rivista anarchica
anno 43 n. 384
novembre 2013


rock'n'roll

Con pochi soldi
ma con i jeans

di Diego Giachetti


Ha senso che una rivista anarchica ricordi Little Tony?
Non era certo un “compagno”, amava le Ferrari, sembrava un simpatico tamarro, di sicuro lontano dall'impegno politico.
Eppure ha fatto parte di quel gruppo di cantanti che hanno segnato la storia del rock, almeno in Italia. Quindi...


Little Tony, alias Antonio Ciacci, mancato il 27 maggio 2013, è stato uno dei primi a scoprire la rivoluzione del rock'n'roll attraverso la musica e il modo stesso di impersonarla, “vestirla” con gli appositi abiti del rokkettaro. Il suo è stato un rock leggero ha detto la figlia, “forse incosciente, che non ha mai conosciuto la pesantezza della maturità” (Vanityfair.it, 4 giugno 2013), molto simile a quello di Elvis Presley, non impegnato direttamente in denunce e proteste sociali, impolitico dunque, nel quale il contenuto “rivoluzionario” era unicamente affidato al corpo, alla dissacrante comunicazione eversiva affidata alle movenze sul palco e al look. Del rock'n'roll incarnava lo stile e la musica: il ciuffo, le giacche con le frange, le movenze alla Elvis e anche il sound. Il suo modo di stare sul palcoscenico assecondò quella rivoluzione dei corpi, degli spiriti e dei cuori che era esplosa qualche anno prima in America. Fu un interprete ma, per dirla con Gianfranco Manfredi, “si può essere autori anche come interpreti. Nella canzone il corpo, la presenza fisica e l'interpretazione giusta del protagonista sono imprescindibili. Non è solo per il testo e la musica che una canzone diventa parte del nostro vissuto”.
È stato un cantante popolare nell'accezione fatta propria anche da Antonio Gramsci, cioè di canzoni non scritte dal popolo o per il popolo, ma da questo adottate perché conformi al suo modo di pensare e di sentire.

Rock, auto e moto: Little Tony
con la sua Harley Davidson

In Inghilterra prima dei Beatles

Antonio Ciacci era nato a Tivoli il 9 febbraio del 1941. Nella famiglia la musica era di casa, il padre suonava la fisarmonica e cantava, lo zio era un apprezzato chitarrista, due dei suoi fratelli la studiavano: chitarra e fisarmonica. Il giovanissimo Antonio invece preferiva trascorrere il tempo libero con gli amici scorrazzando in motocicletta. Musica e canto li scoprì solo dall'ascolto dei primi dischi di rock'n'roll che ebbe modo di orecchiare alla radio. Fu quello l'inizio del suo apprendistato. Maestra fu l'esperienza. Cantando e suonando imparò facendo. All'età di tredici anni, quando era apprendista orefice – ricordava – andavano “i dischi di Perez Prado, i mambi. Le canzoni di Luciano Tajoli, Claudio Villa, Nilla Pizzi. L'avanguardia erano Marino Marini e Renato Carosone. Poi, all'improvviso, arrivarono dischi con una musica incredibile: in crescendo, Banana boat di Harry Belafonte, Only you dei Platters e finalmente il rock: Tutti frutti, cantata da Little Richard”.
Imparò a imitare Little Richard e Bill Haley, usando testi creati in inglese maccheronico. A sedici anni imboccò la via del cantante per caso. Era con suo padre che stava cantando canzoni romantiche e napoletane in un ristorante di Grottaferrata. Una comitiva di turisti americani chiese di ascoltare del rock'n'roll. Tony si lanciò e cominciò a cantare con i fratelli. Piacque. Gli americani lasciarono 30mila lire di mancia, una cifra esorbitante per l'epoca. Il padre colse il significato di quell'evento, comprò chitarre per i figli e disse loro: “da domani farete questo mestiere”. Sull'onda del “successo” riscontrato Tony formò una band assieme ai suoi fratelli e iniziarono a esibirsi in trattorie, ristoranti, balere e teatri d'avanspettacolo.
Il 18 maggio del 1957 fu tra i partecipanti al primo festival del rock'n'roll che si tenne a Milano al Palazzo del Ghiaccio, con Adriano Celentano, Betty Curtis, Tony Renis e altri ancora. Si accalcarono settemila giovani “fanatici del rock” che sembravano impazziti e le jeep della celere dovettero caricarli più volte per disperderli. Il quotidiano cittadino Il Giorno del 20 maggio 1957 dedicò ampio spazio all'evento. Descrisse un pubblico volgare, poco colto (pochi studenti, molti garzoni di macellai, salumieri, droghieri), raccolto in un ambiente disadorno (palco rosso e polveroso, la luce gialla e squallida), le ragazze sedute sguaiate sulle sedie di legno, i riccioli duri sulle guance, i golfini ridotti al minimo, una pizza o una fetta di salame in bocca.
Il ghiaccio però era rotto, nel 1958 e nel 1959 si organizzeranno altri festival. Fu in occasione di uno di questi che al Teatro Smeraldo di Milano fu notato da un impresario inglese che lo convinse a partire con i suoi fratelli per l'Inghilterra. Là nacque il gruppo Little Tony and his brothers. Aveva sedici anni quando approdò a Londra, senza una lira e senza sapere una parola d'inglese. La band era una delle tante formazioni che emergevano nella Londra pre-Beatles. Incisero una serie di brani fra cui Lucille, Shake rattle and roll, Too Good, scritta da uno degli autori dei testi di Elvis Presley, che si piazzò fra le prime venti nella classifica dei dischi più venduti.

Con i fratelli in Inghilterra

Sgomitatore di rock'n'roll

Rientrato in Italia con pochi soldi, come ebbe a raccontare, ma con i jeans, il giubbotto di pelle alla Marlon Brando e gli occhiali da sole, iniziò a girovagare di locale in locale. Una vita in salita, difficile. Avrebbe voluto continuare a cantare solo testi in inglese, ma la casa discografica milanese Durium impose tutt'altro contratto: se si fosse ostinato a cantare solo in inglese lo avrebbe strappato. Accettò il compromesso e iniziò la sua carriera artistica nell'ambiente musicale italiano. Il quotidiano La Stampa il 18 giugno del 1959 lo definiva, assieme a Celentano, un “incallito sgomitatore di rock'n'roll”, entrambi “diretti eredi di Elvis Presley”. Come Celentano e tanti altri egli visse la transizione tra l'urlo del rock'n'roll degli anni cinquanta e la beatlesmania del decennio successivo. Non a caso è ricordato tra gli innovatori della nostra canzone, un “urlatore” di classe, capace di imporre ritmicità e dinamicità a una canzone che non riusciva a staccarsi dall'impostazione melodica.
Urlatori era il nome attribuito dalla stampa dell'epoca a una corrente musicale e canora che nel nostro paese visse i brevi anni del miracolo economico e incontrò una generazione in cerca di identità. I “vecchi” la descrivevano disimpegnata politicamente, attenta alle mode americane nel campo cinematografico, musicale, dell'abbigliamento e del godimento del tempo libero, da trascorrere al bar, gettonando nei juke box canzoni dal ritmo incomprensibile (se non irritante) per gli adulti. Questi cantanti e le loro canzoni nulla avevano in comune con la tradizione melodica italiana o con quella di protesta tipica del movimento operaio e delle leghe contadine. Cantavano con una voce ad alto volume, priva di abbellimenti e gorgheggi melodici. Erano “urlatori” giovani cantanti quali Tony Dallara, Joe Sentieri, Adriano Celentano, Clem Sacco, Ricky Gianco, Giorgio Gaber, Little Tony e, fra le voci femminili, Betty Curtis, Jenny Luna, Mina, Angela e Mara Pacini (alias Brunetta). La musica rock divenne fenomeno di costume, coincise con una rivoluzione del gusto e del mercato la cui domanda si basava essenzialmente sulle fasce giovanili. I giovani cantanti italiani si appropriarono del ritmo, dei testi e dei modelli del rock'n'roll e li tradussero nel linguaggio musicale nazionale.

1961: l'anno di ventiquattromila baci

Baci a tempo di rock

Il grande pubblico scoprì Little Tony al festival di Sanremo del 1961 dove, in coppia con Adriano Celentano, portò in gara Ventiquattromila baci che si piazzò al secondo posto. Quel festival fu descritto come lo scontro tra il gorgheggio e l'urlo, la canzone melodica italiana contro il ritmo del juke box, il mandolino contro la chitarra. Sia nel ritmo che nel messaggio evocato, la canzone rompeva prepotentemente con la tradizione melodica e con le accoppiate sdolcinate di cuore e amore, con i sentimentalismi stucchevoli o tardoromantici; il rapporto d'amore era velocizzato: “Con ventiquattromila baci/ felici corrono le ore/ d'un giorno splendido, perché/ ogni secondo bacio te./ Con ventiquattromila baci/ oggi saprai perché l'amore/ vuole ogni istante mille baci,/ mille carezze vuole allora/ Niente bugie meravigliose/ frasi d'amore appassionate/ ma solo baci chiedo a te”. L'uso delle parole, unito al ritmo rock, trasmetteva un'idea d'amore che riprendeva i connotati delle filosofie vitalistiche e la cadenza espressiva del futurismo, tesa appunto ad esaltare la velocità e il movimento perenne: la sensazione profonda, dirompente. Fu un successo.
Il tema dell'amore tra gli adolescenti fu ripreso da altre canzonette di quegli anni le quali mettevano in evidenza la “nevrosi del bacio”: “il bacio dei giovani [...] è più che altro un fatto ritmico, addirittura un rito sportivo. Nessun languore penetra il cantante quando parla di baci, li evoca, li sogna”, scriveva Camilla Cederna su L'Espresso del 7 luglio 1963. Un modo nuovo di porsi verso un tema vecchio, quello delle relazioni amorose, che raccoglieva il germe di ribellione che stava maturando in strati della popolazione giovanile ma di cui diversi giovani già allora impegnati politicamente a sinistra sembrava non accorgersene. Per loro le emozioni trasmesse e diffuse con quelle frasi semplici e dirette apparivano poca cosa, banalità consumistiche. Quelli che frequentavano i cineforum, i circoli culturali, le sezioni di partito, ascoltavano soprattutto i cantautori e consideravano Pavone, Celentano, Little Tony e tutti gli altri dei cantanti commerciali, che esprimevano il disimpegno e il qualunquismo. “Guardavamo dall'alto in basso i nostri coetanei che palpitavano su quelle note”, ricorderà anni dopo Gianni Borgna, precisando però che in realtà anche il loro “cuore soffriva”; e allora ascoltavano Luigi Tenco e Gino Paoli perché con le loro canzoni sublimavano le cose che avrebbero voluto dire e non potevano dire, prigionieri della ferrea legge dell'impegno politico contro la futilità degli smarrimenti adolescenziali” (C'era una volta una gatta, Savelli, 1977).

yè yè yè yè

Negli anni sessanta i giovani, che cominciavano a essere oggetto d'interesse e di disprezzo, assieme e contemporaneamente da parte della generazione adulta, furono battezzati dalle riviste popolari di costume e dai giornali la “generazione yè-yè”. Il termine aveva un'origine frivola e canzonettistica. Nella canzone del 1961 Ventiquattromila baci Celentano e Little Tony introducevano, a un certo punto, una ripetizione ossessiva di sillabe poste dopo il verso “Ma solo baci chiedo a te: yè yè yè yè”. L'anno dopo ne Il ragazzo col ciuffo, yè yè yè yè ritornava nel ritornello di una canzone nella quale il nostro confessava di essersi fatto crescere i capelli non per protesta, ma perché aveva scoperto che alle ragazze piacevano i tipi così e voleva suscitare l'attenzione di una lei. Stessa cosa faceva nel 1962 Gianni Morandi in Andavo a cento allora.
Al festival di Sanremo del 1964 Little Tony, in coppia con Gene Pitney, proponeva Quando vedrai la mia ragazza, una canzone che, alla fine di ogni strofa, prevedeva un ritornello sillabico che faceva “yè-yè”; e anche Rita Pavone nel 1963, nel ritornello del Ballo del mattone rimava: “con te, yè-yè”.
I benpensanti strillavano la loro incomprensione per tali insulsaggini, per quelle parole prive di senso, per quei ritornelli banali, per quei ritmi musicali che apparivano loro incomprensibili, primitivi “africani” nel senso razzistico del termine. Il termine venne genericamente usato per indicare i comportamenti giovanili stravaganti, i loro balli moderni, gli strani gusti musicali e l'idioma. Finirono con l'essere considerati ye-ye tutti quei giovani che adottavano comportamenti anticonformistici nel vestire, nel parlare, nell'ascoltare musica, nel ballare.
Si dovette però prendere atto, a malincuore, che quella del rock non era una moda passeggera. Sul giornale dei giovani comunisti, Nuova generazione del 21 luglio 1961, commentando il festival del rock che si era tenuto in un cinema romano, l'articolista scriveva: “lo spettacolo era tra i più squallidi che si potessero vedere. I vari Ghigo, Little Tony, Guidone, Lydia la Gatta non erano né contorsionisti né cantanti: un ridicolo e spesso sguaiato agitarsi e un urlare inutile”. Quando nel febbraio del 1965 a Roma all'Eur quindicimila giovanissimi assistettero a uno spettacolo musicale in cui si esibivano i Rokes, Celentano, Little Tony, Sergio Endrigo, Modugno, Rita Pavone, il giudizio non era cambiato più di tanto. Così scriveva Sergio Saviane su L'Espresso del 14 febbraio: “Fischi, urla, strepiti. Più che un concerto è stato un continuo spaventoso boato. Impressione di trovarsi in un immenso gabbione di scimpanzé. Erano urla di protesta, applausi all'americana (col fischio) o urla di rabbia di rivolta sociale? Non lo si saprà mai”.

Raccolta dei successi degli anni sessanta

Dopo gli anni d'oro

Gli anni sessanta furono molto generosi coi giovani cantanti. Little Tony fu uno dei giovani emergenti. E non fu una “meteora”, come poteva capitare. Resse e si affermò sia tra il pubblico giovanile, che riconobbe in lui uno di quelli in grado di rinnovare la canzone italiana, sia tra quello adulto, che lo trovò simpatico e lo apprezzò soprattutto quando nel 1966 incise Riderà (più di un milione di copie vendute); Cuore matto, l'anno dopo al Festival di Sanremo e un milione di copie vendute; Donna di picche nel 1968; Bada bambina nel 1969; La spada nel cuore, presentata in coppia con Patty Pravo al festival di Sanremo nel 1970. In quegli anni fu uno dei cantanti più popolari e addirittura un sex symbol adorato dalle ragazze che conquistava non con sdolcinature sentimentali, ma col modo grezzo e autentico del rock'n'roll. Un'adorazione che mai disdegnò, infatti, come dice con garbo e discrezione la figlia, ebbe molte fidanzate. A causa di una di loro, prosegue, saltò l'incontro fissato col suo mito, Elvis Presley. All'ultimo disertò per via di una ragazza che aveva incontrato. Pensava di poterne combinare un altro, invece Elvis morì di lì a poco. Rimase uno dei più grandi rimpianti della sua vita. Nel 1975 aveva reso omaggio al suo maestro incidendo l'album Tony canta Elvis.
La fine del decennio sessanta chiuse anche la sua stagione d'oro e ne aprì un'altra. Interpreti come Little Tony conobbero un declino negli anni settanta, sostituiti dai cantautori e dal rock progressivo italiano, generi musicali considerati più colti, più in linea coi tempi della scoperta della politica e dell'impegno da parte di larghe fasce di pubblico giovanile. Apparentemente, stando alla critica colta e agli eventi musicali narrati dai rotocalchi, Little Tony sembrava scomparso, non se lo filava più nessuno. Il suo personaggio sembrava un patetico ricordo di un tempo lontano e passato. Ma non era così. Little Tony aveva sedimentato uno stile ben definito nel gusto del pubblico e i suoi fans continuavano ad amarlo e apprezzarlo, all'opposto della stampa “colta” e dei salotti televisivi impegnati, che lo ignoravano o lo trattavano con sufficienza. Lo descrivevano infatti come una copia provinciale di Elvis e non gli perdonavano la sua vita “leggera”. Coi suoi fratelli continuò a suonare in centinaia di concerti e serate, girando in lungo e in largo tutta l'Italia. Conobbe un certo successo internazionale, esportò con la sua interpretazione il rock'n'roll italiano che, secondo il suo stile, mescolava aspetti innovativi e ribellistici con tradizioni tipiche della nostra cultura musicale popolare. Approdò negli Stati Uniti e in Canada. In quest'ultimo paese nell'aprile del 2006, durante un concerto a Ottawa, fu colpito da un infarto, dal quale si riprese per continuare la sua carriera artistica ormai prossimo ai settant'anni. Partecipò a vari programmi televisivi popolari. Si lamentò a volte, col sorriso sulle labbra, della critica che spesso era stata impietosa con lui, ma al contempo si consolava constatando che la sua popolarità era ancora grande. Era la considerazione discreta di un veterano del rock'n'roll, la stessa che, probabilmente, avrebbe fatto oggi leggendo gli articoli dei giornali che, a volte ipocritamente, lo celebrano dopo la sua morte.

Diego Giachetti