Dopo 
                  il voto/Lo Stato dei grilli 
                   
                  Ha ragione Roberta Lombardi, capogruppo dei deputati del Movimento 
                  5 stelle, quando scrive che “Il fascismo aveva un altissimo 
                  senso dello Stato, prima che degenerasse” (sul suo blog, 
                  il 21 gennaio). Il punto è stabilire quando è 
                  che il fascismo sarebbe “degenerato”; ma è 
                  vero che il fascismo si inserisce in una tradizione di alto 
                  e coerente senso dello Stato: lo Stato del 1915-18, che aveva 
                  mandato una generazione al macello della guerra; lo Stato del 
                  1920-21, della sua polizia che spalleggiava le squadracce contro 
                  braccianti e operai in sciopero; lo Stato delle violenze e della 
                  repressione contro gli oppositori, denunciate per esempio da 
                  Matteotti nel 1924; lo Stato dei massacri in Africa e nei Balcani; 
                  lo Stato delle leggi razziali e dei lager. E più di recente, 
                  con il fascismo storico sconfitto ma con i suoi nostalgici ed 
                  eredi, di nome o di fatto, ancora presenti negli apparati di 
                  potere, lo Stato di Piazza Fontana, quello delle leggi speciali 
                  e dell'assassinio di Giorgiana Masi, quello di Genova 2001, 
                  di Bolzaneto e della Diaz. 
                  La cosa si risolverebbe solo parzialmente regalando un libro 
                  di storia alla capogruppo Lombardi; si tratta in realtà 
                  di una questione più generale, che riguarda il presente 
                  più che il passato: qual è l'idea di Stato oggi 
                  prevalente, non solo fra i vecchi partiti, ma anche fra i nuovi 
                  movimenti che si apprestano a sostituirli? Si è fatta 
                  strada in questi anni una salutare insofferenza verso i politici 
                  di professione, la loro scarsa credibilità, i loro privilegi 
                  di casta; si praticano forme inedite di partecipazione diretta, 
                  grazie all'impiego delle nuove tecnologie. Riguardo al ruolo 
                  dello Stato come strumento in sé, invece, il senso critico 
                  e la fantasia non han fatto grandi progressi: appare più 
                  che mai incontestata l'ideologia (propria, del resto, della 
                  tradizione di una certa sinistra, almeno quanto di quella della 
                  destra) dello Stato come strumento principe dell'azione sociale; 
                  è più che mai diffusa la speranza salvifica in 
                  uno Stato forte, capace di rappresentare la volontà dei 
                  cittadini, ma anche di imporre le sue decisioni alla società. 
                  Uno Stato, oltretutto, pensato ancora come coincidente con l'entità 
                  nazionale di origine ottocentesca, con i suoi bei confini a 
                  separare quelle figurine colorate chiamate Italia, Francia, 
                  Svizzera. 
                  Pur non avendo votato per loro, io sono fra quanti pensano che 
                  l'impatto dei grillini sul quadro politico attuale sia almeno 
                  in parte positivo: mette in discussione un intero blocco di 
                  interessi fra poteri pubblici e affari privati, e favorisce, 
                  si spera, una svolta su temi cruciali che ci toccano concretamente, 
                  come l'ambiente e i beni comuni, le “grandi opere” 
                  e le spese militari, in direzione di una risposta sostenibile 
                  all'epocale crisi ecologica ed economica (il M5s si dichiara 
                  vicino alla decrescita, seppure in termini generici e non certo 
                  libertari). Ma è importante che si cominci a pensare 
                  più creativamente anche alle forme, agli strumenti politici 
                  e istituzionali, con i quali quegli obiettivi vanno perseguiti. 
                  E nell'eventualità di ritrovarci domani una Lombardi 
                  o affini come ministro, per dire, dell'Interno, è più 
                  che mai importante coltivare gli anticorpi sociali, politici, 
                  culturali contro fascismi, nazionalismi, populismi, caudillismi, 
                  autoritarismo, demagogia, di destra e di sinistra, vecchi e 
                  nuovi. 
                 Matteo Podrecca 
                  Roma 
                   
                  Fedeli a noi stesse 
                   
                  Rispondo brevemente alla lettera 
                  di Monica Giorgi apparsa sul n. 378 (marzo 2013), che ringrazio 
                  per le sue gentili parole. Quando ho letto Un 
                  gioco da ragazze di Marina Terragni, la scorsa primavera, 
                  ho pensato che il suo appello a salvare il salvabile fosse più 
                  che ragionevole. Ho però voluto rifletterci andando a 
                  rileggermi i testi su cui la nostra generazione si è 
                  formata, e mi è sembrato che quanto le donne hanno elaborato 
                  sia prezioso e soprattutto nuovo, altro rispetto alla teoria 
                  e pratica degli uomini. Capisco quindi bene la contraddizione 
                  di Marina che si rifiuta di entrare nei palazzi del potere; 
                  del resto, se la scelta fosse facile, non dovremmo neanche porci 
                  il problema. 
                  Ecco perché il titolo dell'articolo (mio, non redazionale) 
                  porta un punto interrogativo. In queste situazioni, ma direi 
                  in tutte, bisogna valutare caso per caso; per esempio penso 
                  che Anita Sonego abbia fatto bene a candidarsi a Milano, sia 
                  pure nelle liste di un partito stalinista e molto maschilista, 
                  perché la giunta Pisapia (che io ho votato con convinzione) 
                  fornisce il contesto adatto ad una politica femminista. Il mio 
                  “staremo a vedere” si riferiva all'essere fagocitate 
                  o meno delle donne che hanno deciso di giocare la carta della 
                  rappresentanza democratica; saranno loro stesse a dirci come 
                  sono andate le cose. Per quanto mi riguarda, con la mia formazione 
                  e il mio carattere poco propenso alla diplomazia, non credo 
                  potrei resistere in certi ambienti più di tanto, e se 
                  anche ci riuscissi, mi butterebbero fuori; e poi nei partiti 
                  si respira una sgradevole aria da oratorio. Circa trent'anni 
                  fa ho contribuito a fondare un sindacato di base, la RdR, nell'ente 
                  pubblico in cui lavoravo; sono stata responsabile della sede 
                  di Milano e poi della regione Lombardia, nonché consigliera 
                  nazionale. Ma le dinamiche erano le stesse di un partito e così 
                  me ne sono andata. Una cosa importante ho imparato da questa 
                  esperienza: il potere, anche se non lo vuoi, ti viene rimesso 
                  spontaneamente, perché la stragrande maggioranza della 
                  gente vuole vivere in santa pace, mentre la partecipazione diretta 
                  costa tempo, rinunce, un impegno che sul lungo periodo diventa 
                  faticoso. Penso che su questo punto gli anarchici dovrebbero 
                  riflettere molto, visto che l'autogestione si fonda sulla responsabilità 
                  personale. Di cose da dire ce ne sarebbero tante, ma mi fermo 
                  qui, per dare voce alle lettrici e ai lettori che volessero 
                  intervenire su queste problematiche. La mia e-mail è: 
                  dalessandra@hotmail.it. 
                 Sandra D'Alessandro 
                  Milano 
                   
                  Habemus Papam/Amen 
                   
                  Proprio quello che serviva. Faccia simpatica, sorriso rassicurante, 
                  inflessione gradevole, niente fronzoli e un'ostentata umiltà. 
                  La Chiesa Cattolica ha trovato in Jorge Mario Bergoglio il nuovo 
                  rappresentante con il quale sostituire, pubblicamente, il papa 
                  dimissionario Joseph Ratzinger. 
                  In effetti, da un punto di vista mediatico, è stata una 
                  mossa vincente. Addirittura, prima di augurare la buona notte 
                  come il più gioviale dei parroci di provincia, il nuovo 
                  papa si è inchinato davanti ai fedeli chiedendo loro 
                  una preghiera. Ed è stato amore a prima vista. 
                  Si farà chiamare Francesco, con evidente riferimento 
                  alla semplicità e alla sobrietà che da più 
                  parti si richiedono per fare pulizia nei sordidi ambienti vaticani. 
                  Come non amarlo? 
                  Mentre tutti i mezzi di comunicazione sono letteralmente impazziti 
                  nell'esaltare il nuovo papa e nell'alimentare le aspettative 
                  dell'opinione pubblica, vogliamo tenere alta l'attenzione su 
                  questioni meno consolatorie ma certamente più oggettive. 
                  Jorge Mario Bergoglio, classe 1936, viene da Buenos Aires, Argentina. 
                  Nel 1972, a soli 36 anni, fu nominato superiore provinciale 
                  della Compagnia di Gesù. Era, cioè, il capo dei 
                  gesuiti argentini. Di lì a poco, nel 1976, l'Argentina 
                  precipitò nell'incubo del colpo di stato e della dittatura 
                  dei colonnelli fascisti appoggiati dalla Cia. In sette anni, 
                  furono ammazzate almeno trentamila persone, gran parte delle 
                  quali furono fatte letteralmente sparire: i desaparecidos. 
                  Documenti ufficiali e tante inchieste hanno dimostrato le collusioni 
                  delle alte gerarchie cattoliche argentine e vaticane nei confronti 
                  di quella orribile dittatura. Un atteggiamento che ricorre più 
                  volte nella storia di Santa Romana Chiesa: dall'appoggio al 
                  fascismo italiano e al franchismo spagnolo, passando per i silenzi 
                  sullo sterminio nazista degli ebrei, fino alle dittature argentina 
                  e cilena. 
                  In un documentato libro del 2006, L'isola del Silenzio. Il 
                  ruolo della Chiesa nella dittatura argentina, il giornalista 
                  Horacio Verbitsky parla di Bergoglio, della sua affiliazione 
                  all'organizzazione di estrema destra Guardia di ferro, e di 
                  quanto fosse perfettamente in sintonia con la giunta militare. 
                  Da parte sua, l'interessato ha sempre respinto ogni accusa, 
                  e oggi c'è chi è pronto a sollevare Bergoglio 
                  da qualunque responsabilità. 
                  I Gesuiti non sono famosi per la loro sincerità, ma per 
                  la loro astuzia politica. In ogni caso, non ci aspettiamo nulla 
                  di buono: le sue attuali posizioni sulle questioni etiche e 
                  sociali più urgenti (contraccezione, eutanasia, diritto 
                  di aborto, omosessualità) sono in linea con il retrivo 
                  conservatorismo dei suoi predecessori. 
                  Ma oltre alle inquietanti ombre nel passato di Bergoglio, in 
                  mezzo all'euforia irrazionale e fideistica di questi giorni, 
                  noi non dimentichiamo le caratteristiche strutturali del potere 
                  religioso e politico della Chiesa di Roma. E teniamo accesa, 
                  contro ogni oscurantismo, la fiaccola del libero pensiero. 
                 Gruppo Anarchico “Andrea Salsedo” 
                  Trapani 
                   
                  Software libero e armamenti 
                   
                  Sfogliando il numero di marzo della rivista GNU Linux Magazine, 
                  tra i vari articoli sulle ultime novità tecnologiche, 
                  si legge: “GNU/Linux anche nelle armi! – Prodotti 
                  i primi fucili 'guidati' dal sistema operativo Open Source”. 
                  La novità è un prodotto dell'azienda texana TrackingPoint. 
                  Si tratta di fucili “equipaggiati con mirino automatico 
                  basato su GNU/Linux”. L'articolo prosegue specificando 
                  che “il mirino fornirà moltissime informazioni 
                  utili sul bersaglio e sull'ambiente circostante, rendendo la 
                  caccia molto più simile ad un videogioco. Grazie alle 
                  funzionalità messe a disposizione, sarà addirittura 
                  possibile agganciare il bersaglio senza così perderlo 
                  di vista”. 
                  Il prodotto è presentato come un gadget tecnologico tra 
                  gli altri. Si accenna in poche righe “alle numerose discussioni 
                  sul Web”, che questo prodotto (per fortuna!) sembra aver 
                  provocato, ma nient'altro. Il tono rimane il solito: entusiastico! 
                  Il sistema Linux dimostra ancora una volta di essere il migliore! 
                  La conquista del mercato dei sistemi operativi continua! 
                  Per non pochi utenti Linux, quindi, l'accoppiata software libero 
                  e armamenti è in pratica nell'ordine delle cose. In fondo, 
                  “se una cosa è libera, ognuno la può usare 
                  come gli pare”! Basta fare una breve ricerca su Google 
                  per rendersi conto di quanto questa opinione sia diffusa. Per 
                  molti, l'inserimento di Linux in mirini automatici è 
                  una mera questione tecnologica. Nulla di più. 
                  Eppure una domanda mi ronza nella testa. Il movimento del free 
                  software non ha sempre sostenuto che il software è un 
                  bene sociale, un bene comune, come l'informazione, come la conoscenza? 
                  Richard Stallman, ideatore del sistema operativo GNU (da cui 
                  è sorto Linux – ovvero GNU/Linux) ha continuamente 
                  asserito che il movimento del free software non è solo 
                  un movimento “tecnologico” ma un movimento che “si 
                  occupa prima di tutto del valore della libertà e della 
                  solidarietà sociale”1. 
                  Come è possibile, quindi, che un software libero, ovvero 
                  un software realizzato a partire dai valori di libertà 
                  e solidarietà, venga utilizzato, senza particolari contrasti 
                  (anzi, con accoglienze perfino entusiastiche) per realizzare 
                  armi? 
                  Tra l'altro non è nemmeno vero che le licenze free software 
                  permettano ad un utente di fare “quello che gli pare”. 
                  Se si accetta una licenza free, come ad esempio la celebre GNU 
                  GPL introdotta proprio dalla Free Software Foundation di Richard 
                  Stallman, non è possibile “chiudere” il software. 
                  Quest'ultimo deve restare “aperto”, ovvero “open 
                  source”: deve continuare a mettere a disposizione per 
                  ogni nuovo utente il sorgente del programma, ossia la possibilità 
                  di modificarlo, adattarlo, distribuirlo. In pratica un software 
                  libero è di tutti, è un software comunitario, 
                  nessuno può privatizzarlo togliendo agli altri la possibilità 
                  di utilizzarlo e quindi modificarlo in base alle proprie esigenze. 
                  Il software libero è tale non solo per chi inizialmente 
                  lo ha creato, ma anche per tutti i futuri utenti. 
                  I fucili equipaggiati con Linux non hanno ovviamente nulla a 
                  che fare con la libertà, ma piuttosto con l'esatto opposto. 
                  Con l'etica o la solidarietà sociale poi... 
                  Il software libero sembra così ridotto ad un semplice 
                  componente tecnologicamente sofisticato come tanti altri, con 
                  cui è possibile realizzare sistemi elettronici, tra cui, 
                  d'ora in poi, anche armi automatiche. 
                  Le tendenze, contro cui lo stesso Richard Stallman ha sempre 
                  lottato accanitamente, tese a trasformare il movimento del free 
                  software in un mero movimento tecnologico sono quindi oggi, 
                  evidentemente, dominanti. Del resto l'etichetta di software 
                  libero è oggi spesso sostituita con quella, eticamente 
                  anonima, di “open source”; ma, come Stallman ha 
                  con ragione evidenziato: non è affatto indifferente definire 
                  un software come free o open source. 
                  Chi si ferma a considerare il software libero semplicemente 
                  come un programma distribuito con il suo codice sorgente (open 
                  source appunto), o peggio ancora come software semplicemente 
                  “gratuito”, smarrisce la questione principale e 
                  fondante del movimento per il free software. “Il movimento 
                  del software libero si occupa prima di tutto del valore della 
                  libertà e della solidarietà sociale [...] distribuire 
                  un software non libero crea un ingiustizia ed è sbagliato 
                  farlo. L'idea di open source fu diffusa da gente che non parla 
                  di queste cose e che ha scelto di associarla solo a valori pratici: 
                  nel caso fare software potente e affidabile. Loro dicono che 
                  il loro metodo di sviluppo è probabile che produca buon 
                  software, buono solo in senso pratico. Loro non dicono che un 
                  programma calpesta la tua libertà se non è open 
                  source. Loro non dicono che renderlo open source è un 
                  imperativo etico”. 
                  Oggi il software libero, o meglio “open source” 
                  è in effetti compatibile con un preciso modello di business, 
                  che vede in Google il suo più imponente alfiere. Google, 
                  il gigante di internet, l'azienda che sta rivoluzionando il 
                  sistema dei media, è certamente sostenitore di un modello 
                  “aperto”, o per lo meno più aperto 
                  rispetto ad altri giganti dell'informatica come Apple o Microsoft, 
                  ma, chiaramente, perché ha tutti gli interessi economici 
                  per sostenerlo: Google non vende licenze, ma offre servizi gratuiti 
                  in cambio di informazioni da convertire in fatturato pubblicitario. 
                  Per ritornare alla questione dei fabbricanti di fucili; è 
                  vero che un fucile è uno strumento di morte anche senza 
                  software libero. È vero che è in ogni caso una 
                  schifezza che la dice lunga sul non ruolo che l'etica ricopre 
                  nel nostro mondo (a differenza del soldo). Questo però 
                  non toglie che considerare come inevitabile l'uso di un software 
                  comunitario per la realizzazione di strumenti di dominio e di 
                  morte, significa accettare che le motivazioni etiche che sono 
                  state, e che certamente, come per il sottoscritto, sono tutt'ora 
                  alla base dell'esperienza del free software, sono parole al 
                  vento, da lasciare a pochi ingenui da raggirare facilmente. 
                  Come arginare questa deriva? È poi così insensato 
                  introdurre licenze libere che oltre a permettere la libera modifica 
                  e distribuzione del software, ne impediscano l'uso in ambito 
                  militare, così come nella costruzione di qualsiasi forma 
                  d'armamento? Il software sarebbe per questo meno libero? 
                  Forse alla fine il problema non è nemmeno quello di migliorare 
                  le licenze del software, ma, come sosteneva il vecchio Kropotkin, 
                  di ricordarci che la libertà è un valore irrinunciabile 
                  che comporta la responsabilità della comunità, 
                  di vegliare e reagire di fronte a prevaricazioni. Tocca ai sostenitori 
                  del software libero non restare indifferenti. 
                 Luca Cartolari 
                  Perosa Canavese (To) 
                
                   
                  - Richard Stallman – Software libero pensiero libero 
                    (Vol I e Vol II) – Stampa Alternativa (2003). Molti 
                    sono i siti da cui è possibile trarre informazioni 
                    o leggere articoli e saggi di R. Stallman, (a partire dal 
                    fondamentale http://www.gnu.org).
                
  
                  Prosegue il dibattito 
                  su  
                  “Libertà senza Rivoluzione” 
                 Prosegue il dibattito sul volume Libertà senza Rivoluzione 
                  di Giampietro ”Nico” Berti (Piero Lacaita Editore, 
                  Bari 2012), di cui abbiamo ripreso qualche 
                  stralcio in “A” 377 (febbraio).  Sui numeri 
                  successivi sono intervenuti Franco 
                  Melandri e Domenico 
                  Letizia (”A” 378, marzo), Luciano 
                  Lanza e Andrea 
                  Papi (“A” 379, aprile) e ora Luigi Corvaglia 
                  e Alberto Ciampi. 
                  Sul prossimo numero (“A” 381, giugno) sarà 
                  la volta di Marco Cossutta e Salvo Vaccaro. Sul numero(ne) estivo 
                  (“A” 382, luglio/settembre) Persio Tincani e Fabio 
                  Massimo Nicosia e forse qualche altro ancora. 
                  Il dibattito è naturalmente aperto a chiunque intenda 
                  intervenire, con il limite delle 6.000 battute spazi compresi. 
                 
                 
                  Dibattito 
                  Libertà senza Rivoluzione/5 
                   
                  Luigi Corvaglia/Un dubbio sensato e una 
                  domanda ineludibile 
                   
                  Liberi. Sì, i degenti dell'ospedale di Qualcuno volò 
                  sul nido del cuculo erano liberi di andarsene. Quando McMurphy, 
                  il personaggio interpretato da Jack Nicholson, scoprì 
                  che la maggior parte dei degenti era in regime di ricovero volontario, 
                  ma non lasciava l'istituzione, comprese la lezione di Etienne 
                  de La Boétie: gli uomini si sottopongono volontariamente 
                  al potere. Jean-Paul Sartre e Albert Camus lo avevano detto 
                  che, pur in una istituzione diluita quale è la nostra 
                  società, gli uomini sono sempre liberi. Se così 
                  non fosse, nota Nico Berti nel suo ultimo libro, se insomma 
                  “gli uomini non fossero radicalmente liberi – 
                  cioè liberi alla radice – ogni idea di emancipazione 
                  umana sarebbe una semplice assurdità e l'anarchia, naturalmente, 
                  sarebbe la massima assurdità possibile e immaginabile”. 
                  Non è un caso che al battesimo della modernità 
                  un campione della reazione quale fu de Maistre si scagliasse 
                  proprio contro “la pazza asserzione: l'uomo è nato 
                  libero!”. È infatti questa idea, espressione di 
                  ciò che Max Weber definì il “disincanto”, 
                  a fondare il concetto di responsabilità individuale. 
                  Il lavoro di Berti parte appunto da questo presupposto per arrivare 
                  a cantare il requiem per la prospettiva rivoluzionaria quale 
                  mezzo per l'emancipazione umana. Le masse, infatti, non sono 
                  rivoluzionarie, perché hanno liberamente scelto 
                  di non esserlo. “Chi dà, allora, il diritto ai 
                  rivoluzionari di insorgere contro il volere della maggioranza 
                  delle persone?” Nessuno. Certo, qualcuno, come fece Giovanna 
                  D'Arco con la voce di Dio, può sempre ascoltare la Storia 
                  che gli sussurra nell'orecchio, perché “ogni pensare 
                  rivoluzionario è un pensare storicistico”. È 
                  quindi una forma di costruttivismo utopico che incarna un'anima 
                  totalitaria. Il problema, infatti, non è il metodo. Il 
                  problema è la forma della “società futura”. 
                  Se, infatti, si vagheggia una società nuova che universalizzi 
                  il bene supremo della libertà e si strutturi staticamente 
                  come luogo senza frizioni, è evidente che ci troviamo 
                  nell'ambito della prescrittività tipica della concezione 
                  democratico-giacobina. Questa si svolge sotto l'angosciante 
                  ombra di quella libertà positiva tesa alla realizzazione 
                  della pienezza delle potenzialità umane. È la 
                  secolarizzazione della tesi teologica di Agostino per cui l'uomo 
                  diviene veramente libero quando riesce a volere solo il Bene. 
                  Ma, come scriveva Berdjaev: “Ogni confusione e identificazione 
                  della libertà con il bene stesso e la perfezione equivale 
                  a negare la libertà, a riconoscere la via della violenza 
                  e della costrizione”. Anni fa, Thomas Ibanez aveva descritto 
                  un simile cortocircuito logico. “Volendo essere una teoria 
                  centrata sulla libertà – aveva scritto Ibanez –, 
                  l'anarchismo apre su una cultura che esige l'adesione di ognuno 
                  per poter esistere e che contesta la legittimità di tutto 
                  ciò che non è sé stessa”. L'anarchismo, 
                  in altre parole, sembra negare se stesso ed esitare in una cultura 
                  totalitaria. Vero, ma ad una condizione: che lo si faccia coincidere 
                  proprio con questa reductio ad unum, cioè con 
                  un progetto che, in nome del Bene, finisce col sacrificare il 
                  molteplice (cioè tutti gli spazi di libertas minor, 
                  come direbbe Agostino) al singolare (libertas maior). 
                  Monoteismo etico. Per molto tempo la libertas maior degli 
                  anarchici è stata il socialismo, nelle sue varie declinazioni. 
                  Il dilemma di Ibanez, altrimenti irrisolvibile, appare però 
                  illusorio se sostituiamo alla collettiva libertà democratica 
                  l'individuale autodeterminazione liberale. Immaginiamo una società 
                  che ricerchi solo la mancanza di costrizione, che risponda, 
                  cioè, ai criteri per la “società aperta” 
                  come descritta da Popper. Questa prevede una inversione di quello 
                  che Rawls definirebbe l'“ordine lessicale”, cioè 
                  la subordinazione dell'anticapitalismo ad un principio guida, 
                  la libertà. Che in tal caso sia facile uscire fuori dal 
                  paradosso di Ibanez lo dimostra chiaramente lo stesso Berti 
                  quando, a pag. 229, risponde ai critici della cultura liberale 
                  entro la quale egli ritiene si debba partire per attualizzare 
                  l'anarchismo. Per i detrattori del liberalismo anche questo 
                  è una forma di pensiero unico che finisce per 
                  creare una sorta di totalitarismo. “Come dire: anche il 
                  liberalismo ha un fondo antiliberale”. Ora, quando anche 
                  si desse l'improbabile condizione di una completa comunione 
                  di vedute, ciò non comporterebbe alcun totalitarismo, 
                  perché esso consiste, piuttosto, “in una uniformità 
                  coatta di vedute”. La libertà liberale, che è 
                  negativa, semplice mancanza di coercizione e, quindi, 
                  non prescrive, non può produrre esiti totalitari. Ce 
                  lo ricordava Rudolf Rocker: “molte strade portano alla 
                  dittatura dalla democrazia, nessuna dal liberalismo”. 
                  Insomma, qualcuno potrà ovviamente essere libero di essere 
                  socialista o mussulmano, “ma si è sempre nella 
                  più perfetta libertà anche di negare a questo 
                  qualcuno la libertà – la sua – di imporre 
                  coattivamente ad altri la sua fede.” Non più utopia, 
                  questa è, per dirla con Nozick, una “impalcatura 
                  per utopie” (cioè, politeismo etico). Insomma, 
                  visto in questi termini, il paradosso di Ibanez viene degradato 
                  a “gioco di parole”. Altrimenti torna Agostino. 
                  Poco importa, quindi, che leggendo il suo libro si abbia talvolta 
                  l'impressione che il critico dello storicismo descriva un andamento 
                  obbligato della storia (“Kant e McDonald's prima o poi 
                  arrivano dappertutto”) o che dalle pagine possa trasparire 
                  una fin troppo gioiosa “resa” alla razionalità 
                  strumentale del “capitalismo”. Chiunque fissasse 
                  la sua attenzione su questi aspetti si dimostrerebbe simile 
                  al tizio che guarda il dito piuttosto che la luna. Nell'analisi 
                  di Berti è presente un dubbio sensato e una domanda ineludibile: 
                  consegnato al cimitero delle idee l'agostinismo libertario, 
                  l'anarchismo può essere solo inveramento del liberalismo? 
                 Luigi Corvaglia  
                  Casarano (Le) 
                
                 
                   Dibattito 
                  Libertà senza Rivoluzione/5 
                   
                  Alberto Ciampi/Cu-cu! Chi è Stato? 
                   
                  Quando la destra liberale attacca i comunisti mi irrito perché 
                  penso a mio nonno, che nel dopoguerra, con Pier Carlo Masini, 
                  attraversava la Valdipesa in bicicletta per ricreare le sezioni 
                  del Pci attorno al comune paese di nascita. Poi Masini diventò 
                  anarchico e mio nonno rimase, pur da comunista, una persona 
                  libera. Nessun di loro pensava alla Rivoluzione, con o senza 
                  maiuscola. Credevano nella evoluzione verso qualcosa che fosse 
                  diverso e migliore, senza immaginarne i confini, una società 
                  libera senza fini precostituiti, in divenire, secondo la volontà 
                  di quella minoranza agente auspicata da Berti, con al centro 
                  l'individuo, dove le ideologie si sfaldano e dissolvono in uno 
                  stirneriano nulla creatore. Così nasce un percorso nuovo 
                  da inventare di volta in volta, oltre le crisi, oltre “la 
                  fine imminente dell'anarchismo [che] ha sempre portato bene 
                  all'anarchismo”, scrive Sacchetti (Umanità Nova, 
                  a. 93, n.5, 10 febb. 2013, p.6). Non è semplice parlare 
                  di questo libro. Ho preso appunti come per un esame, che necessiterebbe 
                  di dieci volte le seimila battute accordatemi. Cominciamo con 
                  la ri/Rivoluzione. Anche nei momenti più incendiari l'anarchismo 
                  non l'ha rincorsa, è evoluzionario ed il proprio 
                  agire si sedimenta nell'azione individuale congiunta. 
                  Nell'anarchia c'è, il migliore comunista, l'agire libero 
                  – anche in economia –, con il capitalismo senza 
                  il capitale, cioè senza capitalizzazione, con l'agire 
                  diretto. Berti aggredisce, demolendoli, modi di interpretare 
                  la società che religiosamente portano a dittature, e 
                  ne enumera i rischi, i limiti, le conseguenze di pensieri in 
                  sé totalizzanti insiti in quello marxista e parenti stretti 
                  di ogni declinazione fascista. Scrive che la società 
                  democratica è religiosa e finalista e l'unico ambito 
                  è quello liberale perché agnostico. Escludendo 
                  ogni altro luogo oltre l'occidente, Berti individua nell'America 
                  l'unica rivoluzione cui poter far riferimento, anche se “nessuno 
                  possiede la verità per intero”. Come non concordare 
                  con lui quando afferma che mai le masse sono state rivoluzionarie 
                  e che solo le minoranze agenti possono accedere alla rivoluzione, 
                  in un percorso che include il mondo intero, un mondo di differenze, 
                  ma fatto di una sola umanità. Solo l'anarchia è 
                  universalista e lo è perché non ha progetti di 
                  autodeterminazione collettiva, al contrario delle rivoluzioni, 
                  che non hanno spostato né aumentato spazi di libertà. 
                  Ma aggiunge che l'unica che si è limitata ad “abbattere 
                  senza creare” è la rivoluzione americana. L'Italia 
                  e la Germania non hanno avuto rivoluzioni, hanno prodotto fascismo 
                  e nazismo, mentre una minoranza “illuminata” ha 
                  costruito la galera sovietica o cinese. Allora? Ci pare di capire 
                  bene Berti quando cita il distinguo della Spagna del 36-37 “non 
                  a caso ad opera degli anarchici”, però contro e 
                  oltre il capitalismo. L'autore batte spesso sulla religiosità 
                  delle rivoluzioni come limite delle stesse, e questo ha la piena 
                  nostra condivisione, come quando inserisce il concetto di moderno 
                  che tale non può essere senza individualismo stirneriano. 
                  Ma l'individualismo è liberale? Renzo Novatore o Santo 
                  Pollastro non sono liberali, sono anarchici: altro e oltre il 
                  liberalismo. Se in Stirner, Kropotkin e Bakunin si trova la 
                  confutazione del capitale e del comunismo, ed il comunismo non 
                  è negatore, ma riconnotatore del potere, proprietà 
                  ecc., il liberalismo americano riassume nell'individuo poteri 
                  singoli che sommati producono massa con proprietà e potere, 
                  in un alveo di libertà di agire senza scalfire il moloch: 
                  lo stato. Berti invece afferma che il capitalismo è acefalo 
                  ed in ciò sta una sorta di difesa immunitaria della libertà. 
                  Ma se la somma degli individui forma una società anche 
                  di differenti istanze, la somma di teste convergenti su privilegi 
                  personali determina potentati rappresentati dallo stato liberale. 
                  La presunta frammentarietà non indebolisce lo stato americano, 
                  nel riconoscersi in esso si rafforza il potere concentrato 
                  nel privilegio. Così come non è vero il primato 
                  dell'homo capitalista in natura, perché semmai, prima 
                  dello stato, in natura, c'è l'assenza dello stato. L'uomo 
                  non nasce liberale, ma libero e nel divenire liberale si limita 
                  il diritto originario (di natura) non divino né religioso, 
                  ma per nascita. Se è il medioevo “liberale” 
                  la culla del mercato e del capitale e ciò rappresenta 
                  la liberazione dall'oppressione delle monarchie e delle religioni, 
                  c'è un prima libero, che chi ha assunto ruoli 
                  di leader ha sopito e compresso. Berti assegna a Roosevelt ed 
                  al new deal il passaggio dal naturalismo capitalista 
                  all'assistenza foriera di grandi pericoli, che giungeranno. 
                  E prima? E lo sterminio dei nativi e il dominio colonialista? 
                  Lo stato agisce come dominus (liberale o comunista o fascista) 
                  ed è fascista a prescindere, perché autoritario. 
                  La società liberale è permeata di Stato. Reagan 
                  viene qui considerato campione di libertà perché 
                  abbatte il comunismo, e con esso: ospedali, treni, aerei, infrastrutture, 
                  di un intero occidente liberista. Altro tema è quello 
                  del proletariato, che con la new economy, secondo l'autore, 
                  viene spazzato via. Ma se il contadino e l'artigiano (anche 
                  in assenza di operai) con o senza macchine, non elabora e produce 
                  cose, l'economy non sarà né nuova né vecchia, 
                  semplicemente non sarà. Da qui l'ipotesi di una crisi 
                  “presunta dell'anarchismo all'attualità”, 
                  che non è vera. Meno operaia, se mai lo è stata, 
                  è polimorfa, intellettuale, creativa, artistica, e anticipa 
                  senza mai essere o divenire post. L'anarchia è 
                  eccentrica a destra e sinistra, lo dimostrano “il radicamento 
                  diffuso”, trasversale, senza ceti, spesso accomunata da 
                  una sola certezza, il divenire; “una asticella da spostare 
                  non un obiettivo da raggiungere”; parafrasando Berti: 
                  dove lo Stato si dissolva. 
                  È un libro di grande stimolo, solo apparentemente “distante”, 
                  che nell'assestare colpi e allontanare pericoli sempre presenti, 
                  è dichiarazione d'amore per l'anarchia, perché 
                  l'autore vede arrancare e guardare solo indietro. L'anarchia 
                  è assai vitale e rinnovata in luoghi dove troppo spesso 
                  non si scruta: centri sociali, scuole, gruppi e circoli, luoghi 
                  di lavoro, fra artisti e intellettuali, fra cittadini comuni, 
                  questi sì, disgustati e amareggiati da loro passioni 
                  remote o recenti che solo nell'anarchia trovano ideale riferimento 
                  e verso i quali è doveroso guardare. 
                 Alberto Ciampi 
                  San Casciano 
                  Val di Pesa (Fi) 
                   
                  Enzo Jannacci/Dolore e gratitudine del Club Tenco 
                   
                  Premio Tenco già nel 1975; tre volte Targa Tenco per 
                  la più bella canzone dell'anno; una Targa Tenco per il 
                  migliore album in dialetto; cinque partecipazioni alla “Rassegna 
                  della canzone d'autore” all'Ariston di Sanremo: poca cosa, 
                  i riconoscimenti del Club Tenco, in confronto al genio grandioso 
                  che Enzo Jannacci ci ha regalato in oltre mezzo secolo di vitalissima 
                  attività artistica. Gli amici del “Tenco” 
                  lo salutano con tutto il dolore di una perdita così grande 
                  ma anche con la gratitudine di aver sempre ricevuto da lui il 
                  soffio leggero di una poesia spiazzante e infallibile. 
                  La voce di Jannacci era disagio esistenziale, sofferenza, sfogo 
                  del disadattato, ma tutto attraversato dal filtro dell'ironia. 
                  Biascicava frammenti di parole, parlava per cenni, faceva del 
                  linguaggio una marmellata informe di fonemi, ma da tutto questo 
                  affioravano strazianti brandelli di verità. Una scheggia 
                  impazzita che deviava continuamente in digressioni, tic, scatti, 
                  scosse, pause, dissonanze. Una poltiglia di nonsensi e frasi 
                  smozzicate, che macinava faticosamente come se lui per primo 
                  stesse sforzandosi di capire cosa stava dicendo, ma che alla 
                  fine, per folgorazione, si faceva decifrare come in un puzzle 
                  o un gioco enigmistico. Dentro quella voce si poteva nascondere 
                  qualcosa di molto serio, spesso tragico, ma anche dolce e levigato 
                  come il suo volto. Enzo Jannacci sapeva in questo modo “dire” 
                  di più dei tanti parolai che ci tocca ascoltare tutti 
                  i giorni; sapeva esprimersi più e meglio di tutto il 
                  bla-bla quotidiano di cui a suo modo si faceva beffe. 
                  Da tempo il Club Tenco progettava di organizzare una grande 
                  manifestazione in suo onore. Ma l'intenzione, ora perduta, era 
                  di realizzarla con lui in vita. (30 marzo 2013) 
                 info@clubtenco.it 
				 
                 
                
                  
                    Quell'addio 
                        a Lugano 
                         
                        Sul prossimo numero, ricorderemo, come 
                        merita, Enzo Jannacci, morto lo scorso 29 marzo a Milano. 
                        Qui ci limitiamo a pubblicare il comunicato degli amici 
                        del Club Tenco e questi fermo-immagine ripresi da YouTube. 
                        (http://youtu.be/k84G4ODpBsE). 
                        
                        Sopra: in uno studio Rai, negli anni '60, 
                        (da sinistra) Otello Profazio, Giorgio Gaber, Enzo 
                        Jannacci, Lino Toffolo e (di spalle) Silverio Pisu 
                        intonano “Addio Lugano bella”, il più 
                        noto canto anarchico in lingua italiana 
                        
                        Giorgio Gaber e Enzo Jannacci
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                      |    I 
                          nostri fondi neri 
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                           Sottoscrizioni. Andrea Perin (Milano) 30,00; 
                            Alessandra Caselli (Pontassieve – Fi) 30,00; 
                            Giuseppe Galzerano (Casalvelino Scalo – Sa) 
                            35,00; Monica Giorgi (Bellinzona – Svizzera) 
                            135,00; a/m P. Finzi, gli organizzatori della serata 
                            del 16 marzo con presentazione del film “Cronaca 
                            di una strage” (Fino Mornasco – Co) 50,00; 
                            Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia Pastorello 
                            e Alfonso Failla, 500,00; Vincenzo Grossi (Pescara) 
                            100,00; Danilo Vallauri (Dronero – Cn) 20,00; 
                            Daniele Draperis (Santa Croce di Cervasca – 
                            Cn) 10,00; Francesco Tenuta (Milano) 20,00; Pasquale 
                            Palazzo (Cava de' Tirreni - Sa) ricordando Piero Milesi 
                            e Faber, 10,00; Angelo Pizzarotti (Borsano di Calestano 
                            – Pr) 20,00; Giacomo (Milano) ricordando Otello, 
                            10,00; Libreria San Benedetto (Genova) 6,00; Paolina 
                            Perna (Salerno) 20,00; Antonino Pennisi (Acireale 
                            – Ct) 20,00; Pino Cavagnaro (Genova) 20,00; 
                            Teodoro Fuso (Monopoli) “per la nuova veste 
                            grafica di ”A“ rivista, grazie e complimenti”, 
                            10,00; Roberto Minichello (Mirabella Eclano – 
                            Av) 20,00.; Daniele Frattini (San Vittore Olona – 
                            Mi) 10,00; Marco Parisi (Brescia), 40,00; Domenico 
                            Masini (Galliate – No) 10,00; Giovanna Quadri 
                            Gianinazzi (Origlio – Ch) 37,00; Vincenzo Molinari 
                            (Senago – Mi) 10,00; Angelo Roveda (Milano) 
                            50,00; Silvio Sant (Milano) 20,00; Giuseppe Anello 
                            (Roma) 90,00; Pasquale Messina (Milano) “ricordando 
                            mio padre”, 50,00; Katia Cazzola (Milano) 20,00. 
                            Totale € 1.403,00. 
                          Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti 
                            specificato, trattasi di euro 100,00). Gabriella 
                            Fabbri (Colognola ai colli – Vr); Giuseppe Gessa 
                            (Gorgonzola – Mi) 150,00; Laura Monferdini (Genova); 
                            Matteo Gandolfi (Genova); Roberto Pietrella (Roma) 
                            200,00; Alessia e Cristiana Bruni (Castel Bolognese 
                            – Ra) 200,00; Antonella e Simo Colombo (Triuggio 
                            - Mi). Totale € 950,00. 
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