|   Orsetta 
                  Bellani 
                   
                  Quando la 
                  fine verrà 
                   
                La 
                  sicurezza del potere si basa  
                  sulla insicurezza dei cittadini. 
                  Leonardo Sciascia 
                
                   
                     
  | 
                   
                   
                    | 
 Orsetta 
                        Bellani (La Spezia, 1982), 
                        laureata in scienze della comunicazione a Bologna e in 
                        relazioni internazionali a Genova, vive tra La Spezia 
                        e l'America Latina. 
                  Giornalista free-lance, scrive su varie testate italiane,  latinoamericane, 
                  spagnole e statunitensi. 
                  Dal 2011 collabora con la nostra rivista, principalmente con 
                  articoli  e reportage fotografici dall'America Latina. 
                  Questo è il suo primo racconto pubblicato.  | 
                   
                 
                 
                   
                  1. Oggi 
                  Anche stamattina Anna si è svegliata alle 5.29, un minuto 
                  prima che la sveglia suonasse. Si è fatta una doccia 
                  e si è cosparsa di crema solare. Poi è tornata 
                  in camera e ha indossato una maglietta con su scritto “Incontro 
                  oltreumanista dei cittadini della Libertà”, macchiata 
                  da un alone d'olio più o meno al centro. Si è 
                  infilata i jeans, soffermando lo sguardo sullo strappo che li 
                  attraversa all'altezza delle ginocchia. Da ragazzina, all'inizio 
                  degli anni '90, li portava sempre così: lo faceva per 
                  imitare il cantante dei Nirvana e la sua compagna di banco, 
                  che aveva iniziato a portarli prima di lei. Ora, a più 
                  di quarant'anni, i jeans strappati li usa solo per lavorare. 
                  È scesa in cucina, ha ingoiato una Pillola Blu e messo 
                  a scaldare il caffè di zucca. Non si può più 
                  far arrivare nulla da lontano: niente più caffè, 
                  banane, cacao, cotone. Le navi che per cinquecento anni avevano 
                  attraversato l'Atlantico e il Mediterraneo sono ora ferme nei 
                  porti. 
                  Il caffè di caffè in Italia non cresce, e si beve 
                  caffè di zucca. Anna non ricorda il sapore del caffè 
                  vero, quella bevanda nera e forte che aveva accompagnato i risvegli 
                  di quasi tutta la sua vita, e le pare di non aver mai assaporato 
                  altro caffè che quello di zucca. “Caffè 
                  di zucca Torbellina, per iniziare bene la mattina”, dice 
                  la pubblicità alla tv. 
                  Anna si è sdraiata sul tappetino per fare qualche esercizio 
                  per prolungare la vita. Ne ha imparati molti all'ultimo incontro 
                  oltreumanista e la fanno sentire bene. Poi ha preso Il Giornale 
                  d'Italia e si è seduta sul divano, strappando piccoli 
                  e rumorosi sorsi dalla tazza. Sfoglia sempre tutte le quattro 
                  pagine del quotidiano, e poi decide quale articolo leggere. 
                   
                  “Torino. Piove a dirotto e pioverà anche domani”. 
                  “Padova. Tutti pazzi per lo spritz”. 
                  “Genova. Ottimo pesto se si aggiunge un poco di pecorino”. 
                  “Bologna. Virtus vince ancora campionato di basket”. 
                   
                  Bologna. Anna non è più tornata a Bologna da quando 
                  la Fine è passata: il viaggio sarebbe stato troppo lungo, 
                  e poi ora ha da badare ai campi. È fortunata Anna ad 
                  avere i campi, almeno ha da mangiare. 
                  Con Petra all'università dicevano sempre che avrebbero 
                  lasciato la città per aprire un agriturismo. Anna ci 
                  è andata davvero a vivere in campagna, ma senza Petra, 
                  che chissà dov' è finita, e senza turisti. Nessuno 
                  viaggiava più. 
                  Petra. Bologna. Anna ricorda ancora qualcosa, anche se è 
                  difficile scovare quelle immagini lontane nella sua memoria 
                  sterile. È una delle poche persone che riesce ancora 
                  a ricordare qualcosa, a ripescare alcuni frammenti del suo passato, 
                  e ci riesce grazie ai libri, che non ha venduto come hanno fatto 
                  quasi tutte le persone della sua Posizione. In realtà, 
                  sono anni che non legge più niente, ma non ha dimenticato 
                  l'intreccio di quelle storie, il significato di quelle parole. 
                  E un tempo scriveva Anna, da ragazza scriveva moltissimo. Pensava 
                  che scrivere fosse necessario, le sembrava fosse l'unico modo 
                  per tendere verso qualcosa d'altro. Poi aveva smesso: la Fine 
                  era stato un periodo duro e ora che è passata bisogna 
                  badare ai campi, alla casa, alla vita. Ora non ci trova alcun 
                  senso nello scrivere. 
                  Non ricorda se erano racconti, poesie o lettere quelle che scriveva. 
                  Ricorda solo che negli anni dell'università lo faceva 
                  con speranza e poi, quando aveva iniziato a sentire che la Fine 
                  stava per arrivare, scriveva con angoscia che il Liberismo aveva 
                  i giorni contati. 
                   
                  2. Oggi 
                  Petra chiude il libro sulle ginocchia, imprigionando l'indice 
                  tra le pagine per non perdere il segno. Si appoggia lentamente 
                  allo schienale e chiude gli occhi, riflettendo su ciò 
                  che ha letto: 
                   
                  “L'obiettivo della rivoluzione è dissolvere 
                  le relazioni di potere. Quello che non ha funzionato è 
                  l'idea che la rivoluzione significhi prendere il potere per 
                  abolire il potere. L'unico modo in cui si può immaginare 
                  oggi la rivoluzione è come la dissoluzione del potere, 
                  non come la sua conquista1”. 
                   
                  Si alza e va verso la finestra, fermandosi qualche istante davanti 
                  allo specchio, come fa ogni volta che ci passa davanti. Sistema 
                  i capelli dentro l'elastico che li racchiude, lasciando fuori 
                  qualche ciocca perché le cada sul viso e ne copra le 
                  imperfezioni. Poi si mette a posto la canottiera in modo da 
                  farla aderire al bordo del reggiseno e lo nasconda, senza però 
                  coprire completamente i seni che le piace mostrare. Le sembrano 
                  molto belli e non le dispiace se qualcuno ci fa caso. 
                  A Petra è sempre piaciuto curare il suo aspetto, e non 
                  trova in questa esigenza nessun tipo di incoerenza con le sue 
                  idee politiche. Il femminismo è per lei un progetto politico, 
                  una forma nuova di intendere i rapporti familiari, lavorativi 
                  e amicali. Sa che la serenità nel rapporto con se stessa 
                  passa anche per l'estetica: non è mai stata una persona 
                  appariscente ma le piace mostrare una bellezza che necessita 
                  di una certa cura. A volte, ma questo non lo ha mai detto a 
                  nessuno, le capita di farsi bella non per se stessa, ma perché 
                  un uomo la guardi. 
                  Il suo sguardo lascia lo specchio e si rivolge alla finestra 
                  poco più in là. L'ufficio è collocato nel 
                  seminterrato di una vecchia villa liberty e dalla finestrella 
                  al livello della strada si vedono solo il manto di foglie secche 
                  che copre il suolo, e i tronchi ordinati degli alberi del giardino 
                  trascurato e deserto della villa. 
                  Spesso immagina il mondo oltre il muro fitto di alberi e foglie, 
                  la vita di quelle persone che rinchiudono il proprio grido tra 
                  le costole, nascondendolo in un lavoro massacrante. Li stuzzicheranno 
                  finché impareranno a gridare nuovamente. 
                  «Ti stiamo aspettando di là, Petra. Siamo pronti 
                  per la riunione», dice una ragazza affacciandosi dalla 
                  porta. 
                  «Arrivo.» 
                   
                  3. Oggi 
                  Anna getta a terra le forbici con cui sta potando le viti e 
                  corre in casa per rispondere al telefono. Le sembra strano sentirlo 
                  squillare, non la chiama mai nessuno. 
                  «Pronto.» 
                  «Anna?» 
                  «Sì?» 
                  «Sono Petra, ricordi?» 
                  «Sì, certo» dice Anna stupita. 
                  «Ora non posso parlare. Riesci a venire alle 4 sotto il 
                  monumento al Campione di Piazza Vittorio Mangano?» 
                  «Ok.» 
                  Riattacca. Dopo anni di silenzio Petra, ma cosa vuole? Sente 
                  una sensazione forte all'addome, era tempo che non provava nulla 
                  e si deve sedere. Da qualche parte dentro di sé scova 
                  i ricordi di quel tempo che le pare lontanissimo, immagini che 
                  sembrano far parte della vita di qualcun altro. 
                  Non è possibile che fosse lei la ragazza che girava in 
                  bicicletta nella zona universitaria di Bologna, che distribuiva 
                  volantini in Piazza Verdi. Riesce a dare un volto alla voce 
                  di Petra e un luogo: il 36 di Via Zamboni. Era al 36 che andavano 
                  a studiare, mentre le riunioni le facevano a casa di Aldo. Erano 
                  in pochi ma sicuri di raggiungere il loro scopo. Poi erano nate 
                  delle divergenze: Anna voleva costituire un gruppo armato, voleva 
                  farlo fuori il Mercato, eliminarne tutti gli ingranaggi uno 
                  a uno. Petra e gli altri non erano d'accordo, dicevano che la 
                  lotta armata non aveva più senso, che l'avevano sepolta 
                  le Brigate Rosse con l'omicidio di Guido Rossa. Volevano mettere 
                  in crisi il sistema dall'interno. 
                  Anna aveva deciso di lasciare i suoi amici e dopo la laurea 
                  si era trasferita a Milano, dove ottenne un contratto co.co.pro. 
                  Fu lì che iniziò a leggere la Fine dappertutto: 
                  ogni cosa che la circondava, ogni evento in cui si trovava coinvolta, 
                  la portavano a pensare che la Fine fosse inevitabile. La vedeva 
                  ogni mattina in metropolitana, quando si sedeva sulla panchina 
                  fredda ad aspettare il treno, osservando gli annunci pubblicitari 
                  che si susseguivano sul megaschermo. Leggeva la Fine negli occhi 
                  della prostituta che le si sedeva accanto, nei gesti violenti 
                  con cui i vigili sequestravano le borse di Dior taroccate ai 
                  cinesi nel sottopassaggio. Percepiva la Fine nell'entusiasmo 
                  con cui i suoi colleghi passavano le domeniche al centro commerciale. 
                  Sentiva con chiarezza che il Mercato stava cedendo, che tutto 
                  sarebbe crollato. Usciva di casa la notte per scrivere sui muri 
                  che la catastrofe era inevitabile, che ormai non c'era più 
                  modo per rimediare. Così che tutti lo sapessero, che 
                  si preparassero. 
                  Quando poi la Fine arrivò nessuno era abbastanza preparato 
                  per accoglierla, neanche Anna, che la aspettava da tempo. Si 
                  presentò all'improvviso la Fine: l'ultimo giorno di Liberismo 
                  fu per Anna un giorno come un altro. Il giorno dopo, invece, 
                  lo passò guardando attonita il cadavere del Mercato in 
                  Piazza Duomo, davanti alla Rinascente. 
                   
                  4. Oggi 
                  Anna si fa un'altra doccia per lavarsi via la terra e si cosparge 
                  nuovamente di crema solare. Ha la pelle molto chiara e il sole, 
                  i cui raggi ormai non incontrano più ostacoli tra la 
                  sua orbita e la superficie terrestre, batte fortissimo. 
                  In sala il vecchio televisore a colori trasmette il Messaggio 
                  Giornaliero del Campione: 
                   
                  “Cittadini tutti, sono lieto di annunciarvi che il 
                  progetto di sperimentazione riguardante l'impiego di paraumani 
                  nell'agricoltura sta conducendo ad ottimi risultati: gli Amici 
                  della Libertà sono pienamente soddisfatti del lavoro 
                  che questa nuova tecnologia sta portando avanti nelle loro piantagioni. 
                  Oggi è una grande giornata per la nostra democrazia: 
                  oggi affranchiamo l'uomo dai lavori più pesanti e li 
                  affidiamo ad esseri capaci di lavorare senza sosta. Ancora una 
                  volta siamo stati in grado di migliorare le condizioni dell'uomo: 
                  una nuova tappa per il progresso, un nuovo gradino verso la 
                  libertà. Viva la Democrazia! Viva la Libertà! 
                  Viva il Progresso! Viva il Campione!”. 
                   
                  Anna tiene spesso la tv accesa ma non la guarda quasi mai. Lo 
                  faceva anche sua nonna mentre cucinava, quando Anna era piccola: 
                  la tv passava quiz, telenovelas e talk show, ma sua nonna si 
                  riposava dai lavori domestici solo per guardare il Tg4. 
                  Chiude il recinto che delimita la sua proprietà e s'incammina. 
                  Ci vogliono almeno tre ore per arrivare in città a piedi, 
                  ma l'autobus costa troppo. Nessuno della Posizione Media possiede 
                  auto o moto, la bici gliel'hanno rubata e i trasporti collettivi 
                  arrivano a costare fino a 10 soldi a viaggio. 
                  I trasporti collettivi sono una delle maggiori fonti di guadagno 
                  per quelli della Posizione Alta, gli Amici della Libertà. 
                  Possiedono i veicoli e le immense piantagioni in cui coltivano 
                  astrim per far andare i motori. La grande siccità che 
                  è iniziata prima della Fine s'è inghiottita quasi 
                  tutto il sud, ma l'astrim cresce comunque, e chi possiede terreni 
                  abbastanza grandi da renderne redditizia la coltivazione è 
                  diventato ricchissimo. Sono tutti latifondisti quelli della 
                  Posizione Alta, i primi discepoli delle teorie oltreumaniste 
                  del Campione. 
                  La terra è l'unica fonte di ricchezza che è rimasta. 
                  Le fabbriche hanno chiuso e l'Autarchia ha sostituito il Mercato. 
                  Autarchia e autoproduzione, è stata una scelta obbligata: 
                  non si sente parlare di carburanti fossili da più di 
                  dieci anni, e il prezzo dell'astrim per muovere le fabbriche 
                  è così alto che hanno dovuto tutte chiudere. Non 
                  si importa e non si esporta, non si viaggia. 
                   
                  5. Oggi 
                  Anna passeggia con piacere sul cammino di terra battuta che 
                  difficilmente si trova a percorrere. A fianco del sentiero si 
                  snoda la strada asfaltata, lungo la quale gli scheletri delle 
                  industrie si sciolgono lentamente e rilasciano i loro liquidi 
                  fetidi nel terreno. Un tempo dal paese sulla collina si sentiva 
                  il sibilo continuo delle auto e dei tir che correvano sulla 
                  strada, oggi interamente ricoperta di buche. Grazie a quel ricordo, 
                  Anna è in grado di apprezzare il silenzio e la pace che 
                  ora avvolgono la valle. 
                  Alcune nuvole coprono il cielo terso, creando macchie d'ombra 
                  sui campi di astrim dove lavorano instancabilmente i paraumani. 
                  Originati a partire dall'innesto tra genomi umani ed animali, 
                  i paraumani rappresentano una nuova classe di lavoratori, creata 
                  a seconda delle esigenze dell'impresa che ne fa richiesta. Un'invenzione 
                  che rivoluzionerà il mondo. 
                  A pochi metri dall'entrata della città, un corridoio 
                  di sacchi di sabbia obbliga il passaggio verso una torretta 
                  di cemento. All'interno, due militari con il volto coperto da 
                  una maschera nera seguono la linea dell'orizzonte con armi di 
                  lunga gittata. I colleghi ai piedi della torretta nascondono 
                  la fronte umida sotto gli elmetti verdi, imbracciando i fucili 
                  come fossero semplici protesi delle loro tute mimetiche. 
                  «Polso, prego.» 
                  Anna offre il suo polso al militare, che lo passa attraverso 
                  una fotocellula. 
                  «Scopo della visita in città?.» 
                  «Visita di piacere.» 
                  «Chi deve incontrare?» 
                  «Una vecchia amica.» 
                  Il ragazzo, che giocherella con il dito sul grilletto del fucile, 
                  legge su un monitor i dati contenuti sul cheap impiantato nel 
                  polso di Anna. 
                  «Alla sua Libera Credenziale Elettorale manca un timbro 
                  di presenza.» 
                  «Ero gravemente malata» si giustifica estraendo 
                  un certificato medico dalla tasca. «E come può 
                  leggere dal cheap non mi sono persa un Incontro Oltreumanista.» 
                  «Il coprifuoco inizia alle 22, può passare. Viva 
                  il Campione!» dice il militare più giovane dopo 
                  averla ispezionata con uno scanner. 
                  «Viva!» 
                  Da molto tempo Anna non andava in città e la trova più 
                  vuota e spenta dell'ultima volta. In Piazza Vittorio Mangano 
                  c'è una donna davanti al monumento del Campione: ha un 
                  maglione nero con il collo alto e i capelli castani raccolti 
                  in una coda. Lo sguardo è quello di Petra. Anna contrae 
                  i muscoli della schiena, Petra va verso di lei e quando si trovano 
                  a pochi passi le sorride negli occhi. Anna sente le braccia 
                  dell'amica avvolgersi intorno al suo corpo ossuto e stringerlo 
                  forte. La sente ridere per l'emozione, con il mento appoggiato 
                  alle sue spalle, mentre il corpo di Anna s'irrigidisce sempre 
                  più. Prova un senso di fastidio ed inadeguatezza: si 
                  chiede perché sia corsa fin lì e non trova risposta. 
                  «Andiamo» dice Petra con gravità, sciogliendosi 
                  dall'abbraccio. «Intanto ti spiego.» 
                   
                  6. Oggi 
                  La cantina è umida e buia, ma è evidente lo sforzo 
                  che è stato fatto per renderla accogliente. Al centro 
                  un grande tavolo tondo, circondato da sedie con lo schienale 
                  di paglia, riempie tutto lo spazio disponibile. Su una parete 
                  è appesa una caricatura di Francesco Darini, l'uomo che 
                  ha condotto l'opposizione verso la Fine, che non è stato 
                  in grado di proporre un'alternativa all'avanzata del Campione 
                  e trasformare la crisi in opportunità. 
                  Un ragazzo con la barba incolta e i capelli rasati prende la 
                  parola: «Compagne e compagni, siamo qui chiamati a decidere 
                  del nostro futuro. Decidere se continuare a sopportare passivamente 
                  questa dittatura che ci atrofizza il cervello o organizzarci 
                  per prendere il potere e porlo al servizio del popolo. É 
                  una discussione che affrontiamo da tempo, e mi sembra che sia 
                  per tutti ormai chiaro che è arrivato il momento di imbracciare 
                  le armi, distruggere il sistema attuale e crearne uno nuovo 
                  e giusto» disse battendo rumorosamente la mano sul tavolo. 
                  Un brusio di voci e sguardi riempie la stanza, ma s'interrompe 
                  quando Petra si alza, creando un silenzio pieno di aspettative: 
                  «Compagne e compagni, dicevano che la Crisi economica 
                  sarebbe passata come tutte le altre crisi cicliche del capitalismo, 
                  ma così non è stato. Il Liberismo è finito, 
                  generando panico e riportandoci al sistema feudale. Come in 
                  altri momenti della storia la crisi non ha prodotto rivoluzione, 
                  ma fascismo. Invece che condurre ad una riflessione collettiva, 
                  ha segnato la morte di ogni tipo di dibattito. Basta con questo 
                  regime tecnofascista, con queste teorie oltreumaniste che si 
                  fingono a disposizione del benessere umano. Gli Amici della 
                  Libertà sono i soli a beneficiare del progresso scientifico, 
                  dell'allungamento della vita dell'uomo. Noi siamo sempre più 
                  poveri e povere, costrette a lavorare come mule. Ma oggi la 
                  dignità di cui ci hanno private ritrova la sua rabbia. 
                  Non vogliamo paraumani che lavorino i campi, vogliamo che tutti 
                  abbiano il proprio campo. Vogliamo la riforma agraria. È 
                  questo che faremo quando il potere sarà nelle nostre 
                  mani, nelle mani del popolo: riforma agraria. Uomini e donne, 
                  della Posizione Bassa e di quella Media, è arrivato il 
                  tempo della rivoluzione.» 
                  Tutti i presenti si alzano in piedi applaudendo. Petra urla 
                  a gran voce: “Potere al popolo, morte al Campione” 
                  e l'assemblea le fa eco. 
                  Anna è rimasta seduta. Ha voglia di uscire da quella 
                  cantina. Si domanda cosa faccia lì, in quella stanza 
                  invasa da una retorica che appartiene a generazioni passate, 
                  a chilometri di distanza dalla sua casa, dal suo campo, dalle 
                  sue sicurezze. 
                  La realtà così com' è le va bene: ha il 
                  suo terreno che le permette di mantenersi nella Posizione Media 
                  e del resto non le importa. Si perde nei suoi pensieri: tutto 
                  il lavoro che oggi ha tralasciato e che dovrà fare domani, 
                  i panni da lavare nel cesto del bagno, la puntata di “Sospirando” 
                  che si sta perdendo. 
                   
                  7. Oggi 
                  Fuori sta facendo buio. Il vento s'infila dentro la giacca di 
                  Anna, gonfiandole le maniche. Accende una sigaretta e guarda 
                  le colline dietro la città: erano verdi un tempo, ma 
                  ad Anna sembra siano sempre state aride. Ricorda poco di quando, 
                  da ragazzina, saliva fin lassù per guardare il mare. 
                  Si sedeva sulla panchina davanti alla chiesa di Marinasco verso 
                  l'ora del tramonto e osservava in lontananza i pescherecci che 
                  uscivano in mare, le navi cariche di container entrare nel porto, 
                  le nuvole rosse che il buio assorbiva lentamente. 
                  Le piacevano soprattutto le barche a vela, che segnavano la 
                  loro rotta in silenzio. Ora nessuno ha più il coraggio 
                  di uscire con una barca a vela, vista l'incredibile forza che 
                  il mare è capace di scatenare. Ora il mare, sempre disabitato, 
                  non è più un'entità che divide e unisce 
                  le terre, ma una superficie bagnata che abbellisce il paesaggio 
                  e segna l'infinito. 
                  Anna si avvicina a Petra per salutarla. 
                  «Non te ne andare così» dice Petra. «Vieni, 
                  ti offro una birra nel bar qui a fianco. É di un compagno 
                  e possiamo fare due chiacchiere tranquillamente.» 
                  Anna non ha voglia di chiacchierare, ma non riesce a dire di 
                  no. 
                  Il locale è quasi deserto, come sono sempre tutti i bar. 
                  Scelgono il tavolino più isolato e ordinano una birra 
                  chiara. Anna è tesa e impaziente. 
                  «Come hai fatto a trovarmi?» La domanda le gira 
                  in testa da quando ha riagganciato il telefono. 
                  «Ti ho semplicemente cercata. Dove vivi esattamente?.» 
                  «Sulla collina ovest, nella casa che era dei miei. Quando 
                  ero piccola spesso passavamo lì il fine settimana.» 
                  «Ti sei sposata?» 
                  «Sì, ma ora non la sono più» risponde 
                  Anna leggermente imbarazzata. Non ha certo voglia di trattare 
                  questioni personali. 
                  «Che ne pensi della riunione?» chiede finalmente 
                  Petra accarezzando con l'indice il bordo del bicchiere. 
                  «Senti Petra» risponde gonfiando il petto, «io 
                  non so perché mi hai chiamata dopo tanti anni, dopo tutto 
                  quello che è successo. Io non so come sia la tua vita, 
                  ma ti assicuro che la mia va più che bene com'è.» 
                  Petra abbassa lo sguardo un istante, per poi riportarlo con 
                  affetto su Anna. 
                  «Ti ho chiamata perché malgrado quello che è 
                  successo fra di noi non ce l'ho mai avuta con te. Ti conosco 
                  bene e so quanta rabbia ed indignazione puoi provare. Non ci 
                  credo che tu sia soddisfatta della tua vita, solo agli Amici 
                  della Libertà le cose possono andare bene come stanno.» 
                  «Che ne sai tu della mia vita? Io sono felice.» 
                  «Dì un po', prendi delle pillole, vero? Quelle 
                  blu scommetto.» 
                  «Stai esagerando», dice Anna alzando la voce. Fa 
                  per andarsene ma Petra le immobilizza il braccio al tavolo. 
                  «Aspetta Anna. Non essere impulsiva, aspetta.» 
                  Anna si risiede senza capirne il motivo. Fuori il buio ha avvolto 
                  la piazza, illuminata da un'unica e piccola torcia. 
                  «Non lo vedi come ci hanno ridotti? Ci hanno tolto la 
                  dignità, la vita, la capacità di ricordare. È 
                  una dittatura questa, come quella che hanno vissuto i nostri 
                  nonni.» 
                  «Ma che dici?» 
                  «Sì, Anna, è una dittatura postmoderna quella 
                  che viviamo. Lo era già prima della Fine, ma eravamo 
                  troppo ciechi per rendercene conto. Si sono radicati nel potere 
                  così profondamente da diventare essi stessi il potere: 
                  il Campione ha televisioni, giornali, catene di negozi, controlla 
                  le banche. E quelle pillole....» 
                  «Le pillole rappresentano un grande progresso per l'umanità», 
                  la interrompe. 
                  «Pensaci bene. Stanno modificando l'essenza dell'essere 
                  umano, e a loro vantaggio. L'allungamento della vita riguarda 
                  solo loro, noi non avremo mai abbastanza soldi per intervenire 
                  sul nostro cervello ed aumentarne le potenzialità, anche 
                  se esiste la tecnologia. Moriremo di fatica lavorando i campi 
                  e prendendo pillole colorate che ci stabilizzano l'umore e ci 
                  inibiscono il cervello. E questa novità dei paraumani. 
                  Lo chiamano progresso dell'umanità, ma è solo 
                  un modo per sottometterla.» 
                  «A me non interessa, Petra. Anzi, sono contenta che il 
                  Campione si sia fatto Oltreuomo, mi da sicurezza saperlo. È 
                  ora che me ne vada.» 
                  Anna si alza, raccoglie la giacca ed usce senza voltarsi. La 
                  radio passa una vecchia canzone dei Baustelle che dice “Vivere 
                  per sempre, ci vuole coraggio”. Ora sembra una frase 
                  ironica. 
                   
                  8. Oggi 
                  Gabriele ha paura. Ne ha da quando all'ospedale pubblico gli 
                  hanno diagnosticato la malattia, ed è cresciuta con l'inizio 
                  dei vuoti di memoria. 
                  Si siede davanti alla scrivania e accavalla le gambe. L'ambiente 
                  asettico del laboratorio lo mette a disagio e gli sembra strano 
                  vedere un laboratorio così moderno nel seminterrato di 
                  una villa liberty diroccata. È già stato un paio 
                  di volte nel quartier generale, ma non conosce quell'ala dell'edificio. 
                  «Io sono Antonio Parodi. Il mio collega dottor Cozzani 
                  oggi non è potuto venire, è molto dispiaciuto.» 
                  «Sì, mi ha avvisato.» Gabriele è stupito: 
                  Cozzani gli aveva detto che il collega era molto giovane, ma 
                  quel ragazzo avrà avuto sì e no vent'anni. 
                  «Come si sente, compagno?» chiede Antonio Parodi. 
                  «Confuso. Non credo a questa storia dell'influenza che 
                  raccontano, secondo me è una bufala, ma vivo in un stato 
                  di tensione costante. A volte ho dolori fisici insopportabili 
                  che non so a cosa imputare, e quei vuoti di memoria.» 
                  «Mi può spiegare cosa intende con vuoti di memoria?» 
                  «Mi riferisco al passato più recente. Mi mancano 
                  dei giorni.» 
                  «In che senso? Mi può spiegare cosa le è 
                  successo?» 
                  «A fine luglio sono stato in un ospedale pubblico a causa 
                  di una forte bronchite e mi hanno diagnosticato un'influenza 
                  di tipo ovino. Io non gli ho creduto, sono loro le pecore! Lo 
                  so che lo fanno solo per intimorirmi. Sa, io sono stato prigioniero 
                  politico, loro sanno come la penso.» 
                  «Senza dubbio» dice Antonio Parodi annuendo. 
                  «Da agosto in poi iniziano i vuoti di memoria. Mi capita 
                  di non poter ricordare neanche un solo minuto del giorno precedente, 
                  come se non fosse esistito. Questo sì, mi turba molto. 
                  E nello stesso periodo ho pure iniziato a perdere l'appetito, 
                  e tanti chili.» 
                  Antonio Parodi lo guarda attentamente. Ha gli zigomi sporgenti, 
                  e due occhi azzurri e spenti incavati profondamente nel cranio. 
                  La pelle ha il colore del legno di ulivo. 
                  «Non deve temere. Procederemo alle analisi nel modo più 
                  accurato possibile e scopriremo cosa sta succedendo. A lei come 
                  a tutti noi.» 
                   
                  9. Oggi 
                  Appena uscita dalla porta del bar, Anna sente il sollievo dell'aria 
                  fresca pungerle il viso. S'incammina nella sera, che è 
                  riuscita a infilarsi in ogni angolo della città: si è 
                  stesa lentamente sui palazzi, coprendo di buio tutto ciò 
                  che tocca. Poi compaiono le stelle, disordinate come delle briciole 
                  cadute su una tovaglia. 
                  L'illuminazione pubblica da anni è quasi inesistente 
                  e le torce che puntellano le strade sono poche e deboli. Per 
                  un decreto del Campione del 2016, le case devono spegnere le 
                  luci a partire dalle nove di sera. Ora, vista da lontano, la 
                  città di notte non sembra più una campagna piena 
                  di lucciole. 
                  Si può però indovinare ancora il profilo delle 
                  colline che circondano la città e il contorno delle case 
                  vicino al molo, dalla parte opposta. Anna ricorda di quando, 
                  da ragazzina, passava le sere d'estate con le amiche sul lungomare: 
                  si spostavano da una panchina all'altra, cercando di attirare 
                  l'attenzione dei gruppetti di ragazzi che passeggiavano. 
                  Non c'era ancora Petra allora. Era arrivata molto dopo, quando 
                  in Anna la rabbia era talmente forte che durante la lezione 
                  di storia contemporanea le tremavano le mani. Petra, seduta 
                  due file più avanti nell'aula IV di Via Zamboni 38, masticava 
                  in continuazione il cappuccio di una Trattopen. 
                  Anna iniziò una nuova vita con Petra e i suoi amici, 
                  scoprì un mondo dove poter sfogare quel tremolio che 
                  le intrappolava le mani. Ma ora le mani non le tremano più: 
                  il lavoro nei campi le ha rese forti e ruvide. 
                  Anna decide che quel bar sarebbe stato l'ultimo ricordo di Petra. 
                  Si lascia invadere dalla pace della notte deserta, e sente di 
                  lasciare poco a poco dietro sé il pesante ricordo della 
                  discussione. Il nocciolo duro che si ancora creato sotto il 
                  suo sterno si va piano piano sciogliendo. 
                   
                  10. Oggi 
                  Anna riempie la tazza di caffè di zucca ed usce nel cortile 
                  per bagnarsi del tepore del primo mattino. Il sole spunta da 
                  dietro la montagna mangiata dalle cave, e sparpaglia i suoi 
                  raggi in mare. È rimasta solo la cima della Pania a ricordare 
                  di quando la montagna, coi suoi picchi striati di marmo, riempiva 
                  l'orizzonte. Pietra per pietra, lastra di marmo per lastra di 
                  marmo, la montagna ancora andata pian piano assottigliandosi, 
                  e la sua anima bianca e dura si ancora sparsa nei bagni dei 
                  ricchi di tutto il mondo, negli atri, nelle colonne che sorreggono 
                  le loro case. 
                  Anna raccoglie il Giornale d'Italia che trova ogni mattina 
                  davanti al cancello. C'era ancora un unico titolo quella mattina, 
                  a caratteri più grandi del solito: 
                   
                  “Scoperto focolaio di nuova febbre mortale: sarà 
                  presto pandemia”. 
                   
                  L'articolo, che copre tutte le quattro pagine, racconta che 
                  nella provincia di Campobasso una decina di persone sono state 
                  colte da un'improvvisa influenza ed erano morte nel giro di 
                  un paio di giorni. La febbre, spiega l'articolo, sembra essere 
                  di origine ovina e si trasmette con la facilità di una 
                  normale influenza. 
                  Anna chiude il giornale sulle ginocchia e sospira abbandonandosi 
                  contro lo schienale della poltrona. Accende la tv sperando di 
                  essere in tempo per ascoltare il Messaggio Giornaliero del Campione. 
                   
                  “Cittadini tutti, oggi la Nazione si è svegliata 
                  con una terribile notizia. Una notizia che ci riempie di angoscia 
                  e timore: un nuovo e sconosciuto morbo si sta propagando fra 
                  le nostre case. 
                  Gli incredibili progressi a cui la scienza ci ha condotti 
                  negli ultimi anni ci permettono di assicurare una risoluzione 
                  del problema, ma fino a quel giorno è necessario, Cittadini 
                  tutti, che collaboriate con il vostro comportamento al benessere 
                  della Nazione. La rapidità con cui questo virus si propaga 
                  ci ha costretti ad adottare misure drastiche, ma necessarie: 
                  1. Vietato salutare dandosi la mano. 
                  2. Vietato salutare baciandosi, e baciarsi in generale. 
                  3. Obbligo di indossare la mascherina copribocca per strada 
                  e coprirsi il più possibile. 
                  4. Obbligo di lavare le mani ogni mezz'ora. 
                  5. Vietato parlarsi ad una distanza inferiore al metro e 
                  mezzo. 
                  6. Vietato parlare o riunirsi con più di tre persone 
                  alla volta. 
                  Seguiranno specifiche misure per i locali pubblici, riguardanti 
                  la distanza minima a cui sistemare i tavoli, l'orario anticipato 
                  di chiusura e il divieto di trasmettere musica ed organizzare 
                  eventi culturali. 
                  Mantenete la calma Cittadini: il Campione sta lavorando per 
                  la Nazione. Viva la Democrazia! Viva la Libertà! Viva 
                  il Progresso! Viva il Campione!” 
                   
                  Forse un'altra Fine sta arrivando, forse questa malattia porterà 
                  a una vera conclusione, al termine di tutto ciò che di 
                  umano è ancora presente nel mondo. 
                  Anna ha paura: e se la febbre fosse già arrivata in paese, 
                  avesse già contagiato i suoi vicini? Si alza e chiude 
                  la porta con il catenaccio. Così che i muri della sua 
                  casa la proteggano, e non entri neanche un sospiro di quell'aria 
                  infetta. 
                   
                  11. Oggi 
                  È una settimana che Anna non usciva di casa e non ha 
                  nessuna voglia di farlo, ma deve pagare la bolletta dell'acqua 
                  per non rischiare che le taglino il servizio di fornitura. Da 
                  quando luce, gas e acqua sono stati “nazionalizzati nelle 
                  mani degli Amici della Libertà”, i prezzi sono 
                  parecchio aumentati. Ma Anna non si lamenta: la luce c'è 
                  quasi sempre, l'acqua è spesso calda e si sente in un 
                  certo senso parte delle compagnie di gestione dei servizi. “Quello 
                  che è nelle mani degli Amici della Libertà è 
                  anche nelle tue”, dice il manifesto negli uffici pubblici. 
                  Anna passa gli elastici della mascherina dietro le orecchie 
                  per fissarla bene al viso, e isolarsi il più possibile 
                  dall'aria malsana che si respira al di fuori della sua proprietà. 
                  Chiude il cancello, percorre il sentiero di terra battuta e 
                  si avventura nei vicoli del paese, che da quando è stato 
                  proclamato lo stato di pandemia sono quasi deserti. Le ronde 
                  civili picchiettano i manganelli sul palmo della mano, annoiate 
                  per la mancanza di lavoro. 
                  Anna apre la pesante porta dell'ufficio postale e inspira profondamente, 
                  come se si potesse mantenere in apnea per tutto il tempo che 
                  avrebbe passato lì dentro. Non appena rilassa i polmoni 
                  e il suo respiro riprende un ritmo normale, si sente invadere 
                  dell'aria viziata di quel luogo. Le sembra di poter ascoltare 
                  il rumore dei batteri che si muovono, invisibili e minacciosi, 
                  nello spazio che la circonda. Le pare di sentirli penetrare 
                  le strette maglie della mascherina che le copre naso e bocca, 
                  e depositarsi sulle pareti dei suoi organi interni. 
                  Si mette in fila davanti allo sportello e guarda le persone 
                  al suo fianco: non hanno una semplice mascherina copribocca 
                  come la sua, ma maschere che lasciano scoperti solo gli occhi, 
                  e guanti di lattice trasparente che arrivano fino al gomito. 
                  Avverte che ciascuna coppia di occhi che spunta da quelle maschere 
                  di plastica dura e nera la sta osservando con severità. 
                  Un dubbio la colse: e se fosse proprio lei la portatrice di 
                  quel male incurabile? Se quel virus mortale si fosse già 
                  impadronito del suo corpo? 
                  Proprio Anna, che si crede tanto cauta, è in realtà 
                  la meno rispettosa delle misure straordinarie disposte dal Campione. 
                  Pensa che quell'inutile copribocca non impedirà ai germi 
                  presenti nel suo sangue di spargersi nell'ambiente sterilizzato 
                  dell'ufficio postale, ed uccidere tutti con la rapidità 
                  di una fucilata. 
                  Si gira verso il fondo della stanza per scappare dagli sguardi 
                  accusatori. È lì che vede Gabriele, chinato sul 
                  tavolino nel tentativo di compilare un bollettino postale. Esibisce 
                  con arroganza il viso scoperto: gli era sempre piaciuto comportarsi 
                  in modo anticonformista per farsi notare, mostrarsi diverso 
                  dagli altri per urlare al mondo la sua esistenza. 
                  Anna paga velocemente il bollettino e si dirige decisa verso 
                  l'uscita, per tuffarsi finalmente nell'aria aperta che circonda 
                  l'edificio. Spera che Gabriele non si accorga di lei e si possa 
                  così sottrarre ad una conversazione noiosa ed inutile. 
                  Quando muove il primo passo verso la salvezza, sente una mano 
                  grande e calda appoggiarsi sulla sua spalla, e una voce familiare 
                  pronunciare il suo nome. 
                  «Ti vedo proprio bene», le dice Gabriele non appena 
                  Anna si gira verso di lui. 
                  Indossa una camicia di flanella a quadri bianchi e blu. Dalle 
                  maniche rimboccate escono le braccia forti e sicure che tante 
                  volte l'hanno raccolta. Gabriele studia il viso di Anna con 
                  interesse e tenerezza. 
                  «Anche tu mi sembri in forma. Sei dimagrito se non sbaglio.» 
                  «Già. A lavorare tutto il giorno nel campo si fa 
                  una gran fatica. Ora abito nella casa qui a fianco, vieni su 
                  che ti preparo un tè?.» 
                   
                  12. Oggi 
                  «E così sei venuto a vivere in paese», dice 
                  Anna guardandosi attorno. 
                  Gabriele è in piedi al suo fianco, appoggiato al bordo 
                  del tavolo della cucina. «Preferisco non vivere isolato, 
                  mi piace stare in mezzo alla gente. Certo, la mattina per arrivare 
                  fino al campo mi devo svegliare prestissimo.» 
                  «E il lavoro come va?», chiede Anna senza interesse. 
                  «Ora bene, ma ho passato un periodaccio», risponde 
                  Gabriele assumendo improvvisamente un'espressione seria. «Un 
                  giorno mi arriva una lettera degli Amici della Libertà, 
                  con tanto di timbro e tutto il resto: volevano espropriare il 
                  mio terreno per costruire un centro benessere per la Posizione 
                  Alta. Dicevano che si trattava di un esproprio per motivi di 
                  “interesse collettivo”, e la collettività 
                  mi avrebbe indennizzato con mille Soldi. Cosa ci faccio io con 
                  mille Soldi? Ci compro dieci chili di caffè di zucca, 
                  e poi?». 
                  Gabriele si siede davanti ad Anna, dalla parte opposta del tavolo. 
                  Accende una sigaretta ed inizia a molestare la punta incandescente 
                  contro il posacenere. «Mi sono unito agli altri contadini 
                  che avevano ricevuto l'ordine di esproprio: abbiamo manifestato, 
                  bloccato strade, sabotato i camion dell'impresa di costruzione. 
                  É stato duro, Anna: la repressione è stata tagliente 
                  come immaginavamo. Una settimana chiuso in una caserma, torture, 
                  umiliazioni, ma non sono riusciti a togliermi la dignità. 
                  Ogni scarica di energia elettrica che mi ha attraversato il 
                  corpo è servita solo a far crescere la mia rabbia. Quando 
                  mi hanno liberato sono tornato dai miei compagni e ho continuato 
                  a lottare. Alla fine abbiamo vinto.» 
                  Anna lo guarda con compassione. Gabriele le prende le mani fra 
                  le sue: «Ti ho pensato tanto mentre ero in isolamento. 
                  Il pensiero di te mi dava forza.» Si alza dalla sedia 
                  e si china verso di lei. Anna si gira di scatto non appena avverte 
                  i peli della barba incolta di Gabriele pungerle la pelle. 
                  «Che fai? Ci abbiamo messo due anni per lasciarci. Che 
                  senso avrebbe baciarci ora? Non ti voglio più, Gabriele, 
                  non ti amo e non ti desidero» lo pugnala con tono finale. 
                  «Io non so che t'è successo» dice Gabriele 
                  lasciandosi andare sconfitto sulla sedia. «Quando ti ho 
                  conosciuta eri così impulsiva, così passionale. 
                  E non solo a letto: vivevi tutto con passione.» 
                  «Mi è successo che mi sono accorta che non ha senso 
                  vivere la vita sognando di averne un'altra. Si può essere 
                  felici solo accettando ed approfittando di ciò che si 
                  ha di bello.» 
                  «Pillole Blu, vero?» la provoca Gabriele. 
                  «Smettila, per favore. Sembri Petra.» 
                  «Hai visto Petra?» 
                  «Sì, ma non è stato un incontro piacevole. 
                  Ha perso completamente la testa.» 
                  «Petra è una persona lucidissima. É forte 
                  e carismatica, è la persona adatta ad essere il nostro 
                  leader», dice Gabriele alzandosi in piedi. 
                  «E sei sicuro che il tuo leader quando avrà il 
                  potere si comporterà in modo diverso dal Campione? Che 
                  forma di governo avete intenzione d'imporre dopo la vostra rivoluzione? 
                  La dittatura della Posizione Media?» 
                  «Il potere non sarà suo, sarà del popolo. 
                  Petra sarà solo il tramite che permetterà al popolo 
                  di governare. La Posizione Alta non avrà più latifondi 
                  dove incarcerare la Posizione Bassa, l'estensione della proprietà 
                  sarà limitata a quella coltivabile da una persona, non 
                  esisteranno più braccianti, salariati e paraumani. La 
                  terra sarà di chi la lavora.» 
                  «Questa l'ho già sentita più di una volta», 
                  dice Anna senza più nascondere il nervosismo. «Non 
                  avete studiato la storia tu e i tuoi compagni? Continuate a 
                  pensare che tanto potere nelle mani di una persona possa portare 
                  alla giustizia? Siete degli illusi, sei un illuso Gabriele», 
                  urla fissandolo negli occhi, con aria di sfida. «E perché 
                  non usi la mascherina? Pensi che la tua ideologia ti possa difendere 
                  dal virus?» 
                  «Non c'è nessun virus, Anna. È un'invenzione 
                  degli Amici della Libertà per creare il panico. Già 
                  hanno fatto passare leggi contro il diritto di riunione ed altre 
                  libertà civili: hanno fiutato la nostra presenza, la 
                  presenza di un'opposizione che si sta organizzando.» 
                  «Ti rendi conto che ti ostini a negare l'esistenza di 
                  una cosa che ha già ucciso centinaia di persone? Sei 
                  sempre stato pieno di te ma ora...» dice Anna prima di 
                  chiudere la porta dietro di sé e scomparire tra i caruggi 
                  del paese. 
                   
                  13. Oggi 
                  Anna apre le cassette delle verdure ed inizia a sistemare le 
                  zucchine sul banco. Le piaceva disporle parallele fra loro, 
                  facendo in modo che i grandi fiori gialli e arancioni siano 
                  ben visibili ai passanti. I pomodori invece li impila a piramide, 
                  preoccupandosi di nascondere le ammaccature. 
                  Un boato rompe il silenzio che invade il mercato, svuotato dalla 
                  paura dell'influenza ovina. Anna si affaccia dalla colonna che 
                  impedisce la vista della strada: in lontananza si scorge un 
                  mucchio di persone che si avvicina urlando minacciosamente, 
                  sventolando bandiere e impugnando pali di legno. Un carroarmato 
                  passa davanti al banco di Anna, diretto verso il corteo. 
                  In pochi istanti, una nebbia densa e lacrimogena riempie l'aria. 
                  Anna sa di non poter lasciare il suo banco incustodito: quei 
                  pazzi estremisti lo saccheggerebbero. Rimette velocemente la 
                  verdura nelle cassette di legno e le carica sul carretto. Copre 
                  tutto con un telo e inizia a spingere il suo carico, che le 
                  sembra pesantissimo, verso casa. Parcheggia il carretto dentro 
                  la sua proprietà, scosta un poco il telo che lo copre 
                  e trova due occhi grandi e neri che la fissano impauriti. 
                   
                  14. Oggi 
                  Il vento che soffia sul molo è gelido. Dopo una serie 
                  di giornate soffocanti è finalmente piovuto, abbassando 
                  la temperatura ai livelli stagionali. 
                  Petra sorride guardando il berretto di lana blu che Paolo tiene 
                  calato fino agli occhi: sembra un vecchio lupo di mare. È 
                  abituata a vederlo in calzoncini corti, come sa che lo rivedrà 
                  presto: malgrado sia autunno, la temperatura non regge sotto 
                  i venti gradi per più di due giorni consecutivi. 
                  Il sole si sta posando dietro le colline alle loro spalle, striando 
                  di rosa le nuvole setose. I lampioni che costeggiano il molo 
                  sono ancora lì, malgrado non funzionino da decenni. In 
                  pochi minuti arriverà il buio. 
                  C'è silenzio sulla banchina, e tutto sembra essersi fermato 
                  a prima della Fine, quando era un via vai di pescherecci, containers 
                  e pilotine. I containers, svuotati dalle razzie nel periodo 
                  del Caos, macchiano di ruggine buona parte del golfo, nella 
                  zona dove una volta c'era il porto mercantile. Ora era fermo 
                  il porto, fermi i containers, fermi i pescherecci attraccati 
                  alla banchina. Ma sono ancora lì, disposti in fila uno 
                  accanto all'altro, con le boe e i palloni per pescare i tonni 
                  appesi ai lati, e le reti marce accatastate sul pontile. 
                  Petra e Paolo si fermano di fronte al peschereccio Michelangelo, 
                  guardandosi attorno per assicurarsi di non essere stati seguiti. 
                  Non c'è nessuno sulla banchina del molo, attraversata 
                  solo dal sibilo del vento. 
                  Paolo salta sul ponte di Michelangelo e tende una mano a Petra 
                  per aiutarla a salire. La accompagna sotto coperta, dove l'odore 
                  nauseante della nafta si mischia con un forte tanfo di pesce. 
                  Sul fondo della cabina Paolo scosta un telo che copre un cumulo: 
                  «Con questo arsenale facciamo bum.» 
                  Petra sorride soddisfatta. 
                   
                  15. Oggi 
                  Il camino ci mette un po' ad accendersi: non viene utilizzato 
                  da mesi e la legna della cantina è molto umida. Anna 
                  offre una tisana calda al ragazzo che continua a tremare. 
                  «Non penso che ci sia bisogno di chiederti cosa ci facessi 
                  nascosto nel mio carretto.» 
                  Il ragazzo la guardò di sottecchi mentre beveva dalla 
                  tazza, e accennò un sorriso. 
                  «Come ti chiami?» continuò Anna, studiando 
                  l'imbarazzo che lui cercava di camuffare. Doveva avere poco 
                  più di venti anni. 
                  «Antonio.» 
                  «Sei stato fortunato, ho visto uno dei tuoi compagni con 
                  la testa spaccata in due.» 
                  «Mi denuncerai?», chiese. 
                  «Non preoccuparti. Non vedo il motivo di quello che state 
                  facendo, ma non sono una spia.» 
                  «Puoi accendere la tv? Probabilmente il Campione sta lanciando 
                  uno dei suoi messaggi.» 
                  «Infatti, eccolo», disse Anna fissando lo schermo 
                  con un interesse che non la muoveva da tempo. 
                   
                  “Cittadini tutti, è con profonda preoccupazione 
                  che vi informo dei fatti avvenuti quest'oggi. Un gruppo di fanatici 
                  ha assaltato i nostri militari, mentre svolgevano pacificamente 
                  il loro lavoro di routine. Gli estremisti si sono serviti di 
                  metodi violenti, e devono essere considerati come individui 
                  altamente pericolosi. Non costituiscono un pericolo per la solidità 
                  della nostra Democrazia, ma invito ad ogni modo tutta la Nazione 
                  a prendere le dovute precauzioni nei confronti di questi gruppi 
                  terroristi, e ad informare tempestivamente le autorità 
                  nel caso in cui veniate a conoscenza di particolari utili all'identificazione 
                  dei facinorosi. La nostra sicurezza, già minacciata dalla 
                  terribile influenza ovina, è sempre più in pericolo. 
                  Invito quindi la Nazione tutta a mantenersi all'erta e al 
                  sicuro nelle proprie case, fino a quando l'emergenza non sarà 
                  rientrata. Viva la Democrazia! Viva la Libertà! Viva 
                  il Progresso! Viva il Campione!” 
                   
                  Anna, normalmente molto sensibile ai messaggi allarmisti del 
                  Campione, si sentì per la prima volta in dubbio: che 
                  quel ragazzo dallo sguardo triste fosse un terrorista le pareva 
                  davvero strano. 
                  Antonio si alzò ed iniziò a camminare per la stanza. 
                  «Gli credi?» 
                  Anna tacque imbarazzata. 
                   
                  16. Oggi 
                  Anna apre delicatamente la porta della sala, va verso l'angolo 
                  cottura e mette il caffè di zucca sul fuoco, cercando 
                  di non fare rumore. Riempie la tazza e si avvicina al divano, 
                  il cui pensiero dalla sera precedente esercita su di lei un'attrazione 
                  incontenibile. L'idea di quel divano l'ha tenuta sveglia a lungo 
                  la sera precedente, e l'ha tirata giù dal letto appena 
                  mattino: l'inquietudine che causa in lei quel corpo snello ed 
                  abbronzato è un pizzicorio che non la stuzzica da tempo. 
                  S'incanta guardando Antonio dormire supino. Osserva la linea 
                  del taglio dei capelli, che forma un triangolo sulla nuca liscia, 
                  e si sofferma sulle braccia asciutte che avvolgono il cuscino. 
                  Cerca poi di indovinare la forma delle natiche del ragazzo, 
                  nascoste dal lenzuolo che Anna gli ha disteso addosso. 
                  Antonio apre gli occhi, guarda Anna, le sorride e rituffa la 
                  testa nel cuscino. Anna pensa a Petra, che spesso faceva quello 
                  stesso gesto. Ricorda il corpo nudo dell'amica disteso sul letto 
                  di casa sua, a Bologna: Anna aveva dimenticato quello che ora, 
                  improvvisamente, le torna alla memoria con tanta nitidezza. 
                  Le sembra di poter sentire il profumo della pelle di lei, il 
                  calore di quell'intimità. Petra che le parlava a pochi 
                  millimetri di distanza, accarezzandole il viso, prima di scoppiare 
                  a ridere nascondendo la faccia nel cuscino. 
                  Anna accarezza timidamente i capelli di Antonio, che si volta 
                  per guardarla. Si riempie improvvisamente di una gioia che aveva 
                  dimenticato, le ginocchia le tremano e le cosce si bagnano di 
                  un calore insopportabile. Si alza di scatto e stringe la tazza 
                  che tiene tra le mani. 
                  «Vuoi un caffè?» chiede Anna allontanandosi 
                  verso i fornelli. 
                  «Sì, grazie. Dopo me ne andrò.» 
                  «Dove pensi di andare?.» 
                  «Non lo so.» 
                  «Mi sembra troppo pericoloso andartene di qui.» 
                  «Sì, ma non voglio metterti in mezzo. Non sei neanche 
                  nella resistenza», dice Antonio sorseggiando il caffè. 
                  «Sai che succede a chi nasconde dissidenti politici?» 
                  «Puoi fermarti fin che vuoi, qui sei al sicuro.» 
                   
                  17. Ieri 
                  Milano accolse Anna in un giorno nebbioso. 
                  “Alla fine il cielo non è peggiore di quello di 
                  Bologna”, pensò scendendo dal treno. Si diresse 
                  lentamente verso la metropolitana, scavalcata dalla gente che 
                  le correva affianco, caricandola d'ansia. 
                  Il manifesto pubblicitario di una compagnia telefonica assicurava 
                  che i suoi cellulari sarebbero resistiti all'imminente fine 
                  del mondo, che la profezia maya collocava il 12 dicembre 2012. 
                  Il manifesto mostrava un telefono mobile che s'innalzava in 
                  volo sulla piramide maya di Chichen Itzá, ed Anna sorrise 
                  pensando ad Aldo, che davvero credeva in quella profezia. 
                  Salì sulla metro gialla e poi sulla rossa, che la portò 
                  fino a Bande Nere. Uscì dalla stazione della metropolitana 
                  e si avviò lungo il viale, per raggiungere la casa che 
                  le aveva lasciato Margherita. 
                  Entrò in un supermercato e cercò il banco frigo. 
                  Vide i petti di pollo: erano grassi e lisci, disossati, sciacquati 
                  e confezionati quasi sottovuoto, schiacciati tra un vassoio 
                  di polistirolo e un velo di plastica. Lasciò il pollo 
                  nel frigo e comprò un pacco di pasta, una birra e una 
                  cucchiaiata di pesto al banco gastronomia. Pagò la spesa 
                  e cercò l'appartamento di Margherita. Era stata davvero 
                  gentile, una buona compagna: con i suoi risparmi Anna non avrebbe 
                  mai potuto pagarsi un affitto. Doveva trovarsi un lavoro al 
                  più presto. 
                  Appoggiò le borse sul tavolo e si sedette sul divano, 
                  ma non riusciva a liberarsi dall'inquietudine che aveva trovato 
                  in metropolitana. Si alzò e andò verso la finestra 
                  del salotto: giù in strada la gente correva sul marciapiede 
                  e le macchine s'impilavano una dietro l'altra davanti al semaforo. 
                  Cercò un senso a quello che vedeva, mentre la sua inquietudine 
                  continuava a crescere. 
                  Aprì la birra e mise su l'acqua per la pasta. Qualcosa 
                  dentro la logorava e le toglieva l'aria. 
                   
                  18. Oggi 
                  «Quanta frutta! Che c'è, hai ospiti?» 
                  La signora Bonanni guarda Anna dal balcone della casa affianco. 
                  A differenza della maggior parte della gente che fa delle vite 
                  altrui il principale argomento di conversazione, la signora 
                  Bonanni non ama abbellire i suoi racconti con episodi o particolari 
                  di fantasia, e si attiene ai fatti nudi e crudi. Anna non l'ha 
                  mai potuta sopportare: non regge i suoi commenti e i doppi sensi. 
                  Quella donna maligna adora sottolineare, appena ne ha l'occasione, 
                  la solitudine che copre la vita di Anna. Non sa che in realtà 
                  Anna non si sente per niente sola: ci si sente soli quando si 
                  avverte la necessità di stare con gli altri, cosa che 
                  a lei non succede mai. 
                  Anna gela con lo sguardo la vecchia che la provoca dal balcone, 
                  tira le cassette della frutta dentro la sua Proprietà 
                  ed entra in casa. Sceglie le arance più grandi e rosse 
                  e ne schiaccia la polpa sullo spremiagrumi, mentre Antonio sistema 
                  la legna nella cesta vicino al camino. 
                  «Conosci Gabriele?», chiede Anna mentre versa il 
                  succo d'arancia nei bicchieri. 
                  «Il compagno alto con la barbetta?» 
                  «Sì.» 
                  «Lo conosco. È morto la settimana scorsa: influenza 
                  ovina, dicono.» 
                  «Santo cielo», dice Anna lasciandosi andare sulla 
                  poltrona. Un dolore tagliente la colma, un dito premuto forte 
                  la bocca dello stomaco. Da quando ha rincontrato Gabriele non 
                  riesce, per quanto ci provi, a liberarsi del suo pensiero. Molti 
                  ricordi assopiti si sono fatti vivi, a volte le sembra di poter 
                  ricordare nitidamente intere giornate e le sensazioni che le 
                  avevano accompagnate. 
                  «Lo conoscevi bene?», chiede Antonio dando l'ultima 
                  sorsata al succo d'arancia. 
                  «Siamo stati sposati.» 
                  «Ah, davvero?», esclama stupito. Si fa improvvisamente 
                  serio. 
                  «Non stavamo più insieme da molto tempo. E così 
                  l'ha ucciso l'influenza ovina: e pensare che sosteneva che fosse 
                  una menzogna degli Amici della Libertà.» 
                  «E aveva ragione», esclama Antonio con rabbia. «Non 
                  è stato ucciso dall'influenza, ma dagli Amici della Libertà. 
                  Ho documenti che dimostrano cose che neanche ti immagini.» 
                  «Cose di che tipo?», chiede Anna perplessa. 
                  «Lascia perdere.» 
                  «Stai parlando del mio ex marito e della vita di tutti. 
                  Non puoi fare un'affermazione del genere e poi lasciarla cadere.» 
                  «Ne parleremo un'altra volta», dice Antonio chiudendo. 
                   
                  19. Oggi 
                  Anna sfila i vestiti e si mette davanti allo specchio, spazzolandosi 
                  i capelli. È un'abitudine che le ha lasciato sua nonna, 
                  che lo faceva tutte le sere in estate, quando Anna era bambina. 
                  Prima di andare a dormire si sedeva davanti alla specchiera, 
                  sorseggiando una tazza di camomilla e miele, mentre la nonna 
                  le spazzolava lentamente i capelli. 
                  Non ricorda sua nonna, ha dimenticato la sua infanzia. Come 
                  si può ricordare qualcosa successo quarant'anni prima? 
                  Esistono in realtà nella sua testa frammenti d'immagini 
                  lontane, ma non sa a quale epoca appartengano, e non è 
                  neppure in grado di capire se erano ricordi veri o ricostruzioni 
                  mentali di episodi che i suoi le hanno raccontato. 
                  Ad Anna piace guardarsi allo specchio, malgrado non sia per 
                  nulla vanitosa: non trova alcuna bellezza nelle sue forme e 
                  non le interessa sentirsi attraente o esserlo per qualcun altro. 
                  Si diverte però a giocare con le espressioni del viso: 
                  allarga le labbra, spalanca gli occhi, gonfia le guance. 
                  A volte si avvicina a pochi centimetri dal vetro e, individuata 
                  una ruga, ne segue il percorso fino alla fine. La prima volta 
                  che ne ha scoperta una, pochi anni prima, l'ha accolta con gioia. 
                  Le piacciono le rughe: senza quei piccoli solchi che le attraversano 
                  il viso potrebbe sembrare una quindicenne. D'estate, quando 
                  il lavoro nei campi le annerisce la pelle fino a renderla ardente, 
                  le rughe si trasformano in sottili sentieri bianchi che le corrono 
                  sulla fronte. 
                  Anna si mette sotto le coperte e spenge la candela. Dopo pochi 
                  istanti sente dei passi leggeri attraversare la stanza, e il 
                  letto abbassarsi sotto un nuovo peso. Una mano afferrare la 
                  sua e delle labbra umide baciarle il collo. L'odore di Antonio 
                  le riempie le narici e le sembra abbracciare tutta la stanza. 
                  Le sfila la maglia e dopo pochi istanti è dentro di lei. 
                   
                  20. Ieri 
                  «Anche tu qui.» 
                  Anna si voltò e si accorse di un tipo biondiccio seduto 
                  di fianco a lei. 
                  «Già», disse guardandolo con aria interrogativa. 
                  «Non hai capito chi sono, vero? Abito davanti al tuo palazzo, 
                  ti ho vista un paio di volte al supermercato. Ma è la 
                  prima volta che ti vedo all'ufficio del lavoro», disse 
                  il ragazzo, sfoggiando un sorriso simpatico e due occhi di un 
                  azzurro intenso. 
                  «È che vivo a Milano da poco tempo.» 
                  «Benvenuta in lista d'attesa allora! Io sono Gabriele: 
                  ingegnere, baby sitter, lavapiatti, volantinatore e imbianchino.» 
                  Anna sorrise. 
                  «C'è poco da ridere!», l'ammonì lui 
                  ridendo. 
                  «Io sono Anna: architetta disposta a qualsiasi lavoro 
                  per tirare su due soldi.» 
                  «Stai tranquilla, arriveranno tempi migliori», disse 
                  Gabriele afferrando saldamente la mano che Anna gli stava porgendo, 
                  scrollandola un poco. 
                  «Magari no. Questa crisi potrebbe essere l'inizio della 
                  catastrofe, non ci avevi mai pensato?» 
                  «No, non ci avevo mai pensato, cerco di essere ottimista. 
                  Se penso che le cose possano andare ancora peggio entro in depressione, 
                  e già ora ci sono vicino. Sai che? Una birra potrebbe 
                  risollevarmi di morale. Che dici se te ne offro una quando usciamo 
                  di qui?» 
                   
                  21. Oggi 
                  Il ciliegio è già carico di frutti. “E siamo 
                  solo in ottobre”, pensa Anna chiedendosi se potrebbe iniziare 
                  a coltivare manghi. 
                  La notte con Antonio le ruba i pensieri e la porta lontano. 
                  Mentre lavora, con la schiena curva sui campi, spostando sacchi 
                  o cassette, la mente è sempre altrove. Non ha bisogno 
                  che stia dove il suo corpo, che s'impegni sul lavoro. Può 
                  vagare liberamente sulle colline a volo d'uccello, immaginando 
                  la forma del mondo oltre la sua Proprietà, o cercare 
                  di infilarsi nelle sue viscere, tentando di dipanare la matassa 
                  dei suoi pensieri, quando sono confusi e densi. A volte cerca, 
                  soprattutto quando fa il lavoro con piacere, godendo della bellezza 
                  della campagna che la circonda, di ripercorrere il passato, 
                  strappando dei frammenti di ricordi che la aiutino a ricostruire 
                  la sua storia. Ma è un'operazione molto faticosa, e presto 
                  abbandona il tentativo. 
                  È sicura che ad ogni modo, per quanto il suo lavoro sia 
                  pesante, è sicuramente migliore di quello di suo padre: 
                  i campi che Anna coltiva sono suoi, e può decidere cosa 
                  coltivare e come farlo. È lei a preparare la terra, lei 
                  a seminare e raccogliere, senza schiavi della Posizione Bassa 
                  o paraumani. 
                  Suo papà aveva trascorso la maggior parte della sua vita 
                  infilando, per otto ore al giorno, una rondella attorno ad un 
                  tubo di alluminio. Costruivano macchine che venivano utilizzate 
                  per costruire automobili, anche se negli ultimi anni suo padre 
                  aveva iniziato a dire che forse in realtà con quelle 
                  macchine ci facevano le gru del porto. 
                  Anna getta l'ultimo sacco di mais sul mucchio, si asciuga il 
                  sudore con la manica e un sorriso le si apre sul viso quando 
                  pensa ad Antonio, che la aspetta a casa. Ha paura che sia già 
                  riuscito a rintracciare i suoi compagni e che se ne vada per 
                  raggiungerli, è sicura che la lascerà. 
                  Si pulisce rumorosamente gli stivali sporchi di fango sullo 
                  zerbino, apre la porta di casa e rimane pietrificata. Il corpo 
                  di Antonio giace a terra in una pozza di sangue. La pelle del 
                  viso, strappata dalla faccia, è al suo fianco adagiata 
                  sul tavolino di un microscopio. Anna esce dalla stanza, appoggia 
                  la testa al muro e vomita. Fa pochi passi e si lascia cadere 
                  a terra, dove rimane un lunghissimo istante. Si rialza ed entra 
                  nella sala dove c'è il telefono. 
                  «Pronto» 
                  «Sono Anna, ho bisogno di vederti subito.» 
                   
                  22. Oggi 
                  Il cielo torbido minaccia di esplodere da un momento all'altro 
                  le gocce che si nascondono nelle nuvole. Ma è un'illusione: 
                  per quanto si possa gonfiare, la pioggia resta intrappolata 
                  in cielo e di rado cade sulla terra rossa e bruciata dal sole. 
                  L'autunno porta pomeriggi afosi, in cui il calore rimane chiuso 
                  sotto la coperta di nubi, cristallizzandosi in un'umidità 
                  appiccicosa che copre tutto ciò che tocca. La mascherina 
                  antinfluenza imprigiona il fiato caldo intorno alla bocca di 
                  Anna, e il sudore che cola dalla fronte le appesantisce le ciglia 
                  e annebbia la vista. 
                  Il paesaggio è era un monotono susseguirsi di campi aridi, 
                  in cui il sole ha creato lunghe ferite tra le zolle di terra, 
                  prive di vita e speranza. Un tempo, prima che l'utilizzo dei 
                  prodotti chimici e dei semi transgenici rendessero la terra 
                  incoltivabile, la regione era macchiata da rettangoli geometrici 
                  e colorati: grano, mais, pomodori, viti ed uliveti. Adesso solo 
                  più lontano, verso nord, si scorgono terreni coltivati, 
                  sopravvissuti alla terza rivoluzione verde e ancora produttivi. 
                  Anna cammina lenta e piena di pensieri, apprezzando lo spirito 
                  ecologista del padre che, non avendo mai utilizzato prodotti 
                  chimici per coltivare le terre della sua Proprietà, le 
                  ha lasciato una speranza di futuro. 
                  Scorge in lontananza una camionetta verde e l'elmetto di un 
                  militare: si sente arrivare il cuore fino in gola, ma le chidono 
                  solo la Libera Credenziale Elettorale senza fare domande. Ricorda 
                  che da ragazza aveva spesso provato quella sensazione, quando 
                  faceva delle azioni con i suoi compagni. Le viene in mente una 
                  volta in cui, dopo uno scontro con la polizia, nascosta sotto 
                  una macchina parcheggiata, sentiva i poliziotti girarle accanto 
                  e picchiettare con i manganelli i palmi delle mani. Ricorda 
                  la sensazione del passamontagna di lana che il sudore le appiccicava 
                  al viso: a quei tempi quello che sta facendo ora non le avrebbe 
                  causato alcun brivido. 
                   
                  23. Ieri 
                  Anastasia galleggiava flaccida guardando Portofino. Le piaceva 
                  ondeggiare al largo del molo del paese, mostrando le sue forme 
                  rotonde e sensuali. Tutti la guardavano, la ammiravano, la desideravano. 
                  I ricchi radical chic, scesi dalle loro barche a vela per fare 
                  shopping nel piccolo centro abitato, per abbuffarsi di pesce 
                  o prendere un aperitivo nei localini disposti a semicerchio 
                  attorno al porticciolo, la guardavano pieni d'invidia. Anastasia 
                  era bella, sapeva di esserlo, e tutti la volevano. 
                  Anna salì sull'interregionale 511 per Santa Margherita 
                  Ligure alle 7.50. Il viaggio sarebbe durato circa un'ora, e 
                  ne approfittò per leggere: 
                   
                  “In principio è il grido. Noi gridiamo. Il punto 
                  di partenza della riflessione teorica è l'opposizione, 
                  la negatività, la lotta. Il pensiero nasce dalla rabbia, 
                  non dalla calma della ragione2.” 
                   
                  A volte allontanava lo sguardo dal libro e scrutava il paesaggio 
                  oltre il vetro sporco del treno: gallerie che scoprivano borghi 
                  di colori, case in bilico sulle scogliere da cui s'affacciavano 
                  i pini marittimi. Anna guardava la sua terra e pensava a quanto 
                  fosse bella e radiosa. 
                  Arrivata alla stazione di Santa Margherita Ligure, scese la 
                  scalinata e si trovò nella piazzetta del paese. Ferrari, 
                  Porche, Maserati, Bmw coupé d'epoca: il parcheggio ne 
                  era pieno. Pensò alla vecchia Punto dei suoi, che la 
                  immaginavano a Bologna, impegnata a preparare la discussione 
                  della tesi. Non potevano certo sospettare che Anna stesse preparando 
                  ben altro. 
                  Imboccò la strada per Portofino che costeggiava la scogliera: 
                  in un'ora circa sarebbe arrivata. Decise di godersi la bella 
                  passeggiata, rinfrescata dal vento che portava il mare, cercando 
                  di scacciare la tensione che passo dopo passo cresceva sempre 
                  più. Osservava la gente andare in spiaggia, con la borsa 
                  di paglia e le scarpe da scoglio in plastica, e si chiedeva 
                  come facessero a convivere con la ricchezza e l'ostentazione 
                  che si respiravano dappertutto, con quelle macchine, quelle 
                  barche, quelle ville di lusso. Come facessero a non gridare. 
                  Paolo la stava aspettando un centinaio di metri prima di Portofino. 
                  Era abbronzato ed aveva un sorriso irresistibile stampato sul 
                  volto. Era attraente e ad Anna era sempre piaciuto: la intrigava 
                  il modo in cui scherzava per sedurla e si divertiva a flirtare 
                  con lui. Le piaceva giocare con gli uomini, anche se in realtà 
                  era piuttosto selettiva nella scelta dei suoi partner sessuali. 
                  Ad ogni modo, Paolo l'avrebbe senz'altro selezionato. Petra 
                  non sarebbe stata contenta, ma non ne avrebbe nemmeno fatto 
                  un dramma; quello che Anna stava per fare - quello sì 
                  - avrebbe sicuramente causato lunghe discussioni con Petra. 
                  Paolo accompagnò Anna attraverso una scalinata intagliata 
                  tra le case del paese, fino ad un piccolo molo nascosto dalla 
                  vegetazione. 
                  «Ecco qui il mio piccolo gioiellino», le disse soddisfatto. 
                  «Non devi far altro che spostare questa levetta.» 
                  Anna si mise muta, maschera e pinne. Si chiuse la cintura con 
                  la zavorra attorno alla vita e Paolo l'aiutò a sistemarsi 
                  il giubbetto equilibratore con appesa la bombola. Prese tra 
                  i denti l'erogatore e si lasciò andare giù dal 
                  bordo del moletto: in pochi istanti si trovò sul fondale 
                  limpido di Portofino, sorvolò la posidonia e si fece 
                  spazio tra i saraghi e le donzelle di mare. Sott'acqua, dove 
                  il mondo appare fermo e muto, il suo respiro che usciva pesante 
                  dall'erogatore sembrava essere l'unico suono. 
                  Dopo pochi minuti, Anna si trovò sotto la pancia grassa 
                  di Anastasia. Varata alle Isole Cayman, era uno yacht privato 
                  di settantacinque metri di opulenza: suite di lusso, jacuzzi, 
                  palestre e una discoteca. Anna s'infilò nel ventre cavo 
                  e aperto di Anastasia, nascondendosi tra gli aquascooter, i 
                  windsurf e i motoscafi che ospitava. Fece tutto ciò che 
                  Paolo le aveva detto e lo raggiunse poi sul moletto, dove l'aiutò 
                  a sfilarsi velocemente l'attrezzatura. 
                  Salutò il compagno e s'incamminò verso la stazione 
                  di Santa Margherita. A metà strada, mentre osservava 
                  l'acqua cristallina della baia di Paraggi, sentì il botto: 
                  era Anastasia che esplodeva la sua grassa ingordigia. Un'esplosione 
                  compatta segnò la sua morte, sminuzzando il suo ricco 
                  corpo in migliaia di piccoli ed inutili pezzi. 
                  Le auto si fermarono, i passanti si affacciarono dal corrimano 
                  guardando verso Portofino, cercando di capire cosa avesse causato 
                  quel rombo e quella nube grigia che si stava alzando dal mare. 
                  Anna proseguiva la sua passeggiata tranquilla, gridando dentro 
                  di sé tutta la sua soddisfazione: nessuno avrebbe più 
                  desiderato quell'inutile yacht. Guardò il castelletto 
                  che aveva davanti, sul promontorio della baia di Paraggi, con 
                  la stessa rabbia che le aveva causato la vista di Anastasia. 
                  Non sapeva che era una delle tante tenute estive dell'uomo che 
                  decenni dopo si sarebbe fatto chiamare Campione. 
                   
                  24. Oggi 
                  Un centinaio di metri prima del secondo posto di blocco militare, 
                  Anna imbocca un sentiero: è malmesso ed accompagnato 
                  da un tratto di ferrovia a cui è stata rubata una fila 
                  di binari. Cammina per circa un chilometro e trova il grande 
                  pioppo, sotto il quale un uomo con un fucile a tracolla le fa 
                  un cenno con la testa, indicando un cavallo. 
                  «Mi spiace ma dovrà portare questo per tutto il 
                  tragitto, motivi di sicurezza», le dice l'uomo estraendo 
                  un cappuccio nero da una borsa. Anna ci suda dentro e, mentre 
                  il cavallo si avvia al trotto, ripensa alla sensazione del passamontagna. 
                  Dopo un tempo che le pare infinito il cavallo si ferma, l'uomo 
                  l'aiuta a scendere e la libera dal cappuccio. 
                  Si trova di fronte ad una villa in stile liberty, evidentemente 
                  abbandonata da tempo: i rovi hanno inghiottito completamente 
                  l'ala destra e l'intonaco cade a pezzi. L'uomo la conduce fino 
                  a una piccola entrata sul lato sinistro della villa. 
                  «Ti stavo aspettando», dice Petra aprendo la porta 
                  di legno. Indossa una canottiera viola e una gonna lunga indiana, 
                  di quelle che portavano da ragazze. Una pinza arancione le fissa 
                  i capelli, che le cadono sulle spalle in piccole ciocche. “Non 
                  ha certo l'aria di una guerrigliera”, pensa Anna. 
                  Camminano attraverso un breve corridoio umido ed arrivano in 
                  quella che doveva essere stata la cantina della villa. Attraversano 
                  velocemente la stanza, dove un gruppetto di persone discute 
                  animatamente, e ad Anna cadono gli occhi sul tavolo centrale 
                  pieno di armi. 
                  Arrivano finalmente in una piccola stanza, dove è stato 
                  installato l'ufficio di Petra. Il muro è tappezzato di 
                  mappe piene di segni e la stanza arredata con un tavolo, una 
                  sedia, alcuni sgabelli e – cosa che Anna non vedeva da 
                  molto tempo – un computer. “Come è potuto 
                  sopravvivere alla Fine?”, si chiede Anna mentre si siede 
                  al tavolo di fronte all'amica. 
                  «Che è successo? Mi sei sembrata molto spaventata 
                  al telefono», dice Petra rompendo il ghiaccio. 
                  Anna prende il coraggio ed inizia: «Mi rendo conto che 
                  nella posizione in cui siamo può sembrare strano che 
                  ti cerchi per questioni personali. Ma davvero mi trovo in una 
                  situazione... non sapevo a chi rivolgermi.» 
                  «Non ti preoccupare, hai fatto bene a chiamarmi. Cosa 
                  credi, che farei venire chiunque nel nostro quartier generale?», 
                  dice Petra, immaginando che Anna non abbia molte persone da 
                  chiamare in caso di bisogno. 
                  Guarda Anna senza espressione, posa i gomiti sul tavolo e appoggia 
                  una mano sull'altra: «Quello che voglio dire è 
                  che puoi parlare liberamente, non m'importa se l'ultima volta 
                  che ci siamo viste c'è stata tensione fra noi. Se vuoi 
                  che ti aiuti non puoi far altro che fidarti di me, rilassati 
                  e raccontami cosa ti è successo: dall'espressione che 
                  hai sembri averne bisogno.» 
                  Anna si alza e si mette a camminare per la stanza: le tremano 
                  le gambe e ha bisogno di muoverle. Sa che Petra ha ragione. 
                  «Quando vi siete scontrati con i militari al mercato ero 
                  lì col mio banco. Arrivata a casa, trovo un ragazzo nascosto 
                  sotto il telo che copriva il carretto: si chiamava Antonio, 
                  non so se lo conosci, uno studente di biologia.» 
                  Petra assente con un lieve cenno della testa, mentre Anna cammina 
                  per la stanza con più sicurezza: «Antonio si è 
                  nascosto in casa mia per qualche giorno. Ieri sono entrata in 
                  casa e l'ho trovato morto ammazzato: gli hanno fatto lo scalpo 
                  e hanno lasciato la pelle del viso sul tavolino di un microscopio.» 
                  «Dio, è orribile», dice Petra facendo una 
                  smorfia di disgusto. 
                  «Già. Mi chiedo perché l'abbiano ammazzato.» 
                  «Benvenuta nel mondo al di fuori della tua Proprietà. 
                  Sono tanti i compagni uccisi o che sono stati fatti sparire», 
                  dice Petra accavallando le gambe. 
                  «Era così giovane, perché uccidere proprio 
                  lui?», chiede Anna con la voce rotta. 
                  «Antonio non era un ragazzino: stava conducendo una ricerca 
                  sull'influenza ovina molto importante.» 
                  «L'influenza ovina ha ucciso il mio ex marito.» 
                  «Mi spiace», dice Petra, guardandola per la prima 
                  volta con comprensione. «Credo che gli assassini di Antonio 
                  siano gli stessi di tuo marito.» 
                  «Che significa?» 
                  «Che ciò che ha ucciso tuo marito è stato 
                  creato da qualcuno che ha poi fatto in modo che Antonio non 
                  continuasse le sue ricerche. Le cartelle che contenevano le 
                  conclusioni di Antonio sono sparite dal laboratorio.» 
                  «Ma chi?», urla Anna con rabbia. 
                  «Lascia perdere, sarebbe un suicidio. È gente della 
                  Posizione Alta, non ti puoi mettere contro di loro.» 
                  «Come non mi posso mettere contro di loro? Non sei tu 
                  a parlare di rivoluzione?» 
                  «Sì, ma la rivoluzione non si fa da soli. Ti vedo 
                  proprio cambiata», dice Petra dopo una breve pausa, con 
                  tono calmo e soddisfatto. «Vieni fin qui per cercare spiegazioni, 
                  l'ultima volta che ti ho vista non avevi certo tutta questa 
                  curiosità. E nascondi in casa dissidenti politici. Che 
                  c'è? Hai iniziato a ricordare?» 
                  «Che intendi?», chiede Anna bruscamente. 
                  «Ultimamente ti capita più spesso di ricordare 
                  episodi del passato? È così che succede: s'inizia 
                  a ricordare il passato e piano piano si raggiunge coscienza 
                  della propria condizione.» 
                  «No», risponde Anna mentendo. Ora che ci pensa Petra 
                  ha ragione: molti ricordi del passato le sono affiorati alla 
                  memoria nell'ultimo periodo. 
                  «Stai mentendo, vero? Non riesco proprio a capire perché 
                  sei così ostile nei miei confronti. Non sarà ancora 
                  per il fatto di Sandra?», scherza Petra. 
                  Anna abbassa gli occhi e aggrotta le ciglia pensosa. 
                  «Non ricordi?», chiede Petra stupita. 
                  «No, non ricordo», dice Anna a bassa voce. 
                  «Almeno ricordi di noi due?» 
                  «Solo alcuni fatti, ma è tutto molto confuso.» 
                  «Dovresti proprio smetterla con quelle Pillole Blu», 
                  dice Petra avvicinandosi ad Anna. Le bacia leggermente le labbra, 
                  facendola trasalire. Improvvisamente Anna ricorda tutto: il 
                  corpo nudo di Petra contro il suo, i litigi a casa di Aldo prima 
                  di trasferirsi a Milano, le braccia di Petra che l'avvolgevano 
                  mentre piangeva. 
                  Quando il suo pensiero torna nella stanza in cui si trova, Petra 
                  è già uscita. 
                   
                  25. Ieri 
                  A quell'ora, quando il sole era già tramontato, l'asfalto 
                  non sprigionava più afa e l'aria si faceva fresca. Ad 
                  Anna piaceva Bologna in quel periodo: l'autunno piano piano 
                  si risvegliava e gli studenti tornavano a popolare la città. 
                  Superate le due torri imboccò i portici di Via S. Vitale, 
                  arrivò in Piazza Aldrovandi e girò a sinistra 
                  per Via Petroni. Comprò un paio di Moretti da 66 da un 
                  pakistano e citofonò. Non rispose nessuno: tenevano sempre 
                  la musica troppo alta. Si attaccò al citofono una seconda 
                  volta. 
                  «Chi è?» 
                  «Io, Anna.» 
                  Spinse il portone con la schiena e salì fino al secondo 
                  piano. Aprì la porta della casa di Aldo e sentì 
                  un forte odore di chiuso e marijuana. 
                  «Dio, si muore qui dentro. Aprite un po' la finestra.» 
                  «Ma fa freddo», reclamò Giulia dalla poltrona 
                  su cui era spaparanzata. 
                  «Che dici? Non fa freddo per niente», disse Anna 
                  spalancando la finestra della sala. «Di che stavate parlando, 
                  rivoluzione?» 
                  «No, tutt'altro, si spettegolava un po'», disse 
                  Marco divertito. «Sai che Claudia è incinta?» 
                  «Claudia? Ma dai. Che bella notizia! E che dicono, sono 
                  contenti?» 
                  «Un po' in paranoia ma contenti. Federico è messo 
                  male con il lavoro e Claudia non ne ha mai trovato uno.» 
                  Aldo spuntò da dietro il muro e guardò Anna con 
                  gravità: «Puoi venire di là? Io e Petra 
                  ti vogliamo parlare.» 
                  Anna seguì Aldo ed entrò nel suo studio: trovò 
                  Petra in piedi al centro della stanza, inespressiva e gelida. 
                  Sembrava furiosa. 
                  «Sei stata tu, vero?» disse Petra sbattendo La Repubblica 
                  sulla scrivania. 
                  Anna prese il quotidiano e lesse il titolo: 
                   
                  Attentato a Portofino: esplode yacht di lusso. La Marchesa 
                  Von Robbalt tra i quattro feriti. 
                   
                  «Se lo meritavano, no?», disse riappoggiando con 
                  calma il giornale sulla scrivania. 
                  «No, Anna. Nessuno si merita di esplodere in aria», 
                  l'ammonì Petra. «Ti avrà aiutata Paolo, 
                  immagino: a quello gli piace giocare con le armi e gli esplosivi.» 
                  «Quello che hai fatto è contrario ai nostri principi», 
                  esordì Aldo. «Non ci resta che allontanarti dal 
                  gruppo.» 
                  «Lo so che è contrario ai vostri principi, ma è 
                  perfettamente in linea con i miei», disse Anna cercando 
                  di non surriscaldarsi troppo. «Me ne vado volentieri dal 
                  vostro gruppetto. Continuate pure a fare la rivoluzione appiccicando 
                  manifesti ai muri.» 
                  Raccolse lo zaino che aveva lasciato a terra: «Me ne andrò 
                  a Milano dopo la laurea, non mi mancherai», disse guardando 
                  intensamente Petra. «Neanch'io ti mancherò: a te 
                  importa solo di te stessa. E di Sandra, forse.» 
                   
                  26. Oggi 
                  Anna arriva nella sua Proprietà stanca e con un mal di 
                  testa insopportabile. Entra in cucina e getta la mascherina 
                  antinfluenza sul tavolo, si versa un bicchiere d'acqua ed ingoia 
                  una Pillola Blu, sperando la calmi. 
                  Prende un broccolo dal cesto della verdura, lo sciacqua e separa 
                  i fiori dal gambo: li mette a soffriggere con olio e aglio, 
                  mentre il gambo lo mette da parte per la conserva sottaceto. 
                  Taglia a fettine il formaggio che ha scambiato al mercato con 
                  un chilo di patate e scalda le tortillas di mais preparate il 
                  giorno prima. Anna è molto orgogliosa del suo mais: non 
                  ha solo quello giallo, che gli europei hanno preso agli indigeni 
                  messicani, ma ha pannocchie blu, rosse e nere. La varietà 
                  che la natura ha regalato alle popolazioni centramericane si 
                  ritrova intatta nei suoi campi. 
                  Si siede a tavola e, malgrado la Pillola Blu, non riesce a smettere 
                  di pensare. Finita la cena decide di coricarsi nel letto ma 
                  Gabriele, Petra e il corpo senza vita di Antonio non le danno 
                  tregua: è ossessionata dalla stanza in cui lo ha trovato, 
                  immerso nella pozza di sangue scuro e pulsante. 
                  Verso le due del mattino, quando si è ormai arresa all'insonnia 
                  e ai fantasmi che popolano l'oscurità della sua camera, 
                  scende dal letto e va nel ripostiglio. Sposta le cose che si 
                  trovano su un vecchio baule e cerca di togliere la polvere che 
                  lo ricopre. Trova alcuni album di fotografie e li porta in camera, 
                  sedendosi sul letto per sfogliarli: centinaia di immagini si 
                  susseguono una dietro l'altra, ripercorrendo un passato dimenticato 
                  che ora torna attraverso quelle foto: un luogo, un viso, il 
                  richiamo all'odore di una stanza, al sapore di una cena tra 
                  amici. È tutto lì: i suoi genitori e sua nonna, 
                  Gabriele, Petra, Aldo, Paolo e Margherita, la sua casa di Bologna, 
                  quella di Aldo, le domeniche con la famiglia in campagna, nella 
                  casa dove ora vive. È la prima volta che sente l'esigenza 
                  di riappropriarsi del suo passato, della sua storia. Non le 
                  è mai interessato, ha sempre preferito non sapere da 
                  dove viene e dove ha sperato di poter arrivare. 
                  Ora le immagini dimenticate sono tutte lì, una dietro 
                  l'altra. Il dolore che le brucia il petto la scalda sempre più, 
                  ora che sembra tutto più chiaro, ora che il suo passato 
                  le regala una capacità analitica, le impone una coscienza. 
                  Tra le pagine di un album trova un ritaglio di giornale ripiegato 
                  con cura, datato ottobre 2014: 
                   
                  L'idea che sta alla base dell'oltreumanesimo è che 
                  le scoperte scientifiche e tecnologiche possano aumentare le 
                  capacità fisiche e cognitive degli esseri umani, migliorando 
                  gli aspetti della vita umana che sono considerati indesiderabili, 
                  come la malattia e l'invecchiamento, anche in vista di una trasformazione 
                  postumana. Il concetto di oltre-uomo, di chiara ascendenza nietszchiana, 
                  può condurre a separazioni e discriminazioni di natura 
                  sociale fra i migliorati/modificati (in quanto detentori delle 
                  risorse economiche necessarie) e chi non lo è, rischiando 
                  di sfociare in un contrasto tra “superiori” ed “inferiori”. 
                   
                  L'oltreumanesimo è quindi una dottrina pericolosa, 
                  e la sua diffusione va contrastata con tutti i mezzi possibili. 
                   
                  Anna appoggia la testa al cuscino e finalmente piange. Non lo 
                  faceva da mesi, forse anni. Piange finché i visi dei 
                  suoi defunti vengono inghiottiti dalla stanza e crolla addormentata, 
                  sfinita. 
                   
                  27. Oggi 
                  Nicola si passa la mano sulla guancia: è ora di farsi 
                  la barba. Guarda oltre la finestra la moglie mentre innaffia 
                  le piante in cortile, incrociano gli sguardi e si scambiano 
                  un sorriso. Cerca di non farsi vedere preoccupato per non sentirsi 
                  costretto a raccontarle tutto, deve proteggere Marta dalla paura 
                  che gli ha preso la gola e che sta in tutti i modi cercando 
                  di dominare. 
                  Bagna la saponetta preparata dalla figlia e se la sfrega fra 
                  le mani, fino a creare una schiuma che cosparge sulle guance 
                  con movimenti lenti e circolari. Prende il rasoio e lo guida 
                  lungo il collo. Lo batte poi sul bordo del lavandino per liberarlo 
                  dai peli che si sono infilati tra le lamette, e si rasa anche 
                  le guance. Si passa un asciugamano sulla faccia ed entra nella 
                  doccia: il getto di acqua fresca gli sembra capace di sciacquare 
                  anche i pensieri. 
                  Esce dal bagno e va verso la camera da letto, punto dal freddo 
                  che gli intirizzisce la pelle nuda. Infila un paio di pantaloni 
                  blu e si guarda riflesso allo specchio mentre abbottona lentamente 
                  la camicia. Liscia i pochi capelli che gli sono rimasti, indossa 
                  un impermeabile e prende la sua valigetta in pelle, infilando 
                  nel doppio fondo il fascicolo che ha nascosto sotto il mucchio 
                  di biancheria sporca. Esce in giardino e si avvicina a Marta, 
                  intenta a curare i suoi fiori. 
                  «Io esco, ci vediamo più tardi.» 
                  «Ok. Dove vai?» 
                  «Devo vedermi con una persona.» 
                  «Come sei misterioso in questi giorni. Che c'è, 
                  hai un'amante?» 
                  Nicola le sorride e la bacia sulla fronte, prima di allontanarsi 
                  con il cuore stretto nel petto. 
                   
                  28. Ieri 
                  «Consegna cataloghi Mobilifelici, mi può aprire 
                  il portone per cortesia?» 
                  «No, non apro agli sconosciuti.» 
                  “Ma va a quel paese”, pensò Anna pigiando 
                  un altro tasto del citofono. «Consegna cataloghi Mobilifelici, 
                  mi può aprire per cortesia?» 
                  «Sì, ma si ricordi di chiudere bene il portone 
                  quando esce che Milano è piena di zingari.» 
                  Anna prese tre pacchi di cataloghi dal carretto ed entrò 
                  nell'androne del palazzo. Strappò l'involucro che li 
                  conteneva e li inserì velocemente in ciascuna buca delle 
                  lettere. Uscì dal portone preoccupandosi di non farlo 
                  chiudere, per permettere a qualsiasi “zingaro” di 
                  entrare per rubare, e continuò a spingere con fatica 
                  e controvoglia il suo pesante carretto. Iniziava a piovere una 
                  pioggia che si fece sempre più fitta, il cielo tuonava 
                  e la sua giacchetta non avrebbe retto più di tanto. Una 
                  macchina entrò in una pozzanghera a grande velocità, 
                  svuotandogliela addosso. 
                  Anna si fermò sul marciapiede, sola tra i passanti e 
                  completamente bagnata. Non poteva credere che le stava succedendo 
                  davvero, dopo tanti anni di università passati inseguendo 
                  il suo sogno d'architetta, com'era possibile trovarsi con un 
                  lavoro del genere per cinque euro l'ora? 
                  Non capiva come fosse possibile che la gente non si ribellasse. 
                  Quelle persone che le correvano attorno, massa di precari plurilaureati, 
                  erano consapevoli dell'ingiustizia che vivevano ogni giorno? 
                  Sapevano di guadagnare così poco perché qualcuno 
                  sopra di loro guadagnava troppo? 
                  Prese il carretto e lo scaraventò contro il muro. Si 
                  diresse di corsa verso la metropolitana, sotto lo sguardo stupito 
                  di un cameriere che si trovava fuori dal bar. L'unico in quella 
                  moltitudine che aveva fatto caso al suo gesto. 
                   
                  29. Oggi 
                  Anna ingoia una Pillola Blu, scende con fatica dal letto e va 
                  lentamente verso il bagno. Si mette sotto la doccia, dove rimane 
                  una decina di minuti guardando il getto d'acqua che le si rompe 
                  sul naso. Si asciuga con un asciugamano pulito e si guarda allo 
                  specchio: le lacrime della notte precedente le hanno gonfiato 
                  gli occhi fino a renderli una piccola fessura che lascia intravedere 
                  solo il suo iride nero. Si cosparge di crema solare e indossa 
                  gli abiti da lavoro. 
                  Scende in cucina e mette il caffè di zucca sul fuoco, 
                  taglia due fette di pane e le cosparge di burro e marmellata 
                  di fichi. Si siede sulla poltrona, sorseggiando il caffè 
                  e mangiando controvoglia il pane: si sente apatica e non ha 
                  voglia di far niente, solo continuare a dormire per evitare 
                  di pensare. Il sonno getterà nell'inconscio ciò 
                  che in stato di veglia non è in grado di sopportare. 
                  Guarda la sua Proprietà che si estende fino al termine 
                  della collina e decide di non lavorare. Il cielo si è 
                  improvvisamente trasformato in una coperta grigia da cui cade 
                  una pioggia sottile ed insistente, che batte sulla campagna 
                  bagnandola di tristezza. Sente l'angoscia premerle lo stomaco: 
                  ha bisogno di riposarsi, mangiare e trovare un modo per sciogliere 
                  quel peso che la opprime. 
                  Sente bussare alla porta, trasale: possono essere la polizia 
                  o i militari. Forse qualcuno ha scoperto che nascondeva Antonio 
                  in casa sua, che è stata sposata con Gabriele o che si 
                  è incontrata con Petra. 
                  Appoggia le spalle al muro e guarda di sbieco oltre la finestra, 
                  facendo in modo che da fuori non s'intraveda la sua figura. 
                  Davanti alla porta vede un uomo ritto sotto la pioggia, con 
                  i capelli radi e brizzolati. Non porta la mascherina antinfluenza 
                  e regge una valigetta di pelle. 
                   
                  30. Ieri 
                  Qualcuno suonò il campanello. Tutti nella stanza si zittirono, 
                  mentre i battiti del cuore acceleravano rumorosamente. 
                  Anna raccolse il respiro e andò verso la porta. Attraverso 
                  lo spioncino vide un ragazzo la cui figura era ingigantita dalla 
                  lente, con un cartellino del Comune di Milano appeso alla camicia: 
                  doveva essere del censimento. Si assicurò che ridiscendesse 
                  le scale e si girò verso i ragazzi seduti nel salotto: 
                  «Tranquilli, nessun pericolo». 
                  Entrò in cucina e spense la moka che stava bollendo, 
                  versò il caffè nelle tazzine e le dispose su un 
                  vassoio. 
                  «Grazie Anna», disse Edoardo quando la vide entrare 
                  con il caffè. «Quindi siamo d'accordo. Anna si 
                  occupa di gestire le relazioni con Paolo: lo chiama, gli spiega 
                  esattamente di che cosa abbiamo bisogno e tiene in casa sua 
                  l'esplosivo che Paolo porterà con sé. Martina 
                  e Gabriele passeranno la settimana sorvegliando la zona dell'azione, 
                  informandoci su tutto ciò che noteranno. Io e Marilena 
                  ci occuperemo di piazzare l'esplosivo sotto il traliccio dell'ENEL. 
                  L'azione si svolgerà nella settimana del 15 maggio, i 
                  dettagli li decideremo durante la prossima riunione». 
                  Tutti i presenti espressero il loro accordo, mentre Anna se 
                  ne stava pensierosa e muta sulla sua poltrona. 
                  «Che c'è Anna, ti sembra che qualcosa non vada 
                  nell'operazione?», chiese Edoardo preoccupato. 
                  «No, compagni, non c'è nulla che non va nel modo 
                  in cui stiamo organizzando l'operazione. È che non ne 
                  vedo lo scopo in un momento come questo, non mi sembra certo 
                  prioritaria.» 
                  «In che senso?», chiese Martina. 
                  «Ve l'ho già detto, io sento che sta per succedere 
                  qualcosa di grosso, qualcosa che ci fotterà molto più 
                  di quanto non faccia ENEL. Penso che dovremmo prepararci ad 
                  affrontare la situazione piuttosto che piazzare bombette qua 
                  e là.» 
                  Gabriele sospirò, guardandola negli occhi. 
                  «Ne abbiamo già parlato, Anna», intervenne 
                  Edoardo, spazientito. «Questa tua sensazione è 
                  condivisibile, ma è una sensazione. Non possiamo mobilitarci 
                  contro qualcosa che non sappiamo cos'è, e che forse neanche 
                  esiste.» 
                   
                  31. Oggi 
                  «Buongiorno signora, mi chiamo Nicola, Nicola Rocchi. 
                  Sono venuto per portarle notizie di Antonio Parodi.» 
                  Anna ascolta dall'altra parte della porta, con la mano tremante 
                  afferrata alla maniglia. 
                  «La prego, mi faccia entrare», prosegue Nicola. 
                  «Entri, non è sicuro stare là fuori», 
                  dice Anna aprendo la porta, dopo aver controllato che non ci 
                  sia nessuno intorno alla casa. 
                  Nicola struscia con energia le scarpe infangate sul tappettino 
                  ed entra. Sfila l'impermeabile gocciolante e lo porge ad Anna, 
                  tenendolo davanti a sé con la punta delle dita come un 
                  lenzuolo da ripiegare. Anna lo mette sull'appendiabiti, si asciuga 
                  le mani nel grembiule che indossa e guarda Nicola da capo a 
                  piedi. 
                  «È davvero zuppo», constata. «Venga, 
                  si accomodi.» 
                  Raccoglie un po' di legna dal mucchio e cerca di accendere il 
                  camino. «Così almeno si asciuga. Questa stanza 
                  è così umida...» 
                  Nicola la osserva imbarazzato dalla poltrona. Tiene la valigetta 
                  sulle ginocchia, stringendola come un bambino un peluche. Anna 
                  dà un'occhiata alla valigetta e si chiede cosa possa 
                  contenere di tanto importante, mentre con la pinza muove la 
                  legna che inizia ad incendiarsi. Tira un sospiro per prendere 
                  coraggio: «Che genere di notizie ha su Antonio?». 
                  Nicola si morde le labbra e per un istante guarda a terra: «Faccio 
                  parte della resistenza, o per meglio dire, appoggio i compagni 
                  ribelli. Spesso do una mano al quartiere generale per quanto 
                  riguarda le questioni logistiche. Qualche giorno fa, mentre 
                  ordinavo il ripostiglio in cui teniamo vecchi documenti, ho 
                  trovato questo.» Nicola apre la valigetta e dal doppio 
                  fondo estrae un fascicolo. «Sono i risultati della ricerca 
                  di Antonio Parodi sull'influenza ovina. Il documento è 
                  stato rubato dal laboratorio in cui lavorava, ma evidentemente 
                  Antonio aveva previsto la possibilità e ne ha nascosta 
                  una copia nell'archivio, sapendo che qualcuno prima o poi l'avrebbe 
                  trovata.» 
                  Anna guarda stupita il fascicolo che Nicola teneva in mano. 
                  «Com'è arrivato a me?», chiede quasi balbettando. 
                  «Quando ho trovato i documenti sono corso dalla compagna 
                  Petra. È stata Petra a dirmi di cercarla, dice che è 
                  importante che ne prenda visione.» 
                  «L'ha letto?» chiede Anna interrompendolo. 
                  «Sì. Quello che c'è scritto è spaventoso, 
                  e ben documentato. Le lascerò il fascicolo e tornerò 
                  fra tre giorni, in modo che abbia il tempo di leggerlo con calma. 
                  Lo nasconda bene e non faccia copie. Lo dico per la sua sicurezza: 
                  se vengono a fare un controllo in casa sua e lo trovano è 
                  spacciata.» 
                   
                  32. Oggi 
                  Anna si trova nuovamente sola nel salone grande e pieno di silenzio. 
                  Non riesce a sopportarlo, cerca un vecchio registratore che 
                  tiene in ripostiglio e libera un sacchetto pieno di audiocassette 
                  dalla montagna di oggetti che lo seppelliscono. Ne inserisce 
                  una a caso nell'apparecchio, preme su PLAY e finalmente archi, 
                  fiati e pianoforte iniziano a mescolarsi al calore emanato dal 
                  camino. È musica classica, Anna non sa cosa sia ma si 
                  addice al suo umore teso e speranzoso. 
                  Prepara una camomilla, si siede sulla poltrona e appoggia il 
                  fascicolo sulle ginocchia. Rimane a guardarlo per qualche minuto, 
                  come si guarda un attrezzo di cui non si capisce l'utilità. 
                  Sono più di 100 pagine, di cui molte scritte in un linguaggio 
                  scientifico difficile da interpretare. 
                  Dopo aver letto l'ultima parola sospira profondamente, appoggia 
                  la testa alla poltrona e chiude gli occhi, lasciando cadere 
                  le lacrime che si sono raccolte sotto le palpebre. Che fare 
                  ora? Chiamare Petra? Aspettare Nicola? Deve stare attenta a 
                  non agire d'impulso. Poi il sonno la vince. 
                   
                  33. Ieri 
                  La luce recise lo strato di nuvole e smog, filtrando nella stanza 
                  attraverso le tende rosse. Anche a Milano a volte c'era il sole. 
                  Anna aprì gli occhi lentamente e vide Gabriele che dormiva 
                  accanto a lei. Le teneva la fronte appoggiata alla schiena e 
                  il braccio a peso morto sul fianco, bloccandola al letto. Lo 
                  guardò e lo trovò bello. Poi affondò di 
                  nuovo la testa nel cuscino, aspettando inutilmente di riprendere 
                  sonno. 
                  Dopo un po' Gabriele spense la sveglia, le diede un bacio sulla 
                  testa e si alzò con energia. 
                  «Sei sveglia? Che fai, non ti alzi?» 
                  «No, non penso che oggi mi alzerò.» 
                  «Che dici? E il lavoro?» 
                  «L'ho lasciato ieri. Mi sono rotta le palle di tirare 
                  un carretto pieno di cataloghi per cinque euro l'ora. Sono architetta 
                  e non capisco perché dovrei fare altro, tutti dovrebbero 
                  fare il lavoro che vogliono fare», disse con tono fiacco, 
                  senza muovere il viso dal cuscino. 
                  «Hai ragione, ma bisogna pur campare in qualche modo», 
                  rispose Gabriele urlando dalla cucina. Rientrò portando 
                  due tazzine di caffè, ne appoggiò una sul comodino 
                  di Anna e ci annegò dentro il cucchiaino dopo averlo 
                  girato nella sua. 
                  «Ho paura, Gabri. Sento che sta per succedere qualcosa 
                  di catastrofico, che sta crollando tutto e noi passiamo l'ultimo 
                  periodo che abbiamo a disposizione lavorando, invece di godercela.» 
                  «Ancora con questa storia, Anna? Di che ultimo periodo 
                  stai parlando?» 
                  «Sento che sta arrivando la fine.» 
                  «La fine di che?», chiese lui con pazienza. 
                  «Non lo so, del Liberismo forse.» 
                  «Magari!» 
                  «Magari si potrebbe dire se fossimo pronti, ma non lo 
                  siamo affatto. Che sarà se tutto crollerà improvvisamente? 
                  Il caos, e chiunque ne potrà approfittare.» 
                  «Se il liberismo crollasse sarebbe una gran festa, e troveremo 
                  subito un sistema migliore con cui sostituirlo. Non ci vorrà 
                  tanto, voglio dire, peggio di così!» 
                  «Tu non capisci e mi tratti come una pazza.» 
                  «Senti Anna: io ora vado a imbiancare la casa della mia 
                  vicina e stasera mi bevo una birra con Beppe. Tu intanto ti 
                  rilassi e smetti di farti seghe mentali su cose che non stanno 
                  né in cielo né in terra. Il liberismo purtroppo 
                  è vivo e vegeto amore mio, non ci sarà nessuna 
                  catastrofe.» 
                  Indossò velocemente una maglietta macchiata di vernice 
                  bianca e si abbassò sul letto, baciandole le labbra. 
                  «E per favore alzati di lì che non ti posso vedere 
                  in questo stato. Ci vediamo domani», disse prima di chiudersi 
                  dietro la porta. 
                  Anna rimase nel letto, nascose la faccia sotto il piumone e 
                  strizzò con forza gli occhi per non lasciarli piangere. 
                   
                  34. Oggi 
                  «Sono Nicola.» 
                  Anna guarda oltre la finestra per assicurarsi che sia davvero 
                  Nicola e apre la porta. Nicola la saluta con un cenno del capo 
                  e si dirige sicuro verso la poltrona. Porta con sé la 
                  stessa valigetta, che appoggia sulle ginocchia. 
                  «Ha letto, immagino.» 
                  Anna annuisce. 
                  «Mi può restituire il fascicolo, quindi», 
                  dice Nicola con tono calmo. 
                  «Sì, certo.» Anna porge il fascicolo, che 
                  Nicola mette nel doppiofondo. 
                  «Lei sa perché Petra ha voluto che leggessi la 
                  ricerca?» 
                  «No, sinceramente non so nulla di lei, signora. Petra 
                  m'ha detto di farle avere il fascicolo, e io ho ubbidito agli 
                  ordini. Ciò che vogliamo costruire è una società 
                  di uguali, ma finché non raggiungeremo il potere dobbiamo 
                  rispettare una catena di comando, una gerarchia, come un esercito. 
                  L'ultimo anello della catena - io in questo caso - non è 
                  tenuto a sapere tutto.» 
                  «E siete armati come un esercito?», chiede Anna 
                  maliziosa. 
                  «Io sicuramente no, sono un fifone e non ho mai sparato 
                  in vita mia!», risponde eludendo la domanda. 
                  Anna si alza e inizia a camminare per la stanza, respira profondamente 
                  e trattiene il fiato per qualche secondo. «Sono due giorni 
                  che non faccio che pensare a quello che ho letto. Voglio sapere 
                  i nomi di chi ha ucciso Antonio e il mio ex marito. Lei è 
                  disposto ad aiutarmi?», chiede Anna guardandolo con fermezza. 
                  Nicola alza le sopracciglia stupito. «Io? Lei può 
                  fare quello che vuole, signora, ma io non ho nessuna intenzione 
                  di farmi coinvolgere in questioni pericolose e su faccende che 
                  non mi riguardano. Non sono il tipo di persona adatta a questo 
                  genere di cose: c'è un motivo se ho sempre appoggiato 
                  la resistenza solo per questioni logistiche» dice alzandosi 
                  dalla poltrona. «È stato un piacere conoscerla.» 
                  «Il piacere è stato mio», dice Anna stringendo 
                  la mano che Nicola le porge. «E grazie per essere venuto 
                  fin qui.» 
                  «Ordini, ho solo ubbidito.» 
                  Nicola fa un leggero cenno di saluto, sorride debolmente e se 
                  va. 
                  Anna si abbandona sul divano, stanca e preoccupata. Ha bisogno 
                  dell'aiuto di qualcuno, ma non ha nessuno. Per la prima volta 
                  in vita sua si sente sola. 
                   
                  35. Oggi 
                  I pomodori sono molto maturi: se non li vende li dovrà 
                  buttare. Anna carica la cassetta sul carretto e va a recuperare 
                  le patate e le mele che ha lasciato nel campo. Le trasporta 
                  con fatica: sono pesanti e da tempo, a forza di portare pesi, 
                  è costretta a convivere con il mal di schiena. Ad ogni 
                  modo si sente meglio: dopo giorni passati a letto o alla finestra, 
                  guardando la pioggia cadere, è finalmente riuscita ad 
                  animarsi. La vista del sole e l'idea di potersi bagnare del 
                  suo calore le hanno dato la forza per andare al mercato. 
                  Spinge il carretto fuori dalla sua Proprietà, raccoglie 
                  il Giornale d'Italia che trova davanti alla porta e la 
                  chiude a chiave. La mascherina antinfluenza non la porta più, 
                  ora che sa non avere nessuna utilità, e non le importa 
                  se la gente la guarderà male. Arrivata nella piazza del 
                  mercato, al centro del paese, sistema il banchetto al solito 
                  posto. 
                  «Tutto bene, signora?», le chiede l'uomo che vende 
                  formaggi nel banco a fianco. Anna pensa che da decenni la gente 
                  a malapena si saluta, ma che un tempo era comune parlare con 
                  le persone con cui si condivideva uno spazio. 
                  «Sì tutto bene, grazie. E lei?», replica 
                  Anna guardando il suo vicino ordinare la merce. 
                  Prende il Giornale d'Italia e legge il grande titolo che capeggia 
                  in prima pagina: “Siamo salvi: trovato il vaccino per 
                  l'influenza ovina”. Lo stupore le accelera i battiti 
                  del cuore e prosegue nella lettura: 
                   
                  “Il Campione lo aveva promesso. Il vaccino per l'influenza 
                  ovina è stato trovato in tempo record, e proprio dai 
                  suoi ricercatori: è infatti di proprietà del Campione 
                  la ditta farmaceutica che ha annunciato la grande scoperta. 
                  Il prodotto, che si chiama Nosirveparanada, da domani sarà 
                  reperibile nelle farmacie di tutta la Nazione. Il Campione ha 
                  inoltre annunciato che, per salvare dalla pandemia i bambini 
                  e gli anziani – categorie verso cui ha sempre mostrato 
                  particolare sensibilità -, lo Stato comprerà 
                  ingenti quantitativi di vaccini, che a partire da mercoledì 
                  saranno disponibili in tutti gli ospedali.” 
                   
                  Anna chiude il giornale e tira un sospiro. Il progetto degli 
                  Amici della Libertà è un disegno sempre più 
                  chiaro. 
                  «Mi dà un chilo di zucchine per queste?», 
                  chiede una signora anziana con i capelli arruffati, mostrandole 
                  delle saponette. «Le ho fatte io, sono molto delicate 
                  per la pelle.» 
                  «Va bene», dice Anna dopo averle annusate. 
                  «Lei già non porta più il copribocca?», 
                  chiede la signora, il cui viso è quasi interamente tappato 
                  da una mascherina. «Ha già fatto il vaccino forse?», 
                  dice indicando il quotidiano appoggiato sul banco. 
                  Anna mette le zucchine nel sacchetto di carta e lo porge alla 
                  signora: «No, non l'ho fatto.» 
                  «Finalmente siamo usciti da quest'incubo», dice 
                  l'anziana. «Siamo salvi. Grazie a Dio e al Campione.» 
                   
                  36. Ieri 
                  Anna stava in piedi sul tram, schiacciata tra schiene, borse 
                  e tette, tenendosi al corrimano e con lo sguardo fisso a terra. 
                  Si fece spazio nella calca, sgusciò fuori e guardò 
                  il cielo: grigio e compatto, come sempre. Si strinse nel giubbotto 
                  e camminò velocemente verso casa. 
                  Mentre stava tentando di infilare le chiavi nella serratura, 
                  il portone si aprì scoprendo la signora del terzo piano 
                  che usciva di fretta, con la pelliccia di chissà quale 
                  animale morto legata al collo ed un minuscolo cane glabro al 
                  guinzaglio. Guardò Anna negli occhi, ma non mosse neanche 
                  un muscolo del viso in segno di saluto. 
                  “Stronza”, penso Anna salendo gli scalini due a 
                  due. Entrò in casa sbattendo la porta e si sedette sul 
                  divano, dove rimase immobile guardando davanti a sé per 
                  qualche minuto, con le mani dentro le tasche del giubbotto e 
                  il collo rincalcato nel bavero. Si alzò di scatto, tirò 
                  la giacca sul divano e sfilò le scarpe aiutandosi con 
                  i piedi. Accese il computer, aprì un file openoffice 
                  e iniziò a scrivere: i versi scorrevano uno dopo l'altro 
                  sullo schermo con la stessa facilità con cui li trovava 
                  dentro di sé. Mise un punto e rilesse, rivedendo nelle 
                  sue parole tutta l'angoscia che provava nel sentire la Fine 
                  avvicinarsi. Ne era sempre più certa, anche se nessuno 
                  le credeva e i suoi compagni la deridevano. 
                  Si preparò un piatto di pasta che accompagnò con 
                  una Pedavena fresca. Sedette sul divano e accese la tv per guardare 
                  il notiziario, che non faceva che confermare la sua impressione. 
                  L'Europa era quasi interamente bruciata dagli incendi, il Sud-Est 
                  Asiatico ricoperto d'acqua, in America Latina i colpi di stato 
                  erano all'ordine del giorno, mentre in Afghanistan e Medio Oriente 
                  proseguivano guerre il cui inizio era così lontano che 
                  le cause si erano perse nella memoria degli eserciti. Assassini 
                  vestiti da presidenti, con eleganti giacche italiane e le guance 
                  grasse e rosse, assicuravano che la situazione fosse assolutamente 
                  sotto controllo. 
                  Anna finì la cena, lavò i piatti e si rimise a 
                  scrivere. Sentiva di poter svuotare la sua inquietudine in quei 
                  versi semplici, ma la paura no, quella non la lasciava. Spense 
                  il computer e si avvicinò alla finestra: fuori la città 
                  aveva abbandonato la frenesia diurna e si era arresa al silenzio. 
                  Le strade erano illuminate ma deserte, percorse solo da qualche 
                  ubriaco di ritorno a casa. 
                  Indossò un paio di jeans, una maglietta a maniche lunghe 
                  e una felpa nera. Si tirò su il cappuccio, afferrò 
                  una bomboletta di vernice rossa e uscì, scendendo le 
                  scale velocemente. Camminò dentro la fresca e vuota notte 
                  milanese, fermandosi di tanto in tanto per scrivere sui muri: 
                  “La Fine sta per arrivare”, “Prepariamoci 
                  al peggio”, “La catastrofe è inevitabile”. 
                  Forse qualcuno, leggendole, avrebbe pensato che non erano le 
                  parole di una pazza. 
                   
                  37. Oggi 
                  Anna impila le cassette sul carretto e le copre con un telo 
                  di plastica. 
                  «Arrivederci», dice al signore dei formaggi prima 
                  d'incamminarsi. 
                  «Arrivederci a lei», risponde stupito del saluto 
                  spontaneo. 
                  La giornata di mercato è andata bene e il buon risultato 
                  ha alleggerito il peso del carretto, che Anna inizia a spingere 
                  per il vicolo che esce dal paese. Il borgo è tornato 
                  al suo originario aspetto medievale da quando, dopo la Fine, 
                  le automobili non percorrono più il centro. 
                  Anna raggiunge la fine della discesa, dove il pavimento di sanpietrini 
                  lascia il posto a una strada asfaltata che l'incuria degli ultimi 
                  decenni ha riempito di buche ed avvallamenti. La porterà 
                  fino alla sua Proprietà, un paio di chilometri più 
                  a ovest, costeggiando la collina su cui s'appiglia il borgo 
                  antico. L'intreccio di vicoli stretti, tipico dei paesi della 
                  zona, e la grande chiesa che si affaccia sulla piazza del mercato 
                  sono sopravvissuti alle pestilenze medievali, alla caccia alle 
                  streghe, alle guerre mondiali e alla Fine del capitalismo: il 
                  borgo è ancora intatto e bello, noncurante dei cicli 
                  che sconvolgono la vita umana. 
                  Anna spinge il suo carretto, cercando di evitare le buche che 
                  rallenterebbero il suo cammino, respirando a pieni polmoni il 
                  profumo dei fiori cresciuti sul bordo della strada. La pioggia 
                  dei giorni precedenti ha rinvigorito la natura, martoriata dal 
                  sole che solitamente batte senza sosta. 
                  Guarda la collina scendere dolcemente alla sua sinistra, formando 
                  la valle in cui durante i secoli passati la città ha 
                  preso forma. Si è sviluppata intorno ad un piccolo nucleo 
                  di pescatori e ha poi incorporato i paesi vicini, dormitori 
                  degli operai delle fabbriche sorte nell'entroterra, fino a diventare 
                  la grande città che è oggi. Grande ma disabitata, 
                  svuotata dalla Fine che ha cacciato i suoi abitanti nelle campagne 
                  attorno, alla ricerca di qualcosa da mangiare, di una ragione 
                  per continuare a vivere nonostante la povertà, la fame, 
                  la morte di quegli anni bui. 
                  Ad Anna sembra tanto lontano il periodo del Caos, la paura e 
                  le razzie, ora che ne ha ritrovato la memoria, ora che ricorda 
                  chi era allora e come ha resistito alla Fine del Liberismo, 
                  che per molti era stata la fine della vita, per altri l'inizio 
                  di una nuova speranza. 
                   
                  38. Ieri 
                  I quotidiani gratuiti che distribuivano nella metro erano sempre 
                  pieni di notizie insignificanti. La gente era stata abituata 
                  a dare peso al nulla, a riempirsi la testa di informazioni leggere 
                  e senza nessuna rilevanza per la coscienza, che si svuotava 
                  tanto da far perdere al cervello la capacità di attivarsi. 
                  Anna tirò il giornale dal suo divano, sistemò 
                  la coperta in modo da isolarsi dal freddo e raccolse il libro 
                  da terra: 
                   
                  “La rivoluzione non dev'essere un momento insurrezionale 
                  con cui prendere il potere, situato in alto, e modificare la 
                  società. Rivoluzione dev'essere invece allargare dal 
                  basso le esperienze autogestionarie, contropotere, fino a farle 
                  diventare la “società” tutta, la cui gestione 
                  dall'alto sarà poi svuotata di significato dal cambiamento 
                  strutturale della società stessa.3” 
                   
                  Si appoggiò il libro aperto sulla pancia con la copertina 
                  rivolta verso l'alto, e rimase a riflettere qualche minuto. 
                  Poi cercò il telecomando sul divano, tastando con la 
                  mano lo spazio tra lo schienale e il cuscino su cui era sdraiata, 
                  e si mise a fare zapping in tv. Si fermò su Lost, una 
                  serie statunitense su un gruppo di sopravvissuti a un disastro 
                  aereo, che ai tempi in cui era uscita la teneva incollata allo 
                  schermo. Ricordava che allora il giovedì sera era dedicato 
                  a Lost, niente avrebbe potuto trascinare fuori di casa Anna 
                  e la sua coinquilina. 
                  Le trasmissioni s'interruppero durante una scena che teneva 
                  col fiato sospeso. Anna imprecò mentre partiva la sigla 
                  del notiziario, che lasciò spazio a una giornalista seria 
                  e preoccupata. Si alzò sbuffando e aprì la credenza, 
                  tagliò una fetta di pane e la cosparse di Nutella. Poi 
                  versò un bicchiere di succo d'arancia e si sedette nuovamente 
                  sul divano guardando Tina, che si godeva il cuscino che le faceva 
                  da cuccia a pancia all'aria, come sempre. L'odore della Nutella 
                  animò la cagnetta: si avviò scodinzolando verso 
                  il divano e le appoggiò il muso sulle ginocchia. 
                  «No, Tina, la Nutella non è per te. Guarda lì 
                  la tua ciotola, è ancora piena di crocchette. Che hanno 
                  queste crocchette che non ti piacciono?» 
                  Tina la guardò con occhi compassionevoli. 
                  «Fammi vedere il telegiornale in pace, piccolina», 
                  disse Anna accarezzando il pelo nero e ruvido della cagnetta. 
                  La giornalista guardò la telecamera con gli occhi spalancati 
                  e lesse il foglio che teneva in mano: 
                   
                  Gentili telespettatori, interrompiamo le trasmissioni per 
                  informarvi che le borse dei valori di tutto il mondo sono crollate 
                  e le banche hanno chiuso gli sportelli. Molti paesi hanno bloccato 
                  le frontiere ed è stata annunciata un'imminente crisi 
                  alimentare. Il panico si sta diffondendo tra la popolazione, 
                  che si sta riversando nelle strade. Il Presidente rassicura: 
                  “Faremo del nostro meglio per contenere...” 
                   
                  Anna rimase a fissare lo schermo per un lunghissimo istante, 
                  senza guardare le immagini che materializzavano la Fine del 
                  Liberismo. Entrò in camera, s'infilò con fatica 
                  un paio di stivaletti e uscì di fretta in strada. Davvero 
                  non sapeva cosa si sarebbe potuta aspettare fuori da quella 
                  porta. 
                   
                  39. Oggi 
                  Anna si lascia distrarre dalle forme che uno stormo di uccelli 
                  compone nel cielo, ma cambiano troppo rapidamente per indovinarne 
                  la figura. Perde il controllo del carretto e lo vede affondare 
                  lentamente in una pozzanghera piena di acqua e fango. Impreca, 
                  afferra il carro con entrambe le mani e lo tira verso di sé 
                  con forza: le ruote escono dal pantano, ma una volta raggiunto 
                  il bordo della buca vengono ringhiottite dal fango. Prova nuovamente, 
                  ma neanche il secondo tentativo riesce. 
                  Si ferma per riprendere fiato, appoggia le mani sulle ginocchia 
                  e respira profondamente, finché il cuore non ritrova 
                  il suo battito regolare. Guarda la città che si estende 
                  sotto la strada, e pensa all'ultima volta che l'ha vista: l'incontro 
                  con Petra, la riunione nella cantina, la chiacchierata in quel 
                  bar che puzzava di crauti e birra annacquata. 
                  Vede un sottile fumo in lontananza alzarsi dal centro della 
                  città e si chiede cosa sia, ma non riesce a capire da 
                  dove provenga. Un rombo riempie la valle, coprendo il silenzio 
                  che sonnecchia dappertutto, e un'altra colonna di fumo denso 
                  e nero s'innalza sulle case. Una raffica di spari, forte e pulita, 
                  percorre l'aria. Dopo pochi istanti un'altra, e un'altra ancora. 
                  Un silenzio preoccupante vince nuovamente lo spazio attorno. 
                  Anna guarda intorno a sé cercando qualcuno con cui condividere 
                  la preoccupazione, ma la strada è deserta. Afferra il 
                  carretto e lo tira con tutta la forza che ha, liberando finalmente 
                  le ruote dal pantano. Circumnaviga la buca e si avvia velocemente 
                  verso casa, dimenticandosi dei profumi, dei colori e dell'aria 
                  che rendevano tanto piacevole la sua passeggiata. Ora sente 
                  solo paura, e sa che in questi casi la cosa migliore è 
                  rinchiudersi il prima possibile al sicuro. 
                   
                  40. Ieri 
                  Il primo suono fu un cucchiaio di metallo contro una pentola. 
                  Era la signora del palazzo di fronte a quello di Anna, che gridava 
                  la sua indignazione dalla finestra di casa. Non era l'unica: 
                  la strada era piena di gente che batteva pentole e coperchi, 
                  fischiando e urlando. 
                  «Signorina», la chiamò la signora alla finestra. 
                  «Faccia qualcosa anche per me, che son qui malata e non 
                  posso uscire di casa.» 
                  «Qualcosa in che senso?», chiese Anna. 
                  «Mandatelo via il Fondo Monetario Internazionale, mandateli 
                  via questi farabutti del governo che c'hanno rovinato la vita, 
                  che c'hanno rubato tutto. Spacchi tutto!» 
                  «Va bene», rispose Anna divertita dallo spirito 
                  della signora. 
                  Percorse il viale che portava in centro, cercando di rubare 
                  frammenti di conversazione alle persone che si stavano riunendo 
                  in strada nel tentativo di spiegare l'incomprensibile, di immaginare 
                  un futuro inimmaginabile. 
                  «Che faremo ora? Le banche hanno chiuso lasciandoci senza 
                  soldi. Il lavoro lo perderemo, che facciamo?» 
                  «Andiamo alla banca!», urlò un signore di 
                  mezz'età agitando il palo che teneva in mano. 
                  Il gruppo si avviò lungo il viale, ingrandendosi nel 
                  cammino che lo portava alla banca, presidiata da tre guardie 
                  armate e terrorizzate. La folla si parò davanti alle 
                  guardie, che puntarono i fucili. 
                  «Abbassate le armi e andatevene, non vi faremo nulla», 
                  urlò un ragazzo con una fionda in mano. 
                  I tre si guardarono tra loro e, prima che avessero il tempo 
                  di allontanarsi, la folla spinse verso l'entrata della banca, 
                  investendoli. Quelli delle prime file spaccarono il vetro con 
                  le mazze facendo spazio alla moltitudine che, entrando, trovò 
                  il direttore intento a contare i pochi spiccioli rimasti. Appena 
                  vide la folla, l'uomo si riparò il viso con le braccia 
                  e si accasciò su se stesso piagnucolando. Un uomo sulla 
                  cinquantina ben vestito lo afferrò per il collo della 
                  camicia e lo trascinò in strada. 
                  Anna guardò attonita la scena e decise di riprendere 
                  il cammino: voleva raggiungere la piazza centrale, andare di 
                  fronte al Palazzo Presidenziale e finalmente vedere quello che 
                  da tanto aspettava: la caduta del Liberismo. Gruppi di persone 
                  percorrevano il viale nella solita direzione, con il suo stesso 
                  intento, trascinati forse più dalla rabbia che dalla 
                  speranza che muoveva lei. Quasi non poteva credere che, dopo 
                  decenni di assopimento, la gente si fosse ridestata con tale 
                  forza. 
                  Il sole stava scendendo dal suo picco e cercava un monte dietro 
                  cui nascondersi, spalmando lunghe ombre sulla piazza gremita 
                  di gente. Il Palazzo Presidenziale era protetto da esercito 
                  e poliziotti antisommossa, i cui scudi brillavano degli ultimi 
                  raggi di sole. 
                  Si sentì un'esplosione e un intreccio di gas fumogeni 
                  si disegnò in cielo. Anna si trovò schiacciata 
                  dalla folla che cercava di indietreggiare: una serie di cariche 
                  della polizia colpirono il corteo, che si aprì come una 
                  latta di tonno in scatola. 
                  Riuscì a sgusciare tra i corpi che la premevano e si 
                  diresse in direzione contraria alla spinta della folla, fino 
                  ad arrivare a pochi metri dal cordone di militari e poliziotti. 
                  Si coprì il viso con un foulard, afferrò un sasso 
                  che trovò in terra e lo lanciò contro i militari 
                  con tutta la forza che aveva in corpo. Alcuni ragazzi si unirono 
                  al suo sforzo e, quando l'aria dissolse il vapore dei fumogeni, 
                  si accorse che tanti si erano sommati al gruppo. 
                  «Il popolo non se ne va», iniziarono a cantare in 
                  coro. La piazza era loro. 
                   
                  41. Oggi 
                  L'automobile esplode con un rombo assordante e una nuvola di 
                  fumo scura, spessa e maleodorante si apre orizzontalmente sulla 
                  città. 
                  Paolo si copre la bocca con il paliacate comprato durante un 
                  viaggio in Chiapas, per isolarsi dal fumo che esce dallo scheletro 
                  dell'auto e dai gas lanciati dall'esercito. È soddisfatto: 
                  l'operazione sembra filare liscia. Guarda oltre il muretto e 
                  incrocia gli occhi di Aldo, affacciato dall'aiuola che gli fa 
                  da riparo. Ha un passamontagna nero calato sul viso e tiene 
                  la mitraglietta premuta contro il petto. 
                  Da quando è iniziata l'azione le strade si sono svuotate: 
                  i venditori ambulanti hanno chiuso le loro attività in 
                  tutta fretta e i pochi passanti sono corsi via. A Paolo l'atmosfera 
                  ricorda una foto della città nell'800 che ha visto in 
                  un café del centro, dove gli unici soggetti, una coppia 
                  con una carrozzina, sembravano inchiodati allo sfondo fisso. 
                  Aldo invece, guardando il viale deserto che corre fino al Palazzo 
                  Presidenziale, pensa a quella stessa strada nei giorni della 
                  Fine e in quelli successivi del Caos. Ricorda la speranza che 
                  lo animava al tempo, quando credeva che la caduta del Liberismo 
                  avrebbe portato giustizia, e la rabbia che lo aveva vinto quando 
                  vide la sfilata di carri armati scortare il Campione al Palazzo 
                  Presidenziale. 
                  Aldo fa segno con la mitraglietta indicando davanti a sé, 
                  e un gruppo di persone armate e con i volti coperti sbuca da 
                  dietro l'angolo, correndo verso il Palazzo. Fa poi un cenno 
                  a Paolo e iniziano entrambi a correre nella stessa direzione, 
                  seguiti da un altro gruppo di compagni. 
                  L'elicottero militare continua a sorvolare la città, 
                  ma ha smesso di fare fuoco contro di loro: evidentemente gli 
                  alti comandi hanno già ordinato di smettere di sparare, 
                  di non proteggere più il Campione. Petra sa che la riuscita 
                  di un golpe dipende dell'appoggio dell'esercito, e ha preso 
                  provvedimenti. Ad ogni modo, sicuramente una parte dei militari 
                  rimarrà fedele al Campione. 
                  Durante la corsa una raffica di spari li investe: Federica cade 
                  a terra. 
                  «Continuate a correre», grida Aldo a Paolo e Mina, 
                  che si erano accasciati su di lei. Paolo tira per un braccio 
                  Mina, che non riesce ad abbandonare il cadavere dell'amica sull'asfalto 
                  caldo, in cui il sangue scuro e denso sembra ribollire. 
                   
                  42. Oggi 
                  Il sole cuoce l'asfalto, che fuma catrame e polvere. La piazza 
                  del Palazzo Presidenziale, il suo palazzo, è deserta 
                  come sempre da quando ha preso il potere con un colpo di stato. 
                  Guarda fuori dalla finestra e vede quel rassicurante silenzio, 
                  quell'ubbidienza assoluta che la città, con la sua inettitudine, 
                  sembra volergli dimostrare. Percorre con lo sguardo il viale 
                  che dal Palazzo si allunga fino all'arco di trionfo, costruito 
                  da un governante egocentrico intenzionato a lasciare, come lui, 
                  i segni del suo glorioso passaggio nel mondo. Lui non ha eretto 
                  un arco di trionfo, ma una sua grande statua al centro della 
                  città e un'altra in omaggio a Vittorio Mangano, l'uomo 
                  che ha permesso la sua fortuna nei primi anni di carriera. 
                  Guarda il viale e ricorda il giorno in cui lo ha attraversato 
                  a bordo del carrarmato, accompagnato da una silenziosa sfilata 
                  di veicoli dell'esercito che lo hanno scortato fino al Palazzo 
                  Presidenziale. È stato semplice entrarvi: il Caos aveva 
                  invaso la città e le sue anime, e nessuno in quello stato 
                  di panico, confusione e fame avrebbe fatto qualcosa per fermarlo. 
                  Era riuscito a cogliere il momento migliore per mettere a punto 
                  il suo golpe; o meglio, era stato fortunato ad essere stato 
                  scelto. Ricordava perfettamente quella mattina di novembre, 
                  quando suonò il telefono del suo ufficio elettorale, 
                  in quell'epoca lontana in cui esistevano ancora le elezioni. 
                  «Signore, è per lei», disse la segretaria 
                  con voce emozionata. Non succedeva tutti i giorni di trovarsi 
                  al telefono con una persona così importante. 
                  «Si tenga pronto», gli avevano ordinato dall'altra 
                  parte del filo. «Tutto crollerà e lei ne dovrà 
                  approfittare.» 
                  «Tutto cosa?» 
                  «Il sistema e di conseguenza la vita quotidiana così 
                  come la conosciamo. Crollerà e sarà il Caos, e 
                  a quel punto lei entrerà in azione: farà un colpo 
                  di stato, sarà facile e avrà tutto il nostro appoggio. 
                  Denaro, donne, avrà tutto quello che vuole. Ma si ricordi 
                  che saremo noi a decidere per lei, non avrà autonomia 
                  politica e dovrà rispettare le nostre decisioni. Sarà 
                  un nostro burattino e il suo paese al nostro completo servizio.» 
                  Accettò con gioia la proposta, ma ancora non aveva capito 
                  quello che sarebbe successo: non poteva immaginare che stessero 
                  preparando un Governo Mondiale, che la caduta del capitalismo 
                  - contemporanea in tutti i paesi - avrebbe portato alla nascita 
                  di governi fantoccio in tutto il mondo, manovrati dalla stessa 
                  e occulta regia. 
                  Si guardò di lato allo specchio e misurò l'ampiezza 
                  della pancia, passandoci una mano sopra. Forse era ingrassato 
                  un po' ma non gli importava, e non sarebbe importato neanche 
                  alle ragazze. Diede un'occhiata all'orologio e pensò 
                  che stavano per arrivare. Sentì un rumore di freni e 
                  vide le sue automobili sotto il Palazzo, ne scesero una quindicina 
                  di poliziotti che aprirono le porte a quegli splendori sui tacchi, 
                  che sempre più spesso lo andavano a trovare. 
                   
                  43. Oggi 
                  Il caldo aveva pietrificato la città muta. Sulle scale 
                  del Palazzo giacevano i cadaveri di alcuni compagni: quelli 
                  che si erano offerti volontari per accompagnare Petra, i primi 
                  che avevano affrontato le guardie del Campione. 
                  Aldo, Paolo e quelli rimasti erano riusciti a riunirsi nel parco 
                  antistante il Palazzo, dove muretti ed alberi offrivano un riparo 
                  ai colpi che gli ultimi soldati fedeli al Campione sparavano 
                  dalle finestre. Le raffiche partivano costanti e taglienti, 
                  ricevendo risposta continua. Si potevano ascoltare, durante 
                  i brevi silenzi tra una e l'altra, gli spari e le grida di chi 
                  stava combattendo all'interno. 
                  Aldo si chiese cosa stesse facendo il Campione quando Petra 
                  e gli altri erano entrati di sorpresa nel palazzo. Poi decise 
                  che il momento era arrivato: «Voi venite con me» 
                  - ordinò a un gruppo - «voialtri copriteci.» 
                  Afferrò la mitraglietta e, seguito dai compagni, corse 
                  verso l'entrata del Palazzo senza smettere di premere il grilletto, 
                  sovrastato dalla cortina di pallottole che i suoi sparavano 
                  per proteggere la corsa. Si appoggiò a una colonna del 
                  porticato, controllò che Paolo e gli altri fossero riusciti 
                  ad attraversare la piazza indenni, ed entrarono prudentemente 
                  nell'edificio. Non sapeva cosa avrebbero potuto trovare. 
                  Il cortile centrale, circondato da tre piani di portici in marmo 
                  bianco apuano, era un silenzio pesante di cadaveri e sangue. 
                  Non si sentivano più né urla né spari. 
                  Aldo cercava di dare un ritmo regolare al respiro in modo da 
                  decelerare i battiti del cuore, che sentiva pulsare in gola. 
                  Si girò di scatto: una porta si aprì improvvisamente 
                  scoprendo due guardie che si misero a correre verso l'uscita 
                  del palazzo, sparando alla cieca nella loro direzione. 
                  Aldo avvicinò l'occhio destro al mirino del fucile e 
                  chiuse il sinistro, ma un dolore caldo e fulminante gli impedì 
                  di premere il grilletto. Vacillò, guardò il petto 
                  che gli doleva tanto da schiacciargli il fiato e si accorse 
                  che stava perdendo molto sangue. Cadde in ginocchio, abbondonò 
                  il fucile e si lasciò andare a terra. Il cuore faceva 
                  sempre più fatica a trovare il respiro, e in pochi secondi 
                  smise di cercarlo. 
                  Paolo vide Aldo accasciarsi e morire. Sentì la rabbia 
                  esplodergli dentro: si affacciò dalla colonna, puntò 
                  la mitraglietta contro le guardie in fuga e le colpì 
                  con due soli e precisi colpi. 
                  Si appoggiò nuovamente alla colonna di marmo e guardò 
                  i compagni rimasti, anche loro ansimanti e tesi. Indicò 
                  con la mitraglietta la porta socchiusa da cui erano uscite le 
                  guardie e con la testa fece segno di procedere in quella direzione. 
                  Spalancò la porta con un calcio e puntò la mitraglietta 
                  dritta davanti a sé: cinque soldati s'inginocchiarono 
                  nella penombra della stanza gridando di non sparare. Paolo sentiva 
                  dietro le spalle il respiro caldo dei fucili dei compagni, puntati 
                  contro i militari per proteggerlo. 
                  «Gettate le vostre armi verso di me», ordinò 
                  ai soldati. 
                  «Ragazzi, siamo quassù, venite che il campo è 
                  sgombro.» 
                  Paolo riconobbe la voce di Lucia, che urlava dal porticato del 
                  piano superiore. «Fuori tutti», ordinò ai 
                  prigionieri. «Mina e Giulio: rimanete qui nel cortile 
                  e teneteli d'occhio. Gli altri, con me.» 
                  Paolo raccolse i compagni e salirono di corsa le scale. 
                  «Ce l'abbiamo fatta!», disse Lucia appena li vide. 
                  «Non vi potete neanche immaginare come abbiamo trovato 
                  il Campione.» 
                   
                  44. Oggi 
                  Il Campione scese nell'atrio per accogliere le ragazze. Le baciò 
                  tutte, una ad una, accarezzando le schiene velate dalle sete 
                  giapponesi che aveva regalato loro, annusando i profumi sensuali 
                  con cui innaffiavano le giovani pelli. 
                  Le accompagnò fino alla sala da pranzo e le fece accomodare 
                  alla tavola ricca di cibo e piante fiorite, vini e acqua di 
                  frutta. Mangiarono, scherzarono e cantarono con Piricella, l'amico 
                  fedele che sempre lo accompagnava nei festini. Regalò 
                  fiori e pietre preziose a tutte le ragazze. 
                  «E ora alla Sala Grande!», annunciò quando 
                  l'alcool e i doni avevano intorpidito a sufficienza le remore. 
                  Accompagnò le ragazze nel patio centrale del Palazzo, 
                  attraversarono un grande portone in legno e percorsero un corridoio 
                  che sembrava non avere fine, carico di tappeti persiani, piante 
                  esotiche e quadri imponenti. Le ragazze sorridevano, lo adulavano, 
                  si avvicinavano a lui nel tentativo di farsi contaminare dall'aurea 
                  di potere e denaro che la sua persona emanava. Il Campione approfittava 
                  degli sguardi e di quei giovani corpi, accarezzandoli mentre 
                  si dipanavano nel lungo corridoio, sfiorando braccia, spalle 
                  e natiche. Erano nient'altro che corpi, solo corpi di donna, 
                  non donne. Donna era stata solo Barbara, che l'aveva lasciato 
                  perché non amava i suoi rituali, perché riteneva 
                  che il bunga bunga fosse una cosa da “vecchio porco pervertito 
                  e maschilista”. Non capiva che era un gioco, che niente 
                  aveva a che vedere con la stima e il rispetto nei suoi confronti. 
                  Entrarono nella grande sala del bunga bunga, di cui aveva personalmente 
                  seguito i lavori di costruzione. Piricella si sistemò 
                  sul piccolo palco nel fondo e iniziò a suonare la chitarra. 
                  Intonò una vecchia ballata popolare, una canzone d'amore. 
                  Il Campione si accomodò nella sua poltrona-trono, appoggiò 
                  i gomiti sui braccioli e sorrise soddisfatto, guardando le ragazze 
                  che iniziavano a sfilarsi i vestiti, liberando corpi di cui 
                  nascondevano solo le parti intime con mutandine di pallettes 
                  e disegni di felini. 
                  Si sedettero sul bordo della piscina, al centro della quale 
                  il Campione aveva fatto sistemare una ceiba, un imponente albero 
                  arrivato appositamente dalla selva del Messico meridionale. 
                  La vegetazione tropicale cresceva rigogliosa in tutto l'ambiente, 
                  intrecciandosi sinuosamente con quei corpi femminili. 
                  Le guardava bagnarsi, tuffarsi, parlare tra loro. Le guardava 
                  guardarlo: nessuna distoglieva gli occhi da lui, l'uomo che, 
                  seduto in disparte, riempiva tutta la stanza con l'imponenza 
                  della sua persona, con il suo potere. 
                  Un gruppetto di ragazze si alzò dal bordo della piscina 
                  e camminò con passi ricercati verso di lui, che le osservava 
                  camminare, muovere ritmicamente le gambe sottili e lunghe come 
                  fili di lana, mentre i seni fermi e duri ondeggiavano leggermente. 
                  Una ragazza si mise alle sue spalle e iniziò a massaggiarlo. 
                  Un'altra lo fissò con aria di sfida e gli afferrò 
                  la camicia per slacciarla. La terza gli alzò il viso 
                  con un dito e gli sussurrò nell'orecchio qualcosa che 
                  non riuscì a capire, visto il volume della musica che 
                  copriva qualsiasi suono. Poi gli baciò le labbra e gli 
                  affondò con decisione la lingua dentro la bocca, ancora 
                  presentabile grazie alla dentiera nuova di zecca. 
                  Così si trovava il Campione quando Petra aprì 
                  con un calcio il magnifico portone in legno. Le ragazze si alzarono 
                  dal bordo della piscina e iniziarono ad urlare: fu solo allora 
                  che il Campione capì che, in quella stanza di lusso e 
                  piacere, stava succedendo qualcosa che non entrava nei suoi 
                  piani, qualcosa che non faceva parte del suo solito rituale. 
                  Tutte scapparono lasciandolo lì, nella sua poltrona-trono, 
                  con la camicia strappata e il rossetto sbavato sul viso. Due 
                  uomini gli puntarono il fucile contro, mentre Petra gli si parò 
                  davanti e lo guardò con disprezzo e soddisfazione: «In 
                  nome del popolo italiano, in nome di tutti quelli che a causa 
                  tua hanno sofferto, in nome di tutte le persone a cui hai sottratto 
                  la dignità, in nome delle donne che hai umiliato, io 
                  ti dichiaro in arresto, grandissimo porco schifoso.» 
                   
                  45. Ieri 
                  Da tre giorni la città puzzava di bruciato. Auto, copertoni, 
                  banche, uffici del governo e negozi: le fiamme avevano pulito 
                  tutto. Alimentari e supermercati erano stati saccheggiati ed 
                  era difficile trovare cibo. 
                  Anna si svegliò con un forte mal di testa causato da 
                  una manganellata con cui, il giorno prima, un poliziotto aveva 
                  rotto il casco che indossava durante i tafferugli. Alzò 
                  la mano di Gabriele addormentata su di lei, si liberò 
                  dal suo abbraccio e andò verso la finestra. Guardò 
                  un albero incendiato che si consumava lentamente ritirandosi 
                  nel suo tronco, e pensò all'odore che il crepitio della 
                  legna bruciata lascia sulla pelle e i vestiti. Sorrise pensando 
                  alle sere passate davanti al caminetto con gli amici, nella 
                  casa in campagna dei suoi. 
                  Gabriele si alzò dal letto e andò ad appoggiarle 
                  la pancia contro la schiena, le mise le mani sui fianchi e le 
                  baciò i capelli. Rimase anche lui in silenzio a osservare 
                  la città che si allontanava dalla finestra, riempiendo 
                  di edifici tutto lo spazio visivo. Guardò attraverso 
                  la ferita di un vetro che scomponeva il paesaggio come un quadro 
                  cubista e vide cadere una neve leggera e corposa, che si appoggiava 
                  su superfici troppo calde per non sciogliersi come un gelato 
                  sulla lingua di un bambino. 
                  «Pensavo ai compagni che sono rimasti sulle barricate, 
                  chissà che freddo hanno», disse Anna preoccupata. 
                  «Già. Possiamo preparare del tè caldo e 
                  portarlo quando andiamo a dargli il cambio.» 
                  Anna sospirò senza distogliere lo sguardo dall'estensione 
                  grigia che le si parava innanzi: la città che aveva odiato, 
                  le persone che aveva snobbato e che ora l'affiancavano in piazza 
                  e sulle barricate. La fame, la disperazione, la scoperta dell'inganno 
                  a cui erano stati sottoposti avevano improvvisamente destato 
                  tutti, come una campana che suona appena fuori dalla stanza 
                  da letto. 
                  «Hai paura?», chiese Gabriele sottovoce. 
                  «Sì, un po'. L'esercito ha riconquistato la piazza, 
                  il Presidente e il governo sono riusciti a non perdere il Palazzo. 
                  Possiamo resistere e impedire ai militari di entrare nel quartiere, 
                  il popolo è tutto con noi. Ma non so se abbiamo abbastanza 
                  forza per cacciare i governanti.» 
                  «Il problema è che non siamo ben organizzati e 
                  troppo affamati.» 
                  «Se mi aveste ascoltato avremmo potuto organizzarci per 
                  affrontare la Fine del Liberismo. Ora invece non sappiamo che 
                  fare, né cosa ci aspetterà, volevamo l'anarchia 
                  e invece abbiamo avuto il Caos. Quello che sta succedendo non 
                  è altro che Caos: tutta questa violenza, i saccheggi, 
                  la fame. E non abbiamo un piano politico né di vita, 
                  come faremo a vivere quando il cibo finirà per davvero?» 
                  «Non lo so. Tutti hanno perso il lavoro e allo stesso 
                  tempo sembra non avere più senso guadagnare soldi, se 
                  tanto quasi non c'è più cibo da comprare», 
                  disse Gabriele seguendo con gli occhi la lenta caduta di un 
                  fiocco di neve. 
                  Pensò a quando, da bambino, amava l'immobilismo della 
                  città durante le nevicate, il tappeto bianco e poroso 
                  che impediva ad auto e persone di correre, rilegando il mondo 
                  in una dimensione sospesa. Spesso il primo giorno di neve sua 
                  mamma gli permetteva di rimanere a casa da scuola e passare 
                  la mattina nascosto sotto il piumone, o con la schiena contro 
                  il termosifone, guardando il cielo giallo e soffuso. I pupazzi 
                  di neve, quelli con la scopa in mano e la sciarpa, li aveva 
                  sempre considerati una cosa da film e non da bambini veri. 
                  «Non riesco a immaginare cosa potrà succedere. 
                  Da sempre critichiamo il capitalismo ma allo stesso tempo lo 
                  abbiamo così introiettato da non poter immaginare una 
                  vita differente», disse Anna senza tono. Tirò il 
                  collo indietro fino a trovare il petto di Gabriele, che le nascose 
                  il viso nell'incavo tra l'orecchio e la clavicola. 
                  «Forse dovremmo trasferirci in campagna, se non è 
                  più possibile comprare il cibo bisognerà trovare 
                  il modo per produrlo. Potremmo anche sposarci», disse 
                  stringendola forte. 
                   
                  46. Ieri 
                  Da un paio di giorni una pioggerellina fine e insistente aveva 
                  sostituito la lieve nevicata del mercoledì, e il cielo 
                  era tornato ad essere un lenzuolo grigio e teso sulla città 
                  infreddolita. 
                  Anna osservava la fitta cascata d'acqua offuscare le forme che 
                  si indovinavano in trasparenza, mentre Cinzia guardava la pioggia 
                  creare dei piccoli vortici sulla strada bagnata. Rimasero in 
                  silenzio per lungo tempo, aspettando che gli ultimi raggi di 
                  sole si chiudessero completamente nel buio. Cinzia aggiunse 
                  un ceppo al falò che si consumava sull'asfalto, scomponendo 
                  l'architettura della legna ormai completamente bruciata. Anna 
                  allungò le mani verso il fuoco, rivolgendogli le palme 
                  come se dovesse fermarne l'avanzata. 
                  «Quand'era più piccolo mio figlio passava ore davanti 
                  al camino guardando la legna bruciare. Diceva che gli piaceva 
                  seguire il movimento della fiamma che cambia continuamente forma», 
                  disse Cinzia prima di girare la sedia e rivolgere la schiena 
                  al fuoco. 
                  Anna sorrise affettuosamente, osservando quella compagna bella 
                  e forte che stimava tanto. Guardò il suo viso maturo 
                  e per la prima volta notò che era inciso da alcune rughe, 
                  e che sotto gli occhi il tempo stava creando dei leggeri rigonfiamenti. 
                  Quello che stava succedendo sembrava aver catapultato Cinzia 
                  dieci anni più avanti, a causa della preoccupazione o 
                  della fame. O di tutt'e due. 
                  «Tu non hai bambini, vero?» 
                  «No», rispose Anna, e pensò che ne avrebbe 
                  voluti fare con Gabriele. A lui non l'aveva mai detto, ma per 
                  la prima volta in vita sua stava uscendo con uomo che riusciva 
                  ad immaginare come padre. 
                  «Non è certo il momento migliore per farne», 
                  continuò Cinzia senza distogliere lo sguardo dal fuoco, 
                  che le illuminava solo la metà destra del viso. «Che 
                  vita avranno questi ragazzi? Cosa stiamo lasciando loro? Non 
                  faccio che pensarci.» 
                  «Non dobbiamo sentirci in colpa. Stiamo facendo del nostro 
                  meglio e sono sicura che le cose andranno bene, che riusciremo 
                  a superare questo momento di Caos. Sono già cinque giorni 
                  che resistiamo qui sulle barricate, proteggendo le nostre strade 
                  dalla violenza e dai furti di ladri, polizia ed esercito. Continueremo 
                  finché la città non sarà nostra.» 
                  «Non so Anna, a me risulta difficile essere ottimista», 
                  disse Cinzia scrollando la testa. «La gente ruba tutto 
                  quello che si può trovare nei negozi e poi li brucia. 
                  E la polizia fa paura: loro hanno le armi, le sanno usare e 
                  gli piace farlo, mentre noi siamo praticamente disarmati. Una 
                  volta che la fame ci avrà vinti non sarà difficile 
                  rompere la nostra resistenza.» 
                  Una lacrima s'allungò lenta sul viso di Cinzia. Anna 
                  osservò l'amica con attenzione: la fronte corrugata sotto 
                  il cappello di lana, il naso leggermente schiacciato, la bocca 
                  chiusa e sottile su cui si stava andando a posare la lacrima. 
                  Le prese la mano aperta e la chiuse fra le sue: era dura e fredda, 
                  malgrado la vicinanza al fuoco. 
                  Passarono la notte parlando del loro passato e di quello che 
                  si aspettavano dal futuro, commentando libri e rivelandosi l'un 
                  l'altra dubbi, paure e aspetti poco conosciuti delle loro vite. 
                  Era facile farlo davanti al fuoco, sotto il cielo stellato che 
                  le nuvole rivelavano qua e là. Non volevano trovarsi 
                  a riflettere sul buio che si parava loro dinnanzi, sulla strada 
                  scura che dovevano controllare non venisse presa dai militari 
                  o dalle bande che si stavano approfittando del Caos. 
                  «Chissà che sta succedendo all'estero», disse 
                  Anna quando il sole, pur non avendo ancora fatto capolino dai 
                  palazzi, iniziava a illuminare il cielo. 
                  «Già, quei porci trasmettono solo programmi d'intrattenimento 
                  e hanno tagliato l'accesso ad Internet. Gino dice che sta creando 
                  un sistema radio per poter comunicare con la Francia, allearsi 
                  con i compagni all'estero potrebbe essere la nostra unica possibilità.» 
                  Anna si stava lasciando vincere dal sonno quando sentì 
                  in lontananza una raffica di spari seguita da grida sguaiate. 
                  Alzò la testa appesantita dal sonno e si mise in ascolto: 
                  un rumore meccanico, sempre più vicino, iniziò 
                  a fare da sottofondo alle urla e agli spari. 
                  «Aspettami qui, vado all'angolo a vedere che succede», 
                  disse Anna a Cinzia. La corsa le accelerò la respirazione 
                  e per un attimo, prima di svoltare l'angolo, sorrise guardando 
                  una piccola nuvola vaporosa che macchiava di bianco il cielo 
                  di un azzurro intenso e pulito. Sorrise dentro di sé 
                  finché il suo sguardo non trovò la fine della 
                  strada, e le si gelò il sangue così improvvisamente 
                  da darle un brivido. 
                  Una sfilata di carrarmati e veicoli dell'esercito stava attraversando 
                  il viale che portava al Palazzo Presidenziale. I militari, impettiti 
                  e fieri, lanciavano urla e pallottole al cielo. La testa di 
                  un uomo calvo, tozzo e molto basso spuntava dall'oblò 
                  che bucava la pancia di un carrarmato: aveva l'aria sicura di 
                  un capo, lo sguardo fisso di un vincitore, l'atteggiamento sprezzante 
                  di un potente. Anna lo riconobbe come un politicante di destra 
                  che aveva visto qualche volta in televisione. 
                  La parata era accompagnata da un tombale silenzio degli spettatori, 
                  che andavano piano piano riempiendo i marciapiedi del viale, 
                  stipandosi uno dietro l'altro, allungando il collo per osservare 
                  meglio. Il silenzio di chi non sa cosa succederà, ma 
                  teme di intuirlo. 
                   
                  47. Oggi 
                  L'agitazione impediva ad Anna di aprire il portone della sua 
                  Proprietà: dovette fare almeno tre tentativi prima di 
                  riuscirci. Rimase qualche secondo in ascolto, con la mano sulle 
                  chiavi già dentro la serratura, prima di entrare nella 
                  sicurezza di ciò che era suo. Gli spari della città 
                  continuavano a rompere il silenzio spettrale che assorbiva la 
                  valle. 
                  Entrò nella Proprietà e chiuse il portone con 
                  il catenaccio. Era preoccupata e non riusciva a calmarsi. Cosa 
                  stava succedendo? Petra stava bene? Era una follia mettersi 
                  contro l'esercito e le guardie del Campione, li avrebbero massacrati. 
                  Accese la televisione, sperando di trovare notizie su quanto 
                  stava accadendo, ma stava trasmettendo un varietà. Lo 
                  seguì per qualche minuto, poi si alzò dalla poltrona 
                  e scolò le lenticchie che aveva messo a mollo la sera 
                  precedente. Le sciacquò e le versò in un recipiente, 
                  tagliò un paio di carote in piccoli pezzi e li mise a 
                  soffriggere con aglio, olio, peperoncino e patate in una pentola 
                  di terracotta. Versò le lenticchie, aggiunse l'acqua 
                  e chiuse la pentola con un coperchio. In una mezz'ora sarebbero 
                  state pronte, ma aveva molta fame e sapeva che non avrebbe resistito 
                  tutto quel tempo: tagliò una fetta di pane e la bagnò 
                  con olio e un pizzico di sale. Diede un morso soddisfatto al 
                  suo antipasto e sentì che il groviglio che aveva dentro 
                  si andava sfilando poco a poco. 
                  Si sedette sulla poltrona per guardare il varietà. Sfilavano 
                  cantanti, ballerine e comici. Le piaceva in particolare un tipo 
                  con un accento meridionale che imitava perfettamente Michael 
                  Jackson. 
                  Improvvisamente la trasmissione s'interruppe, lo schermo diventò 
                  grigio e un fruscio sostituì i suoni allegri del varietà. 
                  Il collegamento riprese e lo schermo si riempì del viso 
                  stanco e fermo di Petra: 
                   
                  Cittadini italiani, compagne e compagni, con grande piacere 
                  vi annuncio il crollo del regime del Campione. Il dittatore 
                  che per decenni ha oppresso le nostre vite e la nostra libertà 
                  è stato oggi arrestato dall'Esercito del Popolo, sotto 
                  mio comando, e si trova ora in attesa di giusto processo.  
                  Il Partito Rivoluzionario ristabilirà libertà 
                  e democrazia per la nostra gente, derubata da un'oligarchia 
                  che perderà tutti i privilegi di cui ha goduto finora: 
                  una nuova società ci aspetta, un paese senza classi dove 
                  il potere apparterrà al popolo sovrano, a ciascun cittadino, 
                  che mai più sarà suddito di un governo mafioso 
                  e corrotto. 
                   
                  48. Ieri 
                  Scese dal carrarmato facendo attenzione a non perdere l'equilibrio. 
                  Una fila di militari disposti di fronte al Palazzo si mise sull'attenti. 
                  Il Campione inspirò profondamente, gonfiò il petto, 
                  irrigidì la mascella e rispose al saluto. 
                  Chi l'avrebbe mai detto che sarebbe arrivato tanto in alto! 
                  La vita gli aveva riservato molte sorprese, ma questo era un 
                  vero e proprio miracolo. Ripensò ai compagni di scuola 
                  che lo prendevano in giro per l'altezza, a quelli dell'università 
                  che si burlavano della calvizie, problema che negli anni successivi 
                  sarebbe diventato un vero e proprio dilemma. Ricordò 
                  tutte le donne che lo avevano rifiutato perché grasso, 
                  antipatico, alcune addirittura perché stupido. E i professori 
                  che lo bocciavano ripetutamente agli esami, i colleghi di partito 
                  che gli davano dell'opportunista, del debole, del babbeo. 
                  Tutto il paese, forse tutto il mondo, lo stava osservando mentre 
                  saliva le scale del Palazzo e andava incontro alla sua gloria, 
                  verso il tempo in cui tutti lo avrebbero riverito e amato. Attraversò 
                  il grande portone con la testa alta e le spalle avvolte in un 
                  mantello che lo faceva sentire un Napoleone. Percorse il cortile 
                  centrale osservando i marmi e le ricchezze che presto sarebbero 
                  state sue, dirigendosi verso la sala predisposta per il suo 
                  discorso d'insediamento, scritto in un fax ricevuto qualche 
                  giorno prima da un paese lontano. 
                  Salì sulla pedana e guardò il pubblico: i suoi 
                  ministri, i sottosegretari, i portaborse e qualche giornalista. 
                  Una leggera tachicardia lo vinse una volta che si trovò 
                  pressato dagli sguardi ruffiani e vuoti dei presenti. Guardò 
                  la telecamera, inspirò profondamente, sfoderò 
                  il suo sorriso migliore e iniziò a leggere: 
                   
                  Cittadini italiani, è con grande piacere che vi annuncio 
                  la fine del periodo del Caos, che lascerà posto a una 
                  nuova era di ordine e progresso. Ristabiliremo libertà 
                  e democrazia per il nostro popolo, derubato dalle razzie e dalla 
                  violenza degli ultimi giorni, grazie al Piano di Rinascita Nazionale 
                  ideato dal Nuovo Partito Oltreumanista. Grazie alle nuove scoperte 
                  scientifiche, il Partito permetterà a ogni cittadino 
                  di allungare la propria vita ed intervenire sul proprio cervello 
                  per aumentarne le capacità. Un lungo periodo di benessere, 
                  prosperità e democrazia è alle porte. 
                  Rialzati Italia! E che Dio mi benedica! 
                   
                  Anna e Cinzia ascoltavano la radio con sguardo assente. Sapevano 
                  di non aver più forza per resistere sulle barricate, 
                  sapevano di aver perso. 
                   
                  49. Oggi 
                  «Spero capirai che in questo momento non ho molto tempo 
                  libero», dice Petra versando un cucchiaio di fruttosio 
                  nel caffè di zucca. 
                  «Sì, sinceramente pensavo non mi avresti neanche 
                  ricevuta.» 
                  «Cosa non si farebbe per una vecchia amica!», esclama 
                  con un sorriso amaro. 
                  «La vostra nuova sede sembra molto più accogliente 
                  del vecchio quartier generale. Il tuo ufficio soprattutto», 
                  nota Anna, guardando Petra sprofondata nella sedia in pelle 
                  dell'ex studio del Campione, nel Palazzo Presidenziale. 
                  «Già, ma immagino non sarai venuta fin qui per 
                  complimentarti della nostra nuova sede. Dimmi tutto.», 
                  l'incoraggia Petra. 
                  «Sono venuta per parlarti del fascicolo con i risultati 
                  delle ricerche di Antonio. Innanzitutto, ti volevo ringraziare 
                  per avermelo mandato.» 
                  «Figuriamoci, hai tutto il diritto di sapere com'è 
                  morto tuo marito.» 
                  «Davvero quello che c'è scritto sembra impossibile», 
                  dice Anna e subito dopo tacere, in attesa di un commento dell'amica 
                  che facilitasse la conversazione. 
                  Petra si alza e si dirige verso una cassettiera, da cui estrae 
                  un plico di fogli che porta fino alla sua scrivania. Indossa 
                  una camicia bianca molto semplice, ma la scollatura e i jeans 
                  attillati le conferiscono un'aria elegante. Si siede di fronte 
                  ad Anna, facendosi incorniciare dalla scrivania imponente, afferra 
                  una penna e inizia a firmare rapidamente i fogli che ha portato 
                  con sé, senza leggerne il contenuto. 
                  «Arriva al dunque Anna, scusami ma proprio non ho tempo.» 
                  «Vorrei che mi aiutassi a identificare chi fra gli Amici 
                  della Libertà è coinvolto nella storia dell'influenza. 
                  Chi ha permesso l'utilizzo di cavie umane, chi ha inventato 
                  il virus, chi il vaccino e chi è il mandante dell'omicidio 
                  di Antonio.» 
                  Petra interrompe la firma dei documenti e le tira un'occhiata 
                  gelida: «E una volta che li avrai indentificati, che farai?» 
                  «Non lo so, ma in qualche modo sarà possibile punirli, 
                  no?» 
                  «Ti ho già detto che ti vai a mettere in una situazione 
                  più grande di te.» 
                  «Sì, ma ora le cose sono cambiate, avete preso 
                  il potere. Creerete un tribunale per punire gli Amici della 
                  Libertà, immagino. Il Ministro della Sanità, per 
                  lo meno, non la può certo passare liscia. E poi non si 
                  tratta solo di mio marito e di Antonio, chissà quante 
                  centinaia di persone sono morte per colpa di questi criminali. 
                  E tutti noi siamo stati ingannati», dice Anna concitata. 
                  Inizia a sentirsi come una bambina che supplica la madre di 
                  soddisfare un suo capriccio. 
                  Petra continua a guardarla, calma e ferma: «Capisco quello 
                  che vuoi dire, ma non è davvero possibile. Io e i miei 
                  collaboratori abbiamo mille cose da fare e non possiamo concentrarci 
                  su una tua vendetta personale.» 
                  «Non è una mia vendetta personale! Riguarda tutti, 
                  dobbiamo scovare questi porci e dare loro la giusta punizione.» 
                  «Mi spiace, Anna, ma non se ne parla proprio. Ora, per 
                  favore, se ti vuoi accomodare fuori; io ho molto lavoro da fare.» 
                  Anna rimane a fissarla per qualche secondo. Non può credere 
                  che la fame di giustizia di quella donna coraggiosa e determinata 
                  si fermi di fronte a qualche scartoffia burocratica. Petra sostiene 
                  lo sguardo accusatore di Anna e segue: «Sono cose su cui 
                  lavoreremo a tempo debito. Ora abbiamo altre priorità.» 
                  Anna si alza e raccoglie la giacca che ha appoggiato allo schienale 
                  della sedia. «Me ne vado, quindi. Grazie per avermi ricevuta, 
                  presidentessa». 
                  Un militare apre la grande porta dell'ufficio di Petra, Anna 
                  l'attraversa e si trova nel portico superiore del patio centrale 
                  del palazzo, dove le tozze colonne in marmo e la rigogliosa 
                  vegetazione tropicale impediscono una vista d'insieme. Scende 
                  per la larga scalinata bianca, puntellata da guardie in divisa 
                  con le armi in pugno, aumentando l'andatura a ogni gradino, 
                  per trovarsi il prima possibile fuori da quell'edificio che 
                  puzza di vecchio e violenza. 
                   
                  50. Oggi 
                  Il sacco oscilla come un pendolo impazzito. Paolo lo blocca 
                  facendosi schermo coi guantoni, poi li sfila e li getta sulla 
                  panca. Prende l'asciugamano e se lo passa sul viso, sulla testa 
                  quasi completamente rasata e sul petto, che il sudore ha reso 
                  brillante come la superficie del mare al tramonto. 
                  «Ciao», dice una voce lontana, rotta dal rumore 
                  della porta antipanico che le si chiude alle spalle. 
                  Si volta e vede una donna entrare dal fondo della palestra, 
                  minuscola in quell'ambiente tanto ampio. Il rumore dei passi 
                  rimbalza da una parete all'altra, rimbombando ritmicamente nel 
                  silenzio. La figura all'avvicinarsi s'ingrandisce e i suoi contorni 
                  si fanno sempre più delineati. Si ferma a una decina 
                  di passi da Paolo, dove lo spazio che li separa rivela già 
                  i dettagli del viso. 
                  «Che c'è? Non mi riconosci?» 
                  Paolo la guarda con occhi attenti, studiandone i lineamenti 
                  familiari, cercando dentro di sé un ricordo che lo aiuti 
                  a ritrovarne il nome. 
                  «Anna?» dice spalancando gli occhi. 
                  «Già», risponde lei sorridendo e allontanando 
                  lo sguardo per un istante. Anna ha vent'anni in più dal 
                  loro ultimo incontro, ma sembra ne siano passati almeno trenta. 
                  Indossa abiti semplici e tiene i capelli raccolti in una coda 
                  di cavallo. Il viso stanco conserva i tratti puliti di un tempo, 
                  ma la pelle sembra riuscire con fatica a resistere all'attrazione 
                  terrestre. Anche lo sguardo è cambiato, malgrado conservi 
                  l'atteggiamento determinato che Paolo ricorda. 
                  «Che ci fai qui?», chiede lui infilando una maglietta 
                  a mezze maniche. 
                  «Avevo bisogno di vederti e sono riuscita a scoprire dove 
                  trovarti. Mi spiace se ti disturbo, ma...» 
                  «No, non preoccuparti», la interrompe. «È 
                  un piacere vederti. È solo che davvero non me lo aspettavo», 
                  dice tentennando. «Dimmi tutto.» 
                  «Ho bisogno di parlarti di una questione molto importante.» 
                  «Senz'altro. Mi puoi aspettare fuori che mi faccio una 
                  doccia e ti raggiungo?» 
                  «Ok.» 
                  Anna sparisce nuovamente dietro la porta antipanico, mentre 
                  Paolo si avvia verso lo spogliatoio. Si fa una doccia tiepida, 
                  pensando a come risolvere la situazione. Non si aspettava che 
                  Anna lo avrebbe cercato. Petra gli aveva detto di averla trascinata 
                  a una riunione molti mesi prima e che Anna era diventata una 
                  donna completamente spenta. 
                  Chiude il rubinetto della doccia e indossa gli abiti puliti, 
                  infila quelli sporchi nel borsone e si appoggia la cinghia sulle 
                  spalle, facendolo penzolare dalla schiena. Esce dallo spogliatoio 
                  e fa un cenno di saluto al guardiano, seduto in un gabbiotto 
                  di fianco alla porta. 
                  «Arrivederci signor Ministro», dice il guardiano 
                  portandosi l'indice e il medio della mano destra alla fronte, 
                  facendo il saluto militare. 
                   
                  51. Oggi 
                  Anna guarda Paolo rovistare nel borsone che tiene appeso alla 
                  spalla. Studia con attenzione i tratti del viso dell'amico, 
                  che rispetto al loro ultimo incontro, più di vent'anni 
                  prima, si sono solo un po' induriti. Paolo tira fuori il berretto 
                  di lana blu che indossa sempre nei giorni freddi, e l'abbassa 
                  fino a coprire le orecchie. 
                  «Che dici, ci andiamo a fare un the caldo nel bar qui 
                  vicino?» 
                  Anna assente e afferra con entrambe le mani il bavero del cappotto, 
                  che si stringe sulla gola. Il vento taglia il silenzio della 
                  città addormentata e il buio del tardo pomeriggio pare 
                  il colore naturale di quella periferia solitaria, dove il cemento 
                  è interrotto solo da pochi alberi intirizziti. 
                  Quando si trovano seduti uno davanti all'altra, Paolo osserva 
                  nuovamente Anna, cercando di scoprire nei suoi gesti una tensione 
                  o un imbarazzo che ne tradisca le intenzioni; ma il suo viso 
                  non svela nessuna emozione, se non la serenità di una 
                  donna ormai lontana dalla gioventù nel gesto di colmare 
                  le tazze di the. 
                  «È passato davvero tanto tempo», dice Paolo 
                  mostrando il suo migliore sorriso. 
                  Sa che Anna da ragazza era attratta da lui e che gli anni trascorsi 
                  non gli hanno certo rubato fascino: a quasi cinquant'anni ha 
                  ancora un fisico decisamente atletico e il nero dei suoi occhi 
                  profondi e meridionali conserva la vivacità di un tempo. 
                  Anna, che non sa che a Paolo non piacciono le donne, lo fulmina 
                  con lo sguardo fermo di chi non è disponibile a cedere 
                  a un gioco seduttivo. 
                  «Sono venuta per chiederti aiuto. Ho già parlato 
                  con Petra, ma è immersa in mille cose e dice che la mia 
                  questione non è prioritaria. Per me invece lo è.» 
                  «Innanzitutto dimmi di che si tratta», dice Paolo 
                  fingendo interesse. Afferra la tazza con entrambe le mani e 
                  dà una breve sorsata al the, ancora troppo caldo. 
                  «Sai la verità sull'influenza ovina? Conosci i 
                  risultati delle ricerche di Antonio?», chiede Anna abbassando 
                  la voce. 
                  «No», mente lui. 
                  Anna fruga nella borsa ed estrae un pacchetto di sigarette. 
                  Ne ha sempre uno con sé, anche se non fuma quasi mai, 
                  e sente che il quel momento una sigaretta l'avrebbe aiutata 
                  a distendere i nervi e raccogliere i pensieri. 
                  «Sono entrata in possesso dei risultati della ricerca 
                  sull'influenza ovina di Antonio, uno studente di biologia che 
                  lavorava con voi», esordisce Anna prima di sbuffare fuori 
                  il fumo. «Antonio è stato ucciso.» 
                  «Sì, lo sapevo. Non conoscevo bene Antonio, ma 
                  so cosa gli è successo.» 
                  «L'hanno ammazzato in casa mia.» 
                  «Questo invece non lo sapevo», dice Paolo guardandola 
                  negli occhi per camuffare la menzogna. 
                  «È stato ucciso a causa di quello che aveva scoperto.» 
                  «Cioè?», chiede Paolo picchiettando l'accendino 
                  sul tavolo. Percepisce una determinazione nella voce di Anna 
                  che cozza con la descrizione che ne aveva dato Petra tempo prima. 
                  «L'influenza ovina non viene dalle pecore, come ci hanno 
                  fatto credere. È stata creata in laboratorio dagli Amici 
                  della Libertà, e sperimentata su delle cavie umane senza 
                  il loro consenso: sono stati rapiti alcuni dissidenti politici 
                  e poi, grazie ad un macchinario oltreumanista, hanno cancellato 
                  nella loro memoria il ricordo di quello che era successo. La 
                  cavia n°34 era Gabriele, mio marito, che a seguito della 
                  cancellazione del ricordo soffriva di vuoti di memoria.» 
                  Paolo inscena un sorriso amaro, ruba una sigaretta dal pacchetto 
                  di Anna e la accende. Vorrebbe che si zittisse per non sentirsi 
                  costretto a segnalare la vecchia compagna. 
                  «Perché gli Amici della Libertà avrebbero 
                  dovuto diffondere un virus?» 
                  «Per seminare il terrore: il popolo impaurito è 
                  più debole e meglio disposto ad accettare leggi liberticide, 
                  che infatti proprio in quei giorni sono state approvate», 
                  dice Anna stupita dell'ingenuità di Paolo. «Le 
                  analisi di Antonio dimostrano che alcune delle iniezioni subite 
                  dalle cavie erano molto pericolose per l'organismo. Gabriele 
                  è morto a causa delle iniezioni, non dell'influenza ovina, 
                  che è una grandissima menzogna: è una normale 
                  influenza, creata dagli Amici della Libertà per seminare 
                  il panico nella popolazione e vendergli poi il vaccino, creato 
                  da loro stessi. Un grande affare per gli Amici della Libertà 
                  dal punto di vista politico, ma anche economico, visto che lo 
                  Stato ha comprato alla ditta del Campione milioni di vaccini 
                  contro una malattia che non esiste.» 
                  Paolo la ascolta con il gomito sinistro appoggiato al tavolo 
                  e l'indice sulle labbra. La mano destra avvolge fiaccamente 
                  la tazza di the, ormai freddo. Scuote leggermente la testa e 
                  aggrotta la fronte fino a far incontrare le sopracciglia. 
                  «Sei sicura di quello che dici?», chiede per prendere 
                  tempo. 
                  «Assolutamente sì.» 
                  «E perché sei venuta a cercarmi?» 
                  «Per chiederti di aiutarmi a trovare i colpevoli.» 
                  «Come ti ha detto Petra, abbiamo altre priorità 
                  in questo momento. E anche volendo, non posso prendere iniziative 
                  senza il suo consenso.» 
                  «Allora ti chiedo di insistere con Petra affinché 
                  questa faccenda diventi una priorità. Non capisco come 
                  possa non esserlo.» 
                  «Ci proverò Anna, ma non ti posso assicurare niente.» 
                  «Non mi darò per vinta, se non mi appoggerete cercherò 
                  l'aiuto di qualcun altro, o farò da sola. Basterà 
                  diffondere la notizia: l'indignazione nell'opinione pubblica 
                  sarà così forte che tutti vorranno giustizia.» 
                  Paolo la guarda muto. La vita di Anna è nelle sue mani, 
                  che non si rende conto di quello che sta rischiando. 
                   
                  52. Oggi 
                  Paolo batte con decisione il tacco e fa il saluto militare. 
                  Non ha mai indossato un'uniforme, quando da ragazzo ha ricevuto 
                  la chiamata alla leva ha fatto obiezione di coscienza. Il tessuto 
                  della divisa è spesso e non cede ai movimenti che il 
                  corpo cerca di imporgli, costringendolo in una posizione rigida 
                  che lo fa sentire forte e importante. 
                  «Siediti pure», dice Petra indicando la sedia davanti 
                  a sé. 
                  Paolo la scosta dal tavolo, toglie il cappello che gli opprime 
                  la fronte e si siede, appoggiandolo sulle ginocchia. 
                  «Come stai?» 
                  «Bene, l'assenza del Campione mi ha alleggerito la vita», 
                  risponde Petra sprofondando nella poltrona di pelle. 
                  «Già, questa volta è davvero finita. E il 
                  popolo è con noi: stiamo trionfando!» 
                  «Ti posso offrire un caffè? Ho caffè di 
                  caffè», dice Petra andando verso il tavolino dove 
                  si trova il bollitore. 
                  «Certo, come rifiutare un caffè di caffè.» 
                  Petra riempie due tazze, ne posa una di fronte a Paolo e si 
                  risiede. 
                  «Al telefono hai detto che avevi bisogno di parlarmi urgentemente.» 
                  «Non so come uscire da una situazione in cui mi trovo. 
                  Ho pensato che avresti saputo consigliarmi», dice Paolo 
                  con gravità. 
                  «Dimmi tutto.» 
                  «Anna mi ha trovato. È spuntata all'improvviso, 
                  non so da dove, davvero non me l'aspettavo. Vuole che la aiuti 
                  a cercare i responsabili dell'influenza ovina.» 
                  «Uf, non si perde d'animo», nota Petra stupita. 
                  «Non capisco perché le hai permesso di leggere 
                  il fascicolo di Antonio.» 
                  «Lo so, ho sbagliato, mi sono fatta intenerire dai vecchi 
                  ricordi. Suo marito è morto perché era stato utilizzato 
                  come cavia, ho pensato fosse giusto lo sapesse, è una 
                  vecchia amica. E non mi sembrava certo il tipo che avrebbe sollevato 
                  un polverone», spiega atona come chi confessa un errore. 
                  «Mi ha detto che se non l'aiuterò a scoprire i 
                  colpevoli renderà pubblica la faccenda.» 
                  «Certamente non possiamo dirle chi sono i reali responsabili. 
                  Anche a me non piace molto questa gente, ma avevamo bisogno 
                  dell'appoggio di una parte degli Amici della Libertà 
                  perché la nostra operazione riuscisse. Ora sono con noi, 
                  evidentemente Anna non se n'è accorta ma gli abbiamo 
                  dato posti chiave nel Ministero, in politica bisogna saper fare 
                  dei compromessi», dice Petra aprendo le mani come a recitare 
                  il Padre Nostro. «Non ci restano che due opzioni: trovare 
                  dei capri espiatori da mandare in carcere al posto degli Amici 
                  della Libertà, o segnalare Anna alla polizia. Scegli 
                  tu.» 
                   
                  53. Oggi 
                  Anna apre la porta scricchiolante del ripostiglio, dove sempre 
                  più spesso cerca il suo passato. Sposta alcuni scatoloni 
                  e scosta un lenzuolo che fa da sipario a un mobile. La sua vecchia 
                  libreria è rimasta lì tutti quegli anni, a custodire 
                  il tesoro di cui non è stata capace di disfarsi. Guarda 
                  emozionata i volumi disposti uno di fianco all'altro e prende 
                  un tomo spesso e compatto, con una copertina verde consumata 
                  dall'umidità. Un ovale racchiude la foto in bianco e 
                  nero del viso ottocentesco dell'autore: un giovane dai tratti 
                  scarni attraversato da un paio di baffi sottili. Passa le dita 
                  sul bordo e annusa le pagine, poi si mette a scorrerle lentamente 
                  facendole cadere dal pollice con cui le tiene. Si ferma su di 
                  una che ha segnato a matita, traboccante dell'amore del giovane 
                  Proust per Gilberte, e legge: 
                   
                  Senza dubbio, le varie ragioni che mi rendevano così 
                  impaziente di vederla sarebbero state meno imperiose per un 
                  adulto. Più tardi, divenuti abili nella coltivazione 
                  dei nostri piaceri, ci capita di accontentarci di quello che 
                  proviamo pensando a una donna come io pensavo a Gilberte, senza 
                  preoccuparci di sapere se questa immagine corrisponda alla realtà, 
                  e anche di quello che deriva dall'amarla senza avere la certezza 
                  che lei ci ami; o, ancora, di rinunciare al piacere di confessarle 
                  il nostro sentimento per mantenere più vivo quello che 
                  lei prova per noi, imitando quei giardinieri giapponesi che, 
                  per ottenere un fiore più bello, ne sacrificano parecchi 
                  altri. Ma quando amavo Gilberte, io credevo ancora che l'Amore 
                  esistesse al di fuori di noi; che, consentendoci tutt'al più 
                  di rimuovere gli ostacoli, ci offrisse le proprie gioie in un 
                  ordine nel quale non eravamo liberi di introdurre alcun cambiamento; 
                  mi sembrava che se, di testa mia, avessi sostituito alla dolcezza 
                  della confessione la simulazione dell'indifferenza, non solo 
                  mi sarei privato di una delle gioie più vagheggiate, 
                  ma mi sarei costruito a modo mio un amore artificioso e privo 
                  di valore, di rapporto col vero, del quale avrei rinunciato 
                  a seguire i misteriosi e già tracciati sentieri4. 
                   
                   
                  Legge lentamente, assaporando ogni lettera, godendo del suono 
                  che le parole cantano nella sua testa e della verità 
                  che il loro intreccio scopre. Legge fin quando le lacrime le 
                  annebbiano la vista, e sorride felice come non si sentiva da 
                  molto tempo. 
                   
                  54. Oggi 
                  L'auto frena bruscamente nell'aia, sollevando la polvere che 
                  copre il ghiaino. Il maggiore Cesare Ulivi scende, appoggia 
                  la mano destra sul fianco e inarca la schiena all'indietro per 
                  scioglierla. Poi scrocchia rumorosamente le falangi di entrambe 
                  le mani e infila i guanti di pelle nera. 
                  La luna quasi piena illumina la notte intiepidita dal sole, 
                  che durante il giorno non lascia tregua. Il fitto silenzio notturno 
                  è coperto dalle televisioni delle case attorno all'aia: 
                  il giovedì sera alla tv passano Sospirando e nessuno 
                  mette il naso fuori casa. 
                  Ulivi è stanco di quella routine e avrebbe passato volentieri 
                  più tempo a casa con la famiglia. La moglie, le due figlie, 
                  i cani di razza e l'immenso giardino sono ormai momenti di passaggio 
                  nella sua vita: da anni la sua quotidianità è 
                  fatta di case povere, spoglie di arredamento e profumi, di piatti 
                  rotti e urla di madri che gli si aggrappano all'uniforme, nell'ultimo 
                  ed inutile tentativo di salvare i propri figli. 
                  All'inizio Ulivi amava quel lavoro, che gli permette di pulire 
                  ciò che di più immondo produce la società, 
                  ma da tempo ha iniziato a contare i mesi che lo separano dalla 
                  pensione. 
                  «Maggiore, secondo i dati catastali la casa presenta un'uscita 
                  nel fondo attraverso la quale la ricercata potrebbe scappare», 
                  lo avvisa Marcelli. 
                  «Bene, voglio due uomini davanti a quella porta», 
                  ordina. 
                  Con una rapida occhiata Cesare Ulivi controlla la posizione 
                  dei suoi, bussa all'uscio e chiude le mani in un pugno, che 
                  nasconde dietro la schiena. 
                  «Apra, esercito», dice dopo qualche secondo di silenzio. 
                  «Apra, esercito», ripete battendo con forza il palmo 
                  contro la porta. 
                  Anna apre lentamente e punta gli occhi nei suoi. 
                  «La dichiaro in arresto per cospirazione contro la democrazia», 
                  dice il maggiore spingendo l'uscio fino a farlo spalancare. 
                  Anna non si muove e tiene lo sguardo fisso sul viso di Ulivi, 
                  che lo getterà dove ha dimenticato tutti gli occhi disperati 
                  incrociati in quegli anni. Ma Anna non è disperata, e 
                  tiene la testa ben alta quando le manette si chiudono intorno 
                  ai suoi polsi, mentre la casa viene sconvolta alla ricerca di 
                  qualcosa che non c'è. 
                   
                  55. Oggi 
                  L'aria puzza di asfalto bruciato dal sole. Anna sente la corda 
                  stringerle i polsi ogni volta che il prigioniero davanti a lei 
                  si dimena. Il ragazzo piange, chiede pietà e urla che 
                  non ha fatto nulla contro il regime. La schiena è percorsa 
                  da ferite profonde e continua a perdere sangue dalla testa. 
                  Anna guarda la ragazza alle sue spalle, legata alla solita corda 
                  che tiene tutta la fila di prigionieri: ha i piedi tumefatti 
                  e fa fatica a stare in piedi, ma non piange né parla. 
                  Alza la testa e mostra un paio di occhi azzurri e silenziosi, 
                  incavati in un viso violentato. La riconosce come la sua compagna 
                  di cella, una napoletana che fa da assistente a un professore 
                  di sociologia. 
                  Quando abbassano la pedana dell'aereo militare, il calore ha 
                  immobilizzato l'aria e i prigionieri vengono fatti salire lentamente. 
                  «Viva l'anarchia!», urla qualcuno nel silenzio insopportabile. 
                  Uno dei militari spara una raffica, colpendolo alle gambe per 
                  non permettergli di alleviare la paura con la morte. 
                  Anna s'incammina serena verso la pancia dell'aereo. Non le importa 
                  di morire, per lei la vita non ha molto senso: il mondo non 
                  le piace, ma non ha abbastanza fiducia negli altri per immaginarne 
                  uno differente. 
                  L'aereo decolla e nel buio molti iniziano a piangere, alcuni 
                  a pregare. Quando il portellone sotto i loro piedi si apre, 
                  Anna pensa a sua madre. Poi chiude gli occhi e si lascia tirare 
                  dal peso che la lega agli altri: si sgranano nel cielo come 
                  una collana di perle quando si rompe il filo, nell'aria carica 
                  del mezzogiorno, verso la profondità di un mare che sarà 
                  la loro quiete. 
                   
                   
                  EPILOGO 
                   
                  56. Domani 
                  Itzae cammina sul bagnasciuga. La risacca lascia una lunga impronta, 
                  una sottile pellicola di mare che si fa assorbire dalla sabbia, 
                  ritirandosi fino all'oceano. I granchi corrono velocemente sull'arena 
                  compatta e i pellicani attraversano il cielo a piccoli stormi, 
                  pescando il becco in mare. Alcuni bambini con l'acqua alle ginocchia 
                  tirano le reti, raccogliendole dopo pochi istanti piene di pesci. 
                  Itzae guarda l'orizzonte come se possa svelare l'origine della 
                  forza del Pacifico, che s'increspa in onde alte metri e si assottiglia 
                  poi fino alla riva. Si siede all'ombra di una palma, accertandosi 
                  che i cocchi siano ben ancorati alla cima: pochi mesi prima 
                  è morto un francese a cui ne è caduto uno sulla 
                  testa. 
                  Guarda le estremità della spiaggia che si perdono nel 
                  vapore alzato dalle onde, e pensa al suo mare quando si rompe 
                  contro la scogliera. La sua terra è così lontana 
                  che non sa in quale direzione guardare per immaginarla, e il 
                  ricordo tanto confuso che solo certi odori lo possono richiamare. 
                  Si mette a riflettere su quello che sta succedendo nel suo paese, 
                  che la storia continua a martoriare. Pensa a tutto quello che 
                  ha imparato durante il suo lungo viaggio e che i compagni in 
                  Italia, vinti dall'ennesima dittatura, non possono immaginare. 
                  Si chiede se siano tutti vivi, se fra loro ci siano morti o 
                  desaparecidos. 
                  Un cocco cade a un metro da lei, con un tonfo pieno e sordo. 
                  “È il momento di tornare a casa” pensa, seguendo 
                  con lo sguardo uno stormo di uccelli che sorvola la cresta di 
                  un'onda. 
                   
                  57. Domani 
                  È strano vedere i grandi alberghi trasformati in magazzini. 
                  La zona hotelera di Cancún, venti chilometri di costa 
                  caraibica occupati da blocchi di cemento per visitatori a cinque 
                  stelle, dalla Fine del turismo è diventata un immenso 
                  deposito di beni di lusso: caffè, cacao, gas, petrolio. 
                  Tutto ciò che in Europa non si da, o s'incontra con difficoltà, 
                  continua a lasciare i porti delle Americhe a beneficio delle 
                  élite del vecchio mondo che, per evitare disordini, lo 
                  hanno tenuto nascosto. 
                  Itzae guarda la spiaggia di Cancún e sente qualcosa bruciarle 
                  dentro: si trova sulla costa caraibica messicana quando arrivò 
                  la Fine, costringendola a rimanere in quella parte di mondo. 
                  In realtà, fino a quel momento non è mai stata 
                  tentata dalla voglia di tornare nel suo paese. 
                  Ricorda la spiaggia allora, quando era un'infinita estensione 
                  di sabbia bianca tenuta dal mare blu e turchese. Ora il traffico 
                  del porto ha formato grandi macchie di catrame sull'arenile, 
                  trascinate da un mare verde e denso come olio di un frantoio 
                  di campagna. Gli hotel che si estendono alle spalle della spiaggia, 
                  convertiti in depositi, hanno perso la lucentezza di un tempo: 
                  le facciate sono annerite e i giardini trasformati in discariche 
                  di rifiuti. 
                  Raggiunge il pontile e cerca Santiago, che le fa un cenno con 
                  il capo e s'incammina dietro un muro di container, dove Itzae 
                  lo segue. 
                  «Entra in questo container, non chiuderò la porta 
                  ermeticamente. Una volta che la nave è partita, solo 
                  quando sarà partita, puoi uscire e raggiungere il ponte. 
                  Lì lavora gente fidata, ma non andare in nessun'altra 
                  parte della nave che se ti vedono passo dei guai. Sale, güerita?». 
                  «Andale, compañero». 
                  Abbraccia Santiago e lo ringrazia, lui sorride e apre la porta 
                  del container. Itzae entra e si siede su una montagna di chicchi 
                  di cacao, ne afferra una manciata e la illumina con il fascio 
                  di luce che entra da una fessura. Pensa a Shun, quando le raccontava 
                  che i suoi avi maya utilizzavano il cacao come moneta. 
                  Sente un rombo stridente e il container sollevarsi e ondeggiare 
                  in aria, come una giostra del luna park. Quando finalmente tocca 
                  la stiva della nave, Itzae dà una forte testata contro 
                  una delle pareti. Impreca e preme la testa con il palmo della 
                  mano nel punto che duole. Dopo qualche istante sente il motore 
                  della nave e un rumore di catene, probabilmente l'ancora. Itzae 
                  percepisce la leggerezza che accompagna il lasciarsi andare 
                  in mare, allenta la presa della mano sulla testa e aspetta un 
                  tempo prima di uscire. 
                  Quando raggiunge il ponte, i marinai sono così in fermento 
                  che nessuno fa caso alla sua presenza. Un uomo apre la gabbia 
                  di un bellissimo gallo, piumato con colori accesi e limpidi. 
                  Quando lo solleva, afferrandolo come se stesse portando l'acqua 
                  alla bocca, quello inizia ad agitare con furia le ali. Lo lancia 
                  al centro del crocchio di persone che si era formato sul ponte, 
                  dove lo aspetta un altro gallo. Una volta uno di fronte all'altro, 
                  orgogliosi di trovarsi al centro del palenque, i due aprono 
                  le piume del collo come pavoni. Si muovono in circolo, studiandosi 
                  come fanno i boxeurs, per poi saltare al centro del ring e incontrarsi 
                  in aria. Itzae si allontana schifata da quel mucchio di marinai, 
                  che sui galli hanno scommesso buona parte del salario, perdendo 
                  l'istante in cui un volatile conficca la lama che gli hanno 
                  cucito alla zampa nel collo dell'avversario, uccidendolo. 
                  Itzae appoggia i gomiti sul parapetto ruvido di salsedine, si 
                  sporge e osserva il mare inghiottire la terra che per tanto 
                  tempo è stata sua, mentre la luna piena illumina il contorno 
                  sempre più lontano di una collina. Un uomo la guarda 
                  e le sorride: evidentemente sa chi è e che sta tornando 
                  al suo paese. Ma il motivo che la spinge a tornare non può 
                  davvero immaginarlo. 
                   
                  58. Domani 
                  Genova vista dal mare è diversa che da dentro. A bordo 
                  di un'imbarcazione si può penetrare lentamente scoprendo 
                  i moli del suo porto, le tante insenature che il mare ruba alla 
                  città. Vista dal mare quasi non sembra Genova, ma una 
                  montagna brulla appoggiata sull'acqua, su cui le case colorate 
                  s'impilano fino al Righi. Da laggiù solo s'intuiscono 
                  il campanile di San Lorenzo e la cupola di Carignano, il Matitone 
                  e la Lanterna che spuntano tra le gru del porto. La città 
                  vecchia dal mare non si vede: sa nascondere bene le sue chiese 
                  e i suoi vicoli, per non farsi trovare da chi non la capirebbe. 
                  Itzae non ha bisogno di vedere Genova per ricordarla, sa perfettamente 
                  il delinearsi confuso dei suoi vicoli, l'odore di piscio, farinata 
                  e kebab. Conosce le storie della Maddalena e della Croce Bianca, 
                  di sguardi nascosti dietro un bicchiere di asinello o una canzone 
                  di De Andrè, ma non per questo crede di averla capita. 
                  Genova è un mistero che non ha mai pensato di svelare. 
                  Scende dalla nave, si fa spazio tra le banchine del porto e 
                  s'incammina per via Gramsci. Ricorda il traffico di una volta, 
                  le macchine e i camion in uscita dai moli. Ora il viale è 
                  una striscia di cemento malmesso su cui si è sdraiata 
                  la sopraelevata. 
                  Arrivata alla Commenda s'infila in via Prè, cercando 
                  un poco del suo passato nel vicolo, ma non può ritrovare 
                  il suo tempo in quella desolazione, nel nulla in cui è 
                  caduto il caruggio, un tempo brulicante di voci mediterranee, 
                  nani che comprano madri e schiene per troppo tempo appoggiate 
                  alla stesso muro. In quel silenzio carico di umidità 
                  e salsedine Itzae non trova nessun ricordo. 
                  Attraversa la strada e imbocca Via del Campo, guidata da una 
                  luce che filtra da un cancello sulla cima del vicolo. Si affaccia 
                  alla grata e scopre un piccolo cortile, illuminato da una lampadina 
                  nuda. 
                  «È qui per il comizio?», chiede una signora 
                  anziana, rivolgendole lo sguardo muto con cui i liguri osservano 
                  i forestieri. 
                  «Sì.» 
                  «Allora prenda questo», dice sollevando uno straccio 
                  che copre il tavolo. Taglia una fetta di focaccia e gliela porge. 
                  «Viva Petra! Viva la Rivoluzione!» 
                  «Viva!», risponde Itzae raccogliendo la focaccia. 
                  Raggiunge Piazza Fossatello e scende ai portici di Sottoripa, 
                  affollati di suoni cavi che rimbombano nella volta. Dopo il 
                  silenzio chiuso dei vicoli, Itzae si trova improvvisamente inghiottita 
                  nella folla che la spinge in Piazza Caricamento, dove si stanno 
                  assiepando migliaia di teste rivolte nella stessa direzione. 
                   
                  59. Domani 
                  Petra parla dal palco allestito sotto Palazzo San Giorgio. Ha 
                  la voce e il viso appuntiti e indossa un'uniforme grigia. Itzae 
                  non ascolta quello che dice, solo tenta di studiare l'organizzazione 
                  dello spazio in cui si trova. 
                  Terminato il discorso, Petra s'incammina lungo il corridoio 
                  tracciato dalle guardie disposte a cordone. Itzae riesce a infilarsi 
                  sotto il braccio di uno dei militari che lo compongono, si para 
                  di fronte a Petra, afferra il coltello che tiene nella borsa 
                  e glielo conficca con forza nel petto, all'altezza del cuore. 
                  Avverte la durezza dello scheletro e il muscolo molle che sta 
                  per interrompere il suo incessante pulsare. Pensa a Gaetano 
                  Bresci, come lei partito dalle Americhe per uccidere re Umberto 
                  I, per dimostrare che l'iniziativa di un solo individuo può 
                  cambiare il corso degli eventi e un gesto deviare la storia 
                  verso un cammino inaspettato. 
                  Petra la fissa negli occhi per un istante, l'ultimo. Itzae estrae 
                  il coltello e il corpo uniformato cade in ginocchio, per poi 
                  accasciarsi al suolo. 
                  Itzae sente la pesantezza del silenzio in cui è caduta 
                  la piazza e, subito dopo, un frastuono di urla, mani e manganelli. 
                  Ma non importa, già non sta ascoltando. L'unica cosa 
                  che le importa è aver dimostrato che i potenti sono mortali 
                  e vincibili come tutti gli esseri umani. 
                   
                  Testo dell'interrogatorio a Gaetano Bresci, tessitore ed 
                  anarchico (29 agosto 1900): 
                  Presidente: «L'imputato ha qualcosa da aggiungere alla 
                  sua deposizione testé letta?» 
                  Bresci: «Il fatto l'ho compiuto da me, senza complici. 
                  Il pensiero mi venne vedendo tante miserie e tanti perseguitati. 
                  Bisogna andare all'estero per vedere come sono considerati gli 
                  italiani, ci hanno soprannominati maiali!» 
                  Presidente: «Non divaghi.» 
                  Bresci: «Se non mi fa parlare mi siedo.» 
                  Presidente: «Resti nel tema.» 
                  Bresci: «Ebbene, dirò che la condanna mi lascia 
                  indifferente, che non mi interessa punto e che sono certo di 
                  non essermi sbagliato a fare ciò che ho fatto. Non intendo 
                  neppure presentare ricorso. Io mi appello soltanto alla prossima 
                  rivoluzione.» 
                  Presidente: «Ammettete di avere ucciso il re?» 
                  Bresci: «Non ammazzai Umberto; ammazzai il Re, ammazzai 
                  un principio!» 
                   
                   
                  Note: 
                  1 John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere. 
                  Il significato della rivoluzione oggi. 
                  2 John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere. 
                  Il significato della rivoluzione oggi. 
                  3 Colin Ward, Anarchia come Organizzazione 
                  4 Marcel Proust, Dalla parte di Swann 
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