Zapatisti/Verso 
                  il leninismo? Non è vero 
                   
                  Gentile redazione, 
                  ho letto con attenzione l'articolo “Lettera dal Sud America” 
                  pubblicato sul numero 376 di Arivista, in cui il Laboratorio 
                  libertario di Montevideo (Uruguay) descrive l'attuale situazione 
                  dei movimenti sociali latinoamericani. Nell'articolo si dice 
                  che l'Ezln, partito da posizioni libertarie, si è negli 
                  ultimi anni spostato verso le posizioni leniniste che inizialmente 
                  criticava. Si afferma inoltre che il movimento zapatista continua 
                  “ad avere una categoria vincolata alla forma Stato che 
                  serve alla sua riproduzione”. Da anni seguo il movimento 
                  zapatista e, se ho inteso bene le parole di questi compagni 
                  uruguayani, le trovo decisamente fuorvianti. 
                  L'Ezln è apparso a metà degli anni '90 per rivendicare 
                  i diritti delle comunità indigene messicane. Inizialmente 
                  si è seduto a un tavolo di negoziazione con il governo, 
                  sperando venissero approvate leggi in difesa dei diritti dei 
                  popoli nativi. Nel momento in cui si è sentito tradito 
                  da tutti i partiti messicani, il movimento ne ha preso con chiarezza 
                  le distanze e ha interrotto qualsiasi tipo di dialogo con le 
                  istituzioni, da cui non accetta nessun tipo di aiuto. Sarebbe 
                  un discorso molto lungo, ma credo che sinteticamente si possa 
                  affermare che in questi anni il movimento zapatista ha costruito 
                  autogoverno, autonomia e orizzontalità nelle sue comunità, 
                  e penso che, per chi ha la possibilità di farlo, un viaggio 
                  in Chiapas valga molto la pena, c'è parecchio da imparare. 
                  Secondo me le comunità zapatiste del Chiapas sono un 
                  esempio pratico di applicazione di molte teorie anarchiste. 
                  Le zapatiste e gli zapatisti non si definiscono libertari, ma 
                  sono gli anarchici più coerenti che abbia mai conosciuto. 
                  A questo link potete trovare il testo in italiano della Sesta 
                  dichiarazione della Selva Lacandona, un testo profondo ma anche 
                  ironico che descrive la visione politica del movimento zapatista: 
                  http://www.autistici.org/nodosolidale/zapatismo_det.php?id=6. 
                
  Orsetta Bellani 
                  La Spezia 
                    
                  Mercato libertario e agorismo 
                Condividere ogni virgola di un articolo o proposta di ragionamento 
                  è cosa alquanto rara, ma è quello che mi ha suscitato 
                  la lettura dell'articolo 
                  di Stefano Boni “Autogestione illegale contro la crisi” 
                  (“A” 378, marzo 2013, pag. 9). Boni, riportando 
                  esempi da tutto il globo, ci descrive piccoli e medi commercianti 
                  con stand mobili e una gestione del lavoro che non richiede 
                  la dipendenza né da autorizzazioni statali né 
                  da grandi imprese; barbieri e calzolai che operano nelle piazze 
                  e nei mercati; ristoratori che vivono di chioschi sulle spiagge; 
                  basta un tavolino per gestire una attività di vendita 
                  di chiamate telefoniche; basta un pavimento per vendere giornali; 
                  uno spremiagrumi per vendere bevande all'arancia. Si riproducono 
                  e si vendono film e dischi, senza preoccuparsi del copyright. 
                  Il succo del ragionamento di Stefano Boni è semplice, 
                  ovvero, la gestione statuale è un fallimento continuo, 
                  fatto di burocratizzazione, permessi, controlli e certificati, 
                  “si sono negli ultimi decenni progressivamente allargati 
                  gli ambiti di regolamentazione invasiva attraverso l'aumento 
                  dei controlli burocratici” mentre la “società 
                  ha le risposte migliori per sollevarsi”. Quello che non 
                  viene detto però nell'articolo, ma è evidente 
                  dato che si parla in ogni esempio di attività commerciali, 
                  dal giornale al ristorante, è che si sta discutendo di 
                  “mercato libertario”. Questo articolo ha una sua 
                  considerevole importanza poiché si accetta la proprietà 
                  di tale scambio come fondamento di una probabile alternativa 
                  “situazionista” e libertaria da poter praticare 
                  da oggi, da subito, infatti, già viva ed evidente nelle 
                  varie società del globo terrestre. Emblematico ed efficace 
                  è l'elogio che Stefano Boni fa delle attività 
                  commerciali fuori dal controllo statuale e delle grandi impresi 
                  capitaliste sorrette e sponsorizzate dai vari governi e mass 
                  media. 
                  Tale metodologia di analisi è presente anche in formulazioni 
                  sviluppate negli Usa da svariate correnti libertarie, ovvero 
                  “l'agorismo”. L'agorismo propone come soluzione 
                  ideale per approdare a una società dove tutte le relazioni 
                  tra persone siano scambi volontari, un “libero mercato” 
                  privo dell'imposizione statuale. 
                  Come ha descritto un libertario americano, Brad Spangler: “L'agorismo 
                  è un anarchismo di mercato rivoluzionario. In una società 
                  fondata sul mercato anarchico, diritto e sicurezza saranno forniti 
                  da istituzioni libere di mercato, e non da istituzioni politiche. 
                  Gli agoristi riconoscono dunque che, tali istituzioni, non potranno 
                  svilupparsi attraverso riforme politiche, ma, anzi, attraverso 
                  veri processi di mercato. Quanto il governo sarà più 
                  bandito, tanto forte sarà la repressione contro il governo 
                  da parte del mercato che fornirà maggiore sicurezza e 
                  diritti. Il mercato domanderà tanti servizi di sicurezza 
                  quanto sarà grande la sua emergenza. Lo sviluppo di tale 
                  domanda arriverà da quei settori dell'economia in continua 
                  crescita, ovvero quelli sempre meno sotto il controllo dello 
                  stato (che di conseguenza non permetteranno più allo 
                  stato di avere il monopolio del diritto e della sicurezza). 
                  Questo settore dell'economia è la counter-economics, 
                  ovvero l'insieme dei mercati neri e grigi”. 
                  Insomma, penso anche alla luce di quest'ultimo articolo, che 
                  una riflessione seria vada fatta nel mondo libertario, poiché 
                  una società autenticamente libertaria può svilupparsi 
                  solo dove vi è sincera e concreta libertà di relazioni 
                  e di scambio, lontano dalla coercizione e dagli obblighi burocratici 
                  tipici della regolamentazione dei mercati da parte dei governi 
                  statal-capitalisti. 
                 Domenico Letizia 
                  Maddaloni (Ce) 
                 
                   
                   Ma la moneta è un bene comune 
                   
                  Credo fermamente che l'unico attuale discorso politico che giudico 
                  abbia una reale consistenza e una capacità di accomunare 
                  individui a prescindere dalla loro età, stato sociale, 
                  cultura ecc. sia quello che si occupa dei beni comuni e che, 
                  penso, gli anarchici siano legittimati a trattare. Devo dire, 
                  però, che personalmente non riuscivo a schierarmi totalmente 
                  per due motivi: uno, per la difficoltà di accettare che 
                  si potesse realizzare, attraverso codici e leggi, l'idea di 
                  una civiltà vicina a quella che io ritenevo desiderabile; 
                  l'altro, più complesso, passava attraverso la mancanza 
                  (o io non lo vedevo) di ogni accenno al superamento del mercato 
                  così come si articola oggi. Infatti le obiezioni liberiste 
                  alla realizzazione, anche di quanto gli stessi referendum avevano 
                  deciso, passavano e passano tutti dall'affermazione che “ogni 
                  cosa costa e quindi per realizzarla occorre capire come fare 
                  in termini finanziari”. Questa obiezione (o abiezione) 
                  apparentemente insuperabile, ha fondamento oggi, perchè 
                  hanno convinto tutti, almeno in Europa, che lo stato non ha 
                  mezzi, cioè non ha la disponibilità della moneta. 
                  La moneta, invece, è da sempre mezzo di scambi e di regolazione 
                  del mercato nonché strumento di pagamento e di misurazione 
                  di valori. Inoltre insistono a dirci che la causa di ciò 
                  risieda nell'enorme debito accumulato, ovviamente per colpa 
                  dei poveri in quanto, certamente, non sono i ricchi che hanno 
                  bisogno di prestiti. 
                  Ma fino a poco tempo fa uno stato che rappresentava una società 
                  e traeva legittimità proprio dall'impegno di realizzare 
                  i principi fondamentali che lo definivano, dava il via a investimenti 
                  anche mettendosi a stampare moneta, (ricordate il New Deal?). 
                  Questa moneta messa in circolazione, salvando le regole del 
                  mercato, realizzava i fini che lo stato si proponeva. Ancora 
                  oggi tutti gli stati, Usa e Giappone per primi, stampano allegramente. 
                  Perchè oggi non è più possibile? La risposta 
                  è che l'Europa non lo permette. E questo vuol dire che, 
                  senza che ce ne sia accorti, è accaduto qualcosa di devastante 
                  in cui l'Europa sta giocando il ruolo di apripista. È 
                  accaduto che la moneta è diventata un bene di proprietà 
                  privata. Quella che c'è in circolazione c'è. Chi 
                  la detiene, essendo sua, la utilizza come gli aggrada. L' unità 
                  europea realizza che la moneta circoli liberamente ma non i 
                  diritti dei cittadini. Anche la moneta che non c'è (debito 
                  pubblico) circola liberamente, mentre il lavoro di un polacco 
                  è retribuito in maniera diversa dallo stesso lavoro di 
                  un francese ecc. 
                  Ma la moneta, in quanto strumento di pagamento in un mercato 
                  globale, non è bene privato, è bene comune così 
                  come l'acqua, l'aria ecc. Ecco cosa manca a chi lotta per i 
                  beni comuni. Manca la rivendicazione principale che è 
                  quella della moneta bene comune. Senza questo passaggio (insieme 
                  ad altri che ne impediscano l'accumulazione privata) non si 
                  potrà arrivare a niente. 
                  C'è una obiezione: come può impedirsi l'accumulo 
                  privato se c'è una circolazione materiale di biglietti 
                  di banca. 
                  Una soluzione a questo reale problema c'è e si chiama 
                  moneta elettronica. Ma è un discorso da farsi non nei 
                  termini fino ad ora proposti, che sono termini diretti a realizzare 
                  il drenaggio per fini fiscali della moneta in circolazione, 
                  ma quando si incomincerà ad accettare l'idea che la moneta, 
                  o i mezzi di scambio, siano beni comuni e non proprietà 
                  privata garantita dagli stati e degli statisti che personalmente 
                  ne godono i privilegi. 
                  Come funziona il meccanismo della proprietà privata della 
                  moneta? Semplice: il proprietario immette nel mercato una quota 
                  monetaria (investimento) che insieme al lavoro e alla terra 
                  accresce il suo valore iniziale (i tre fattori della produzione: 
                  terra, lavoro, capitale). Lo stato drena, attraverso le tasse, 
                  parte, più o meno notevole, degli utili monetari prodotti 
                  e parte massiccia delle quote monetarie inizialmente utilizzate 
                  per i salari (della terra non se ne occupa nessuno come la situazione 
                  del pianeta dimostra ampiamente). Quanto drenato viene quindi 
                  utilizzato sia per mantenere e rafforzare se stesso (operazione 
                  importantissima in quanto la sua primaria funzione è 
                  quella di garantire la proprietà privata di ogni cosa 
                  e soprattutto della moneta) e parte per erogare direttamente 
                  interessi sul debito pubblico, che è espressione dinamica 
                  della proprietà privata della moneta. 
                 Angelo Tirrito 
                  Palermo 
                  
                   Un racconto dedicato a Carlo Cafiero 
                   
                  Saluto il direttore e tutta la redazione della rivista anarchica. 
                  Sono Antonello Murer, risiedo a Nocera Inferiore e svolgo la 
                  professione di tecnico radiologo. Ho avuto modo di leggere la 
                  vostra rivista e, nello specifico, gli articoli che riguardano 
                  Carlo Cafiero. 
                  Non avevo mai sentito parlare di Carlo Cafiero, quando un giorno, 
                  il traffico del mattino mi costrinse a rallentare. Il mio sguardo 
                  si soffermò sul nome di una stradina che costeggiava 
                  l'ex manicomio della mia città: via Carlo Cafiero, appunto. 
                  Nella solitudine mattutina di un lavoratore in ritardo, mi chiesi 
                  chi potesse essere stato quell'uomo e cosa avesse mai fatto 
                  di interessante per aver meritato di dare un nome e proprio 
                  a quella strada. Solo qualche tempo più tardi, quella 
                  estemporanea domanda trovò una risposta. In una libreria 
                  del centro dove mi recai per l'acquisto di un libro, per caso 
                  sfilai da uno scaffale ciò che apparteneva proprio a 
                  Carlo Cafiero: il primo compendio in lingua italiana del Capitale. 
                  Quella che interpretai come una felice coincidenza, mi procurò 
                  un certo stupore quando lessi un po' la vita dell'autore: nato 
                  a Barletta da un proprietario terriero, conobbe Marx, Engels, 
                  ecc. Ciò che più mi sconvolse, però, fu 
                  scoprire che il luogo della sua morte non fu Parigi o Londra, 
                  ma il manicomio di Nocera Inferiore. Io adoro la mia città, 
                  precisiamo subito, ma per un personaggio dello spessore intellettuale 
                  di Carlo Cafiero, finire i suoi giorni nel manicomio di Nocera 
                  Inferiore non sarà stato certo il massimo. 
                  Conosco bene quel luogo, purtroppo, e non perché ci sia 
                  stato internato (naturalmente!) ma perché da ragazzo 
                  quando si faceva sega a scuola, spesso percorrevamo un binario 
                  morto della ferrovia che dava dietro al manicomio e, da un punto 
                  sopraelevato rispetto alla struttura, guardavamo i “pazzi”. 
                  Da quando i manicomi sono stati chiusi, o forse è meglio 
                  dire aperti (non crede?) quella enorme struttura è stata 
                  trasformata dalla Asl di appartenenza in uffici amministrativi 
                  e sede di alcuni dipartimenti a essa collegati. Mi è 
                  capitato spesso da dipendente di quella Asl di passeggiare tra 
                  i vecchi padiglioni, prima che tutti fossero ristrutturati. 
                  Ciò che maggiormente mi colpiva erano le scritte lasciate 
                  dai vecchi residenti della struttura e, proprio quelle scritte, 
                  mi hanno ispirato a scrivere un racconto su questo grande personaggio. 
                  L'ho immaginato con un look diverso da quello ritratto nelle 
                  foto dell'epoca: capelli tagliati a spazzola, indumenti uguali 
                  per tutti. Era un intellettuale, uno che amava scrivere e anche 
                  lui, probabilmente, avrà utilizzato come supporto per 
                  reggere le parole le mura del manicomio. 
                  Spero di non aver banalizzato la grandezza intellettuale di 
                  Carlo Cafiero e se questo racconto ritenete possa avere un valore, 
                  certo non intellettuale, ma di ammirazione per il personaggio, 
                  sono lieto di condividerlo con voi e i vostri lettori. 
                   
                  Pazzaria 
                  Lo chiamavano Carbonella. 
                  Si aggirava lungo il perimetro della gabbia di cemento che lo 
                  conteneva e le giornate le passava girovagando per i sentieri 
                  più bui della sua mente. Aveva sempre le mani nere e, 
                  di conseguenza, la faccia nera. Da qui, il soprannome Carbonella. 
                  Le mura di cemento che lo avevano imprigionato sembravano enormi 
                  fogli di carta sui quali scriveva il suo perenne trattato. 
                  Capelli a spazzola, giacca ciancicata, scarpe grosse che strusciava 
                  sull'asfalto perché troppo larghe da poter essere calzate 
                  perfettamente. 
                  Era esile e curvo. Si muoveva a scatti come gli animali selvatici, 
                  attento ad ascoltare i rumori più profondi, quasi impercettibili, 
                  di quelle mura impregnate d'urla e fetore d'anime smarrite. 
                  Di lui nessuno sapeva nulla, tranne quelle scritte che parlavano 
                  di cose che nessuno capiva. Parole senza senso, si diceva, e 
                  se gli chiedevano spiegazioni, le risposte erano incomprensibili, 
                  senza senso, appunto. 
                  Da quanto Carbonella scrivesse sui muri, qualcuno lo sapeva: 
                  fu dalla morte dell'ingordo. 
                  “Te lo ricordi?”. 
                  L'ingordo morì undici/dodici anni fa. Lo cercarono per 
                  ventiquattro ore. Probabilmente prima che si accorgessero della 
                  sua scomparsa erano già passati tre o quattro giorni. 
                  Lo trovarono morto in uno scantinato, si era nascosto per consumare 
                  tutto quello che era riuscito a trafugare dalle cucine. 
                  L'ingordo aveva sempre fame, non aveva il senso della sazietà. 
                  Era tenuto d'occhio per evitare che si strozzasse, ma lui era 
                  furbo: sapeva sempre come eludere la sorveglianza e trovare 
                  nuovi luoghi appartati dove apparecchiare la tavola. 
                  “Sì!” 
                  Poco tempo dopo, arrivò Carbonella. Aveva un nome e cognome, 
                  si chiamava Carlo Cafiero. Era nato a Barletta e d'importante 
                  nella vita aveva scritto il primo compendio in lingua italiana 
                  de Il Capitale, opera filosofica di Karl Marx. 
                  Carbonella morì nel manicomio di Nocera Inferiore mentre 
                  uno scaltro e improvvisato imbianchino copriva con la vernice 
                  le sue scritte, eseguendo alla perfezione gli ordini autorevoli 
                  del direttore di quella gabbia. “Per fare pulizia” 
                  sosteneva, che evidentemente fa rima con pazzia. 
                  Quel pomeriggio il sole tramontò, più lentamente 
                  del solito, su quella gabbia chiamata Pazzaria dalle persone 
                  del posto. Ai loro occhi, troppo spesso, appariva come un luogo 
                  di perdizione a causa delle intemperanze degli ospiti che, lì, 
                  erano stati stoccati e imprigionati in un tempo senza tempo. 
                  Quel pomeriggio, ancora una volta, il sole si sforzò 
                  di allungare il suo raggio migliore su quell'enorme foglio impossibile 
                  da ripiegare, per illuminare l'ultima frase dell'uomo con le 
                  mani e la faccia nera. 
                  Quella volta, però, Carbonella disegnò lettere 
                  acuminate che liberarono urla e ataviche voci senza volto, dissolvendosi 
                  nell'aria come vapore. Con una mano cercò di stendere 
                  il muro; con l'altra estrasse dalla tasca un pezzo di carbone, 
                  ne leccò la punta, lo conficcò nell'intonaco, 
                  come la lama di un coltello che con odio affonda in un ventre 
                  maledetto. 
                  Quel pomeriggio, con una frase di senso compiuto, il sole se 
                  lo portò congedandolo dal mondo. 
                  “La mia mente, il confine ultimo di un pensiero libero, 
                  il vostro mondo, una falsa comoda congettura”. 
                 Antonello Murer 
                  Nocera Inferiore (Sa) 
                    Prosegue il dibattito 
                  su  
                  “Libertà senza Rivoluzione” 
                 Prosegue il dibattito sul volume Libertà senza Rivoluzione 
                  di Giampietro “Nico” Berti (Piero Lacaita Editore, 
                  Bari 2012), di cui abbiamo ripreso qualche 
                  stralcio in “A” 377 (febbraio).  Sui numeri 
                  successivi sono intervenuti Franco 
                  Melandri e Domenico 
                  Letizia (“A” 378, marzo), Luciano 
                  Lanza e Andrea 
                  Papi (“A” 379, aprile), Luigi 
                  Corvaglia e Alberto Ciampi 
                  (“A” 380, maggio), Marco 
                  Cossutta e Salvo 
                  Vaccaro (“A” 381, giugno) e ora Persio Tincani 
                  e Fabio Massimo Nicosia. 
                  Il dibattito è naturalmente aperto a chiunque intenda 
                  intervenire, con il limite delle 6.000 battute spazi compresi. 
                 
                    Dibattito 
                  Libertà senza Rivoluzione/9 
                   
                  Persio Tincani/Ok, il capitalismo ha vinto, ma... 
                La premessa è che Libertà senza Rivoluzione 
                  è un saggio poderoso, sia per il lavoro di ricerca storica 
                  che per il lavoro di ricerca teorica. In questo libro, che analizza 
                  le due principali dottrine politiche che hanno dominato la scena 
                  nell'ultimo secolo e mezzo – il comunismo e il capitalismo 
                  –, Berti sostiene che nello scontro tra le due il capitalismo 
                  (visto in parte come un sottoprodotto di successo del liberalismo 
                  classico) abbia vinto in modo netto e definitivo. Sconfitto 
                  il comunismo, il modello capitalistico ha dilagato senza concorrenti 
                  e ha potuto espandersi ancora di più, anche trasformandosi 
                  in modelli inediti, cambiando i paradigmi della produzione o 
                  addirittura prescindendone facendosi capitalismo finanziario 
                  in un continuo esperimento che, essendo di volta in volta il 
                  modello unico di fatto praticabile, non incontra ostacoli. 
                  In tutto ciò, l'anarchismo ha perso il treno perché 
                  1) non ha colto la portata e l'inappellabilità della 
                  vittoria del capitalismo; 2) è rimasto ancorato a un 
                  antagonista – il capitalismo classico – che non 
                  esiste più, cosicché la critica che presenta è 
                  priva tanto di bersaglio quanto di interlocutori: non c'è 
                  più il padrone della ferriera e non ci sono più 
                  gli operai della ferriera. 
                  Uno dei più gravi difetti del progetto politico marxista, 
                  secondo Berti (e secondo me), è la fiducia nel determinismo 
                  storico in base al quale determinate condizioni produrrebbero 
                  per forza di cose determinate conseguenze, una tesi delusa 
                  ben presto dai fatti: anche se le condizioni sociali dell'Inghilterra 
                  ottocentesca erano “una ricetta per la rivoluzione” 
                  (Richard Sennett), la rivoluzione non scoppia lì ma in 
                  Russia, dove la prevalenza dell'economia preindustriale aveva 
                  fatto vaticinare a Marx che non sarebbe scoppiata tanto presto. 
                  Poco importa che il proletariato urbano inglese fosse consapevole 
                  delle condizioni di sfruttamento o fosse invece obnubilato dalla 
                  falsa coscienza, perché alla fine la rivoluzione non 
                  la fanno i proletari ma le avanguardie, dato che le “masse”, 
                  come sostiene Berti (e ha ragione), “non sono rivoluzionarie”. 
                  Perché il capitalismo ha vinto? In sostanza, Berti risponde 
                  perché non poteva non vincere. Il capitalismo è 
                  intrinsecamente migliore del marxismo, incarnerebbe un modello 
                  di libertà individuale migliore, e chiunque, potendo 
                  scegliere, sceglierebbe di vivere in un regime capitalista e 
                  non in un regime comunista (“nessuno ha mai saltato il 
                  muro di Berlino da ovest a est”). Qui, a mio parere, ci 
                  sono i punti deboli della tesi di Nico. Il primo è che 
                  dopo aver respinto (correttamente) la traduzione marxista del 
                  determinismo scientifico in determinismo storico, Berti la utilizza 
                  per spiegare il successo del capitalismo, che ha vinto perché 
                  non avrebbe potuto non vincere. Berti argomenta diffusamente 
                  questo punto (ma anche Marx argomenta diffusamente la propria 
                  versione del determinismo) tuttavia si tratta di un'argomentazione 
                  che mi pare viziata da una impostazione teleologica della storia. 
                  Inoltre, se il comunismo pare sconfitto, a vincere non è 
                  il capitalismo originario ma una sua versione molto modificata. 
                  Se i padroni delle ferriere non ci sono più non è 
                  perché hanno deciso di togliersi di mezzo, ma perché 
                  sono stati costretti a farlo dalle pressioni di grandi movimenti 
                  politici, in gran parte di ispirazione marxista, che sono riusciti 
                  a ottenere una regolamentazione del mercato del lavoro (che 
                  gli alfieri del capitalismo, come Hayek e Rothbard, hanno spesso 
                  giudicato in modo assai negativo) che ne ha ridimensionato il 
                  potere di fatto. Lo stesso stato non è più quel 
                  “guardiano notturno dell'economia” del modello capitalistico 
                  originario, ma è stato trasformato in un'istituzione 
                  che incorpora elementi di welfare estranei alla logica capitalista 
                  che sono l'esito di uno scontro sociale sul terreno del quale 
                  il socialismo ha vinto sul capitalismo. 
                  Vista così, il modello capitalista della rivoluzione 
                  industriale ha perso quanto il comunismo dei soviet, 
                  perché né l'uno né l'altro esistono più. 
                  Anzi, a guardar bene, quel capitalismo è sparito 
                  ben prima del comunismo. Se questo capitalismo ha vinto, 
                  è prima di tutto perché è stato modificato 
                  rendendolo “meno capitalista” di prima. 
                  L'altro punto debole, a mio parere, è la questione delle 
                  “opzioni”, che Nico presenta nei termini già 
                  accennati: se un tedesco della Ddr avesse potuto scegliere tra 
                  capitalismo e comunismo avrebbe scelto il capitalismo e sarebbe 
                  diventato un tedesco dell'ovest. Fin qui, niente di sbagliato, 
                  almeno secondo me. Tuttavia, da questa scelta di valore relativo, 
                  Nico deriva un giudizio di valore assoluto del modello 
                  capitalista, e questo passaggio non è lecito. 
                  Semplificando un po': suppongo che, potendo scegliere tra essere 
                  picchiati o insultati, la maggior parte delle persone sceglierebbe 
                  gli insulti; ma ciò non significa che alla gente piaccia 
                  essere insultata, anzi, suppongo che alla maggior parte delle 
                  persone non piaccia affatto. In quel caso, si tratta dell'opzione 
                  migliore – “il meno peggio” o, in termini 
                  tecnici, “una preferenza adattiva” –, ma ciò 
                  non significa che sia anche qualcosa di buono di per sé. 
                  Fuori dalla semplificazione: è certo possibile che tra 
                  chi preferisce il capitalismo al comunismo vi sia chi ritiene 
                  anche che il capitalismo sia il modello migliore in assoluto, 
                  ma non lo possiamo desumere dal fatto che il capitalismo è 
                  stato preferito al comunismo se la scelta era tra queste sole 
                  alternative. Si potrebbe obiettare che la costruzione realistica 
                  di alternative ai modelli dominanti non è una cosa semplice, 
                  e secondo me sarebbe un'obiezione ben fondata. Tuttavia, un 
                  conto è dire che il capitalismo è la migliore 
                  delle opzioni possibili tra le due esistenti e che pensare di 
                  costruirne una terza (o una quarta) è un'ipotesi irrealistica, 
                  altro è saltare alla conclusione che il capitalismo è 
                  la migliore tra le opzioni possibili (e punto). 
                  In questa sede non posso fare altro che proporre questi argomenti 
                  per una discussione. 
                 Persio Tincani Pavia 
                
                 
                   Dibattito 
                  Libertà senza Rivoluzione/10 
                   
                  Fabio Massimo Nicosia/Stringere i rapporti tra anarchici e radicali 
                È difficile recensire un libro che si condivide, a parte 
                  qualche dettaglio, da cima a fondo. 
                  Il testo di Giampietro Berti si divide in tre parti, più 
                  due appendici sul concetto di libertà. 
                  Nella prima, si discutono i perché del fallimento storico 
                  del movimento comunista internazionale, nella seconda le ragioni 
                  che hanno condotto alla vittoria del capitalismo su scala globale, 
                  nella terza si passano in rassegna le varie posizioni che attualmente 
                  vengono ricondotte, a torto o a ragione, al pensiero anarchico 
                  contemporaneo. Il tutto accompagnato da una radicale critica 
                  a qualunque prospettiva rivoluzionaria. 
                  Secondo Berti, le masse non sono rivoluzionarie, e quindi chi 
                  pretendesse di imbastire un processo rivoluzionario peccherebbe 
                  comunque di avanguardismo e, in ultima analisi, di autoritarismo, 
                  per quanto si autodefinisca “anarchico”. Già 
                  Lenin, in Stato e rivoluzione criticava gli anarchici 
                  per il loro definirsi “antiautoritari” e rivoluzionari 
                  al contempo, ignorando che non vi è nulla di più 
                  autoritario di una rivoluzione. 
                  L'aver mantenuto e il mantenere oggi un legame con la prospettiva 
                  rivoluzionaria da un punto di vista anarchico non ha portato 
                  altro che a una marginalizzazione del movimento anarchico, sicché 
                  oggi questo movimento, come ripete Berti a più riprese, 
                  non rappresenta altro che se stesso. 
                  Per Berti, l'anarchismo deve prendere atto della vittoria della 
                  liberaldemocrazia, non solo, della preferibilità della 
                  liberaldemocrazia rispetto a qualunque altro sistema politico, 
                  e fare i conti con essa. L'obiezione non è nuova. Già 
                  Benjamin Tucker sosteneva che, in un sistema che consente libertà 
                  di parola e di opinione, non ha senso una prospettiva rivoluzionaria, 
                  dovendosi viceversa inserire in quel sistema con la parola e 
                  la discussione. 
                  Come scrivevo a mia volta nel mio Il dittatore libertario 
                  (Giappichelli, 2011), l'ipotesi rivoluzionaria, una volta scartato 
                  il “golpismo” di stampo leninista, “pecca 
                  di ingenuità, perché sembra considerare 'il potere' 
                  come qualcosa di esclusivamente fisico, che si possa sbriciolare 
                  aggredendolo direttamente, trascurando il suo carattere di costruzione 
                  della mente, di 'credenza costitutiva', per usare l'espressione 
                  di Friedrich von Hayek, che trova sì estrinsecazioni 
                  fisiche (l'apparato burocratico-militare e i suoi pretenziosi 
                  'palazzi'), ma che non possono essere demolite, se non una volta 
                  che quelle credenze, fondamento del consenso nei confronti delle 
                  istituzioni del dominio e della ‘legittimità' di 
                  questo, siano state intaccate” (pag. 366). 
                  Quindi, se scartiamo la rivoluzione, e immettiamo il movimento 
                  anarchico nel gioco del potere liberaldemocratico, quel che 
                  resta è l'ipotesi “riformista”, di un riformismo 
                  forte, però, al quale meglio si attaglia il termine, 
                  anche malatestiano, di “gradualismo”. 
                  Si dirà però che, se le masse non sono rivoluzionarie, 
                  men che meno esse sono “anarchiche”, qualunque cosa 
                  ciò significhi, con la conseguenza che il consenso politico-elettorale 
                  di un movimento anarchico è destinato a rimanere modesto. 
                  Manca infatti al movimento anarchico una cultura del “second 
                  best”, quello che Berti chiama male minore o meno peggio, 
                  ma che è qualcosa di più di questo. Gli anarchici 
                  cadono in una grave contraddizione logica allorché pongono 
                  le “leggi” tutte sullo stesso piano, in quanto espressione 
                  di un potere percepito come nemico. Ma le leggi non sono tutte 
                  uguali. Una legge che vieta un comportamento non equivale a 
                  una legge che lo consente, ed è “stupido” 
                  (termine molto utilizzato da Berti) opporsi alla legge permissiva 
                  come se fosse una legge interdittiva. 
                  Il problema è che gli uomini si distinguono, tra le altre 
                  cose, in due tipi psicologici: quelli dotati di “inclinazione 
                  libertaria” (coloro i quali non vogliono né comandare, 
                  né essere comandati), e quelli dotati di “inclinazione 
                  autoritaria” (coloro i quali vorrebbero comandare, ovvero 
                  quelli che, non riuscendovi, si adattano a essere comandati). 
                  Il nostro dramma è che l'inclinazione libertaria è 
                  di pochi, sicché si evidenzia all'orizzonte una prospettiva 
                  elitista e pessimista a un tempo. 
                  Tuttavia, se pure le masse non sono libertarie, o non lo sono 
                  consapevolmente, esse possono dimostrarsi libertarie con riferimento 
                  a singole questioni, quando si toccano i loro interessi e diritti. 
                  Come è avvenuto nel referendum sul divorzio, quello sull'aborto, 
                  o persino su quello della depenalizzazione del consumo individuale 
                  di sostanze stupefacenti. 
                  Ciò che accomuna queste iniziative è di costituire 
                  manifestazioni di “libertà negativa”, di 
                  antiproibizionismo, sicché paradossalmente gli anarchici 
                  potrebbero utilizzare gli strumenti della liberaldemocrazia, 
                  per aggredire dialetticamente l'elemento “democratico” 
                  (cioè quello del potere della maggioranza), in favore 
                  dell'elemento “liberale”, cioè quello della 
                  conquista di crescenti spazi di autonomia per il singolo, sicché 
                  la democrazia sarebbe solo l'ambiente, da erodere progressivamente, 
                  nel quale affermare elementi di liberalismo radicale. 
                  Parlando fuori dai denti, va detto che questo spazio politico 
                  è già occupato dall'area radicale, per quanto 
                  si possa criticare la sua classe dirigente e la sua cultura. 
                  Il radicalismo, del resto, in termini analitici, può 
                  essere definito come la linea immaginaria che conduce dal liberalismo 
                  all'anarchia. 
                  Io vedo nel rapporto tra anarchici e radicali la possibilità 
                  non solo di una convivenza, ma di uno scambio. L'anarchismo 
                  ha infatti un bagaglio storico-culturale assai vasto, che può 
                  rinvigorire una cultura radicale tutta sdraiata sul solo concetto 
                  di “Stato di diritto”, mentre i radicali possono 
                  fornire al movimento anarchico le battaglie di “second 
                  best”, di cui l'anarchico valuterà, alla luce del 
                  malatestiano lume regolatore, la congruità, ossia la 
                  compatibilità con il progetto utopico, che non va comunque 
                  abbandonato almeno a livello di immaginario, pure fondamentale 
                  in una forza politica che voglia mutare lo stato presente delle 
                  cose (quello dei first best). 
                 Fabio Massimo Nicosia Milano 
                
                 
                
                   Transgender/Meglio se aggettivo, 
                  e comunque un (non una) 
                   
                  Salve, 
                  in riferimento al dossier 
                  “Leggere l'anarchismo.3”, pubblicato dentro 
                  il numero 379 (aprile 2013), in cui a pag. 34 citate brevemente 
                  il mio libro La società de/generata. Teoria e pratica 
                  anarcoqueer, ci tengo a specificare alcune cose, oltre che 
                  a ringraziarvi per l'apprezzamento rispetto ai contenuti: 
                  – Alex non è uno pseudonimo dietro cui si nasconde 
                  nessuno, è il mio nome, e B. è l'iniziale del 
                  cognome, che ho preferito non pubblicare semplicemente perchè 
                  non sono in buoni rapporti con mio padre da cui purtroppo deriva 
                  quel cognome. Non ho proprio niente da nascondere, ci tengo 
                  alla visibilità di persona trans e nel movimento anarchico 
                  tutti sanno che sono transessuale. 
                  – non sono una transgender, semmai un transgender, 
                  anche se preferirei che transgender venisse usato come aggettivo 
                  anzichè come sostantivo, visto che sono prima di tutto 
                  una persona. Mi dispiace che non abbiate letto il libro abbastanza 
                  attentamente, in particolar modo c'è un capitolo sulle 
                  persone trans che spiega perchè è discriminante 
                  ricondurre le persone trans al loro sesso di nascita anziché 
                  utilizzare pronomi e aggettivi del genere di arrivo, rappresentativi 
                  della loro identità di genere e anche dell'aspetto fisico 
                  dopo l'assunzione di ormoni. Visto quindi che sono un ragazzo 
                  trans, al massimo si può dire che sono un transgender 
                  (o ancora meglio, una persona transgender). Spero possiate fare 
                  tesoro di queste osservazioni. 
                  Saluti 
                 Alex B.  
                  fuckgender@riseup.net 
                  
                   Ricordando don Gallo/1. Il nostro 
                  angelo anarchico 
                   
                  Ero pronto da giorni a ricevere la tremenda notizia. Eppure 
                  quando Fabio della Comunità di San Benedetto al Porto, 
                  uno dei miei amici più cari, mi ha scritto che il Gallo 
                  se n'era andato, non riuscivo a crederci. Sono rimasto senza 
                  parole, confuso, incapace di avere una qualsiasi reazione. Poi 
                  piano piano sono affiorati i ricordi, tantissimi, degli incontri 
                  con il don, dei suoi insegnamenti, della sua straordinaria umanità; 
                  e con i ricordi, un'infinita tristezza per questa perdita devastante. 
                  Don Andrea Gallo, il nostro angelo anarchico, ha sempre lottato 
                  dalla parte giusta, che è quella degli sconfitti, 
                  dei respinti, dei disperati, di chi è stato relegato 
                  ai margini dalle spietate liberaldemocrazie nelle quali ci tocca 
                  (soprav)vivere. Le sue parole, le sue storie, i suoi racconti 
                  di vita vissuta sapevano tratteggiare con un'immediatezza senza 
                  pari un mondo di miserie e di splendori, di solitudine e di 
                  amore. Coinvolgevano tutti. Non escludevano mai nessuno. E sapevano 
                  dare forza e speranza. “Bisogna sempre osare la speranza”, 
                  ripeteva spesso, e non smettere mai di sperare l'impossibile. 
                  Inseguire l'utopia. Citando Edoardo Galeano, il Gallo diceva: 
                  “L'utopia sta all'orizzonte, mi avvicino di due passi, 
                  lei si allontana dieci passi più in là. Per quanto 
                  io cammini, non la raggiungo mai. Quindi, a che serve l'utopia? 
                  Serve a questo: a camminare”. Tantissime persone sono 
                  ancora in cammino, non si rassegnano e attraversano il nostro 
                  tempo adoperandosi, nonostante tutto, per costruire un altro 
                  mondo possibile. Un mondo più libero e più 
                  solidale, senza servi né signori, senza violenza né 
                  coercizione. Un'utopia? Forse. Ma contro un sistema che sacrifica 
                  migliaia di persone ogni giorno e prospera grazie a umilianti 
                  disuguaglianze è assolutamente necessario fare qualcosa. 
                  “So di non essere onnipotente”, scriveva don Gallo, 
                  e tutti noi sappiamo di non esserlo; però egli subito 
                  aggiungeva: “Ma non voglio concedermi la scusa dell'impotenza”. 
                  Non ci si deve rassegnare al pensiero che non si possa cambiare 
                  nulla; occorre invece moltiplicare gli sforzi per dare sempre 
                  più spazio a un'idea di solidarietà liberatrice 
                  in grado di coniugare le libertà, i bisogni e i diritti 
                  di tutti, e vincere ipocrisia ed egoismi. In che modo possiamo 
                  riuscirci? In realtà, non ci sono scorciatoie o modelli 
                  precostituiti. Si trova la via soltanto ricercandola con gli 
                  altri. Ed è proprio ciò che ha sempre fatto 
                  don Gallo, con la sua infaticabile disponibilità a incontrare 
                  tutti e la sua capacità di coinvolgere le persone nel 
                  suo percorso di condivisione, di emancipazione e di lotta all'indifferenza, 
                  che per Andrea era “la summa massima di tutti i peccati”. 
                  Lo avevamo chiamato spesso in Alessandria anche per ricordare 
                  insieme Fabrizio De André, la sua buona novella 
                  libertaria, radicale, umanissima. Determinati a viaggiare nel 
                  mondo sempre in direzione ostinata e contraria. E ora 
                  abbiamo bisogno che Andrea, con Faber, continui a guidare il 
                  nostro cammino. Abbiamo bisogno di stringerci intorno alla sua 
                  Comunità, ai suoi ragazzi, per piangere con loro, 
                  ma anche per costruire un futuro, per proseguire il cammino. 
                  Insieme. Senza mai dimenticare quello che ci ripeteva il don: 
                  “Chi sceglie un'ideologia può anche sbagliare; 
                  chi sceglie i poveracci, i senza voce, i fragili, non sbaglia 
                  mai”. 
                 Giorgio Barberis 
                  Alessandria 
                  
                   Ricordando don Gallo/2. Mai avuto 
                  tanta simpatia per i preti 
                   
                  È da poco calata la sera dentro la mia cella e il blindato 
                  è già chiuso, ho appena saputo dalla televisione 
                  della tua morte. E le ombre dentro questo buco si sono fatte 
                  più fitte. 
                  Ciao don Gallo, oggi sono un uomo ombra ancora più 
                  triste, la tua partenza lascia un altro vuoto nella mia vita 
                  e nel mio cuore. 
                  Non ti ho mai conosciuto di persona e non ho mai avuto tanta 
                  simpatia per i  preti dopo tutte le botte che ho preso 
                  da loro in collegio da piccolo, ma tu eri uno di quelli che 
                  da grande mi hanno fatto venire dei dubbi. 
                  Tu, don Gallo, prete di strada, prete degli ultimi, non avevi 
                  esitato a metterti dalla parte dei cattivi e colpevoli per 
                  sempre, degli ergastolani ostativi. 
                  Quando ti ho chiesto di aiutarmi a far conoscere che in Italia 
                  esiste la “Pena di Morte Viva”, l'ergastolo ostativo 
                  ad ogni beneficio, che fa morire in carcere un uomo senza la 
                  compassione di ucciderlo prima, tu sei stato davvero uno dei 
                  primi che ha aderito e il tuo nome è in prima pagina 
                  nella lista dei primi firmatari dell'iniziativa “Firma 
                  contro l'ergastolo” . 
                  Ciao don Gallo, grazie per tutte le volte che hai fatto sentire 
                  la tua voce per noi, che ci hai prestato un po' della tua luce 
                  per dire alla società civile che il male non potrà 
                  mai essere sconfitto con altro male, che non serve a nessuno 
                  la sofferenza di un uomo destinato a morire dentro una cella 
                  che è già la sua tomba.  
                  Ciao don Gallo, ti avevo scritto nella settimana prima di Pasqua 
                  per dirti che nella mia disperazione non volevo festeggiare 
                  la resurrezione, perché io sono un'ombra che cammina, 
                  né vivo né morto, e per me e per tutti i miei 
                  compagni ergastolani non c'è resurrezione e speranza 
                  da festeggiare. Tu non mi hai attaccato e criticato, come hanno 
                  fatto in molti, ma mi hai scritto queste semplici e sostanziali 
                  parole: 
                  “Carissimo do la mia completa solidarietà alla 
                  vs. lotta. 
                  Sempre 'su la testa' nonostante tutto. Ciao, don Gallo” 
                  Ho ancora queste parole attaccate nella mia cella e nel mio 
                  cuore. 
                  Ciao don Gallo, ci mancherai. Ora dovremo fare anche senza di 
                  te e la lotta qui si fa sempre più dura: adesso ci chiedono 
                  anche di dividere la nostra tomba con altri cadaveri, non ci 
                  lasciano neanche più la nostra solitudine nella cella, 
                  come vorrebbe la legge. 
                  Ciao don Gallo, tu vai, io rimango qui a lottare con degli umani 
                  che mi puniscono perché da giovane ho infranto la legge 
                  e dopo 23 anni di carcere devo ancora subire le loro scelte 
                  che vanno contro la legge. 
                  Ciao don Gallo, tu ora che sei libero nell'universo, non dimenticarti 
                  di noi che ancora viviamo murati vivi tra ferro e cemento per 
                  tutti i nostri giorni. 
                  E se incontri il Dio in cui hai creduto, digli per favore se 
                  viene a prendere anche noi: gli uomini non ci vogliono dare 
                  la libertà, anche se dopo tutti questi anni noi non abbiamo 
                  più niente a che fare con l'uomo di 20-30 anni fa che 
                  ha commesso i reati per i quali siamo qui. 
                  Ciao don Gallo, sempre “su la testa” e un sorriso 
                  mesto tra le sbarre, nonostante tutto. 
                 Carmelo Musumeci 
                  Carcere di Padova 
                  carmelomusumeci.com 
                  
                   Ricordando don Gallo/3. L'addio di 
                  Anarchicco 
                 
                  
                   
                
   Ricordando don Gallo/4. “Ci 
                  vuol tanto troppo coraggio” 
                   
                  È sabato 25 maggio... una giornata di quelle che in questa 
                  stagione se ne dovrebbero vedere poche. 
                  La pioggia incessante frusta sui vetri del treno, la stazione 
                  di Genova Porta Principe è avvolta nel grigiore, un vento 
                  troppo freddo morde la faccia ed evitare le pozzanghere è 
                  praticamente impossibile. Sono le 9:30 e davanti alla comunità 
                  di San Benedetto al Porto, “sanbe” per gli amici, 
                  c'è già tantissima gente: avvicinarsi alla cassa 
                  di don Andrea è impresa ardua. 
                  La gente si accalca davanti all'ingresso, qualcuno chiede permesso 
                  e tenta di farsi largo per raggiungere l'entrata della piccola 
                  chiesa. Il feretro deve muoversi verso la chiesa del Carmine: 
                  bisogna far spazio altrimenti il don da lì non si sposta. 
                  Dalla testa del corteo funebre sentiamo intonare Bella ciao; 
                  è un attimo e tutti cantiamo all'unisono. 
                  Nel risalire il corteo si incontrano le realtà più 
                  diverse: ci sono i compagni del movimento No Tav, i No DalMolin, 
                  i ragazzi di Libera, quelli della Fossa dei Grifoni del Genoa, 
                  gli operai della Fiom, i camalli di Genova; ci sono le bandiere 
                  delle sezioni dell'Anpi di praticamente tutta Italia listate 
                  a lutto; ci sono le bandiere rosse, quelle rosse e nere della 
                  Fdca e ogni tanto si intravede qualche faccia conosciuta dei 
                  ragazzi dei centri sociali, non solo di Genova. 
                  Poi ci sono loro: “i suoi ragazzi”: quelli della 
                  comunità di San Benedetto, che da anni accoglie persone 
                  in situazione di disagio, con particolare attenzione al mondo 
                  della tossicodipendenza e del disagio psichico. Sfilano con 
                  una maglietta rossa con sopra la scritta: “dimmi chi escludi 
                  e ti dirò chi sei”, frase che spesso recitava Andrea. 
                  Per tutto il tragitto fino alla chiesa del Carmine si intona 
                  Bella ciao. 
                  Tanti i sacerdoti che hanno voluto concelebrare: da don Vitaliano 
                  della Sala, il prete “No global”, salito alle cronache 
                  durante il G8 di Genova, a don Santoro, che in passato pagò 
                  per le sue aperture nei confronti di omosessuali e transgender. 
                  Dagli altoparlanti sistemati fuori dalla chiesa sentiamo parole 
                  in ricordo del don. 
                  Vladimir Luxuria che dal pulpito ha ringraziato don Gallo: “Grazie 
                  per averci aperto le porte della tua chiesa, grazie per averci 
                  aperto le porte del tuo cuore, grazie di averci dimostrato che 
                  una chiesa comprensiva, inclusiva, che non caccia via nessuno 
                  è possibile, grazie di averci accarezzato, grazie di 
                  averci stretto la mano, grazie di averci fatto sentire tutte, 
                  noi creature transgender figlie di Dio, volute da Dio... ci 
                  auguriamo che tanti seguano il tuo esempio e ci auguriamo tanto 
                  che qualcuno ti chieda scusa don Gallo!”. 
                  Poi tocca al fondatore di Libera, don Luigi Ciotti: “Vorrei 
                  dire che Andrea è un sacerdote che ha dato un nome a 
                  chi non lo aveva o se lo era visto negare da qualcuno. Dare 
                  un nome con tenacia e quotidiano impegno e riconoscere la dignità 
                  la libertà della persona, una libertà sui cui 
                  bisogna sempre continuare a scommettere e alla quale non bisogna 
                  mai stancarsi: dare opportunità a tutte le persone”. 
                  Continua parlando dell'atteggiamento della chiesa: “Lui 
                  dice dentro tutti: dentro i gay, dentro le lesbiche, dentro 
                  gli altri, dentro i divorziati”. Infine ricorda il G8 
                  di Genova, la morte di Carlo Giuliani e la “sana rabbia” 
                  davanti alla base Usa DalMolin a Vicenza: “Abbiamo parlato 
                  tante volte e condiviso quel desiderio di verità: il 
                  G8, la morte di Carlo Giuliani, don Andrea ha pianto per lui. 
                  Così come si è indignato davanti alla base americana 
                  di Vicenza: ma cosa ce ne facciamo di quelle cose lì? 
                  Che senso hanno le grandi opere quando non ci sono soldi per 
                  i servizi sociali?”. 
                  Poi un ultimo semplice saluto: “Ciao Andrea”. 
                  La bara esce dal Carmine per raggiungere Campo Ligure. La piazza 
                  esplode nel suo ultimo saluto, non riusciamo a trattenerci: 
                  “Una mattina mi son svegliato, oh bella ciao, bella ciao...”, 
                  i pugni si stringono e si alzano verso il cielo. 
                  Grazie Andrea, perché non hai avuto paura delle gerarchie, 
                  perché hai insegnato che la diversità è 
                  una ricchezza, perché sei sempre stato in mezzo al popolo, 
                  nelle manifestazioni, con i compagni dei centri sociali, perché 
                  hai gridato a testa alta contro le ingiustizie del potere, perché 
                  non hai avuto paura dei benpensanti, perché sei un esempio 
                  di militanza non solo politica, ma anche civile. 
                  La tua Genova piange, piangono i carruggi, che di notte diventano 
                  il limbo, dove l'umanità degli ultimi esce allo scoperto 
                  dell'oscurità, dove tu hai saputo camminare tendendo 
                  la mano. Perché il tuo esempio viva per sempre, perché 
                  le nuove generazioni che non ti hanno conosciuto possano sentir 
                  parlare di te, conoscere la tua forza, il tuo coraggio... perché 
                  a “crepare di maggio ci vuole tanto troppo coraggio”. 
                 Camilla Galbiati 
                  Robecco sul Naviglio (Mi) 
                  
                   Ricordando don Gallo/5. Aspetti 
                  apparentemente contraddittori 
                 Ricorda, Signore,  
                  questi servi disobbedienti 
                  alle leggi del branco 
                  Fabrizio De André 
                 Si è spento fra i suoi ragazzi, nella comunità 
                  che aveva fondato quando parlare di droga era ancora un tabù. 
                  Lì sono stati accolti tossicodipendenti, prostitute salvate 
                  dai loro sfruttatori, immigrati senza un tetto, emarginati, 
                  persone comunque bisognose di aiuto. Don Andrea non aveva mai 
                  paura, chi sta dalla parte degli ultimi, diceva, non sbaglia 
                  mai. Frequentava gli anarchici e i centri sociali, citava Gramsci, 
                  Savonarola e don Milani, era amico di Fabrizio De André 
                  e di Dario Fo, era contro ogni forma di sfruttamento; ma era, 
                  soprattutto, profondamente e autenticamente prete, anzi, come 
                  amava dire lui, prete da marciapiede. 
                  Tutti questi aspetti apparentemente contraddittori si fondevano 
                  in un perfetto equilibrio nella sua straordinaria personalità. 
                  I veri credenti hanno visto in lui una autentica adesione nella 
                  parola del Vangelo; i non credenti avranno apprezzato la coerenza 
                  di un uomo che ha sempre vissuto in conformità con i 
                  suoi valori. A non gradirlo erano soprattutto gli ipocriti, 
                  i prevaricatori, i sostenitori delle ingiustizie. Di fronte 
                  al loro astio si è limitato a scuotere la polvere dai 
                  suoi calzari. 
                  Nel suo libro Angelicamente anarchico ha scritto “Di 
                  me, se possibile, preferirei non lasciare alcun ricordo”. 
                  Ma lui era uno che sapeva apprezzare la difficile virtù 
                  della disobbedienza. Disubbidiamogli, dunque, e portiamo nei 
                  nostri cuori la memoria della sua testimonianza. 
                  Saluti fraterni 
                 Enrico Torriano 
                  Bologna 
                       
                 
                  
                     
                      |    I 
                          nostri fondi neri 
                             | 
                     
                     
                        
                           Sottoscrizioni. Medardo Accomando (Manocalzati 
                            – Av) 30,00; Serena Zanzu (Capoterra – 
                            Ca) 10,00; Salvo Vaccaro (Palermo) 10,00; Antonio 
                            Pedone (Ponte Felicino – Pg) 5,00; Alberto Ciampi 
                            (San Casciano Val di Pesa – Fi) 20,00; Piero 
                            Torelli (Sermoneta – Lt) 10,00; Marco Morelli 
                            (Pomezia – Rm) 10,00; Daniele Caravaggio (San 
                            Vito Chietino – Ch) 10,00; Giancarlo Zilio (Selvazzano 
                            – Vi) 15,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando 
                            Amelia Pastorello e Alfonso Failla, 500,00; Davide 
                            Andrusiani (Castelverde – Cr) 10,00; Andrea 
                            Cassol (Cesio Maggiore – Bl) 30,00; Antonio 
                            Cecchi (Pisa) 15,00; Libreria San Benedetto (Genova) 
                            21,90; Giovanna Ciorciolini (Roma) 50,00; Roberto 
                            Nanetti (Settimo Torinese – To) 10,00; Claudio 
                            Rampazzo (Lumellogno – No) 10,00; Laura Gargiulo 
                            (Sassari) 30,00; Bastiano Sias (Barrali – Ca) 
                            presso la Comunità anarchica di solidarietà, 
                            ricordando Tommaso Serra, 50,00; Carlo Capuano (Roma) 
                            50,00; Gianni Pasqualotto (Crespano del Grappa – 
                            Tv) 70,00; Raimondo Aleddu Salaris (San Vero Milis 
                            – Or) 10,00; Antonio Cardella (Palermo) 40,00; 
                            Adriano Paolella e Linda Carloni (Roma) 500,00; Pietro 
                            Steffenoni (Lodi) 20,00. Totale € 1.536,90. 
                          Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti 
                            specificato, trattasi di euro 100,00). Paolo 
                            Trezzi (Lecco); Filippo Trasatti (Cesate – Mi); 
                            Davide Radice (Monticello Brianza – Lc) 200,00; 
                            Marco Tullio Valiante (Utikon-Waldegg – Svizzera) 
                            300,00; Ragnaar Brasta Myklebust (Oslo – Norvegia); 
                            Marco Cagnotti (Gordola – Svizzera) 500,00; 
                            Eros Bonfiglioli (Bologna); Renato Girometta (Vicobarone 
                            – Pc) “ricordando Aldo Rossi e Anna Pietroni”; 
                            Valeria Nonni (Ravenna); Pietro Steffenoni (Lodi). 
                            Totale € 1.700,00. 
                          | 
                     
                   
                  |