                  di Ragazzo padre, di Giovanni telegrafista (e nulla 
                  più) di quella Vengo anch'io, no tu no, inno 
                  all'esclusione che gli diede un successo inarrestabile, che 
                  lui fu ben attento a non bissare l'anno appresso presentandosi 
                  – stessa spiaggia, stesso mare, stessa televisione – 
                  con la scioccante e patetica Gli zingari? 
                  E da dove sorgeva invece inaspettata la vena classica di una 
                  perla di levigato dolore quale Vincenzina e la fabbrica, 
                  Io e te, o il tardo capolavoro L'uomo a metà? 
                  E quale tensione morale spingeva Jannacci a presentarsi a Sanremo 
                  due volte di seguito con due brani di assoluto impegno quali 
                  Se me lo dicevi prima che parla di droga e La fotografia 
                  che parla di mafia? 
                  Che strano imperscrutabile animale musicale è stato il 
                  dottor Jannacci Vincenzo detto Enzo, che invecchiando s'era 
                  fatto sempre più biascicante e incomprensibile e delirando, 
                  a volte con metodo a volte delirando e basta, s'è lungamente 
                  accomiatato, indebolito, poi scomparso, e ogni tanto si girava 
                  indietro e alzava il dito e la voce anche per dirci quanto era 
                  incazzato, quanto pur accostandosi a una sua fede trascendente, 
                  non s'era per questo fatto meno comunista d'un tempo. 
                  Addio uomo triste e felice, la vita non t'ha risparmiato, come 
                  non risparmierà noi, che restiamo ancora un po' a ripassare 
                  le tue canzoni fra uno scricchiolio e l'altro, ridendo, poi 
                  piangendo, poi ancora... 
                    
                  Strana la vita 
                  come se la vita fosse un modo di morire 
                  strana la storia 
                  come se la storia lo potesse raccontare 
                  strana la gente 
                  come se la gente gli importasse di capire 
                  Strano cantare... strano cantare... 
                  Canta una giostra 
                  giù nel baraccone il disco e sempre uguale 
                  gira la ruota 
                  un binario e stato acceso male 
                  senti una nota 
                  allora ogni volta che ti dicono di cantare 
                  devi cantare... devi cantare... 
                  e la canzone era per noi. 
                   
                  Io non ti amavo e ti stavo vicino 
                  tu che giocavi col vecchio violino, 
                  poi sotto il sole giù al vecchio mulino 
                  per fare anche all'amore. 
                  Io che tiravo a non farmi capire 
                  tu che provavi a parlare d'amore 
                  finiva in riso vergogna e sudore... 
                   
                  Ecco tutto qui. 
                   
                  Stupida vita 
                  Come se la vita ti trovasse il primo amore 
                  stupida storia 
                  come se la storia la lasciasse raccontare 
                  stupida gente 
                  e invece questa gente che la storia piace ancora 
                  stupido dire, stupido dire 
                  che quei due morti siamo noi. 
                  Noi cosi bianchi cosi stretti vicino 
                  qualcuno prega, uno tocca il violino 
                  va via anche il sole dal vecchio mulino 
                  per un altro amore. 
                  Non bisognava cercare e capire. 
                  Capire cosa? Che forse era amore 
                  gli occhi perduti per non far rumore. 
                  Ecco tutto qui. 
                   
                  Post scriptum 
                  Ci tengo a precisare che Ho visto un re, splendida canzone, 
                  da Enzo splendidamente interpretata, ma a lui erroneamente attribuita, 
                  ha il testo di Dario Fo e la musica di Paolo Ciarchi. Un po' 
                  di verità non toglie mai niente a nessuno, figuriamoci 
                  a un genio. 
                  Alessio Lega 
                  alessio.lega@fastwebnet.it
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