  
                 
				 
				
                   
                    Prosegue 
                        il dibattito su 
                        movimenti e potere 
                      Continua 
                        il dibattito su “movimenti e potere”, scaturito 
                        a seguito dei quattro articoli di Antonio Senta apparsi 
                        sulla rivista tra l'ottobre 2013 e il febbraio 2014 (Lotta 
                        di classe dei ricchi contro i poveri in “A”383 
                        ottobre; Volontà 
                        di rivolta in “A”384 novembre 2013; 
                        Mediterraneo, 
                        America Latina e Sudafrica in “A”385 
                        dicembre 2013 - gennaio 2014; Occupiamo 
                        il presente in “A”386 febbraio 2014). 
                        Fino a questo momento sono intervenuti Andrea Papi (Autogestione 
                        o lotta di classe? 
                        in “A”388), Andrea Aureli (Ma 
                        chi ha detto che c'è? in “A”388), 
                        Francesca Palazzi Arduini (Lo 
                        Stato non c'è (quasi) più in “A”389), 
                        Massimo Ortalli (Black 
                        block, G8, violenza, ecc. Danni irreparabili in 
                        “A”390), Andrea Staid (Posizioni 
                        antipatiche e poco efficaci in “A”390), 
                        Federico Battistutta (Mille 
                        piani in movimento in “A”390), Walter 
                        Siri (L'autogestione 
                        di oggi, le lotte di domani in “A”391), 
                        un compagno della Federazione Anarchica Reggiana (Non 
                        esistono scappatoie per pochi in “A”391) 
                        e Eugen Galasso (Ma 
                        non parliamo solo di classe operaia in “A”391). 
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				 Dibattito 
                  Movimenti e potere/10 
                 Lotta di classe e blocco nero: enigmatici strumenti di confusione 
                 Caro Walter, 
                  ringraziandoti per essere intervenuto sullo scorso numero di 
                  “A” (Walter Siri, L'autogestione 
                  di oggi, le lotte di domani, alle pp. 318-319 in “A”391) 
                  su una tematica che personalmente ritengo di primaria importanza, 
                  voglio chiarirti che non ho mai sostenuto che il dibattito sulla 
                  “lotta di classe” sia datato. Sostengo invece che 
                  è la stessa, in quanto tale, ad esser datata. So perfettamente 
                  che all'interno dell'area della “sinistra non istituzionale” 
                  il dibattito continua ad esser ritenuto attuale. Pensiero legittimo, 
                  esattamente come sostenere che le categorie e i percorsi intellettuali 
                  che la propugnano sono invece per lo meno estemporanei. 
                  Il fatto che una testa raffinata come Luigi Fabbri negli anni 
                  venti del secolo scorso, mentre il fascismo stava montando, 
                  sostenesse che si trattava di un attacco delle «classi 
                  dirigenti della società moderna (usa questa dizione 
                  nel suo capolavoro di analisi politica “La controrivoluzione 
                  preventiva”) contro il proletariato», ritengo 
                  che in un certo senso venga incontro a ciò che sto sostenendo. 
                  Fabbri aveva di fronte la situazione economico-politica e di 
                  composizione sociale di circa un secolo fa, completamente diversa 
                  da quella attuale fino a non esser paragonabile. Inoltre, qualificando 
                  con classi dirigenti della società moderna usa 
                  il concetto di classe nell'accezione sociologica di identificazione 
                  di categorie sociali, non in quella di condizione oggettiva 
                  determinata dalla struttura produttiva, che suggerì a 
                  Marx e Lenin l'ipotesi teorico/ideologica della “lotta 
                  di classe”. 
                  In scritti precedenti avevo proposto una distinzione convenzionale 
                  tra “scontri di classe (o tra categorie)” e “lotta 
                  di classe”. Per lo più rivendicativi e determinati 
                  da differenze tra strati sociali dove c'è chi è 
                  benestante in opposizione a masse che stanno male, gli scontri 
                  ci saranno sempre fino a quando continueranno a formarsi differenziazioni 
                  che determinano privilegi e sottomissioni. È giusto che 
                  ci siano e vanno incentivati. Altra cosa è la “lotta 
                  di classe”, strategia che propugna l'espropriazione del 
                  potere, pensata a seguito di una ben precisa visione ideologica 
                  di tipo economico-storicistico, secondo cui c'è un unico 
                  vero scontro epocale tra due categorie socio-economiche, nei 
                  termini allora ipotizzati oggi in via di estinzione, ritenute 
                  d'importanza prevalente rispetto a tutte le altre. 
                  Personalmente comprendo perfettamente il bisogno tutto psicologico 
                  e affettivo di rimanere collegati a ceppi e visioni che si continua 
                  a supporre eterni, non intaccabili dalle “naturali” 
                  trasformazioni sociali. Ma se si vuol riuscire a identificare 
                  mezzi e strumenti in grado di portare avanti forme di lotta 
                  e azioni che tornino ad essere efficaci al di là dei 
                  pregiudizi ideologici, questo legittimo bisogno non può 
                  sovrapporsi a quello di capire cosa stia succedendo. 
                  Ha senso continuare ad essere affezionati a categorie interpretative 
                  obsolete che fra l'altro, proprio per come sono state pensate 
                  e concepite, presumono visioni che possono facilmente confliggere 
                  con i valori e i presupposti nostri (come la conquista del potere 
                  e la supremazia di una classe su un'altra invece del superamento 
                  della divisione sociale in classi)? È curioso che quando 
                  si toccano questi tasti si reagisca facendo i salti mortali 
                  per sostenere l'insostenibile. A suo tempo, per esempio, l'”autonomia 
                  operaia” teorizzò che ogni condizione sociale subordinata 
                  si stava “proletarizzando” (che non si sa bene cosa 
                  voglia dire), forse insospettita da una vaga consapevolezza 
                  che il famoso proletariato dei bei tempi andati non rispondeva 
                  più alle caratteristiche per cui era stato definito e 
                  pensato dagli ideatori, appunto, della “lotta di classe”. 
                  Perché non si parla di “oligarchie dominanti”, 
                  invece di classi dirigenti o borghesi, che con maggior approssimazione 
                  risponderebbe a come stanno le cose in questa fase? La risposta 
                  che do è che c'è il bisogno, psicologico e non 
                  scientifico, di rimanere ancorati alla “sicurezza teorica” 
                  del carro che dovrebbe condurre alla presa di un potere, o da 
                  gestire dittatorialmente o da abbattere anarchicamente, ormai 
                  inesistente nella forma teorico-ideologica con cui fu ipotizzato. 
                  Ho sempre di più l'impressione che si faccia fatica ad 
                  accettare che il panorama della composizione economico-politica-sociale 
                  sia cambiato così radicalmente da essere irriconoscibile. 
                  Bisogna cominciare ad accettare che è fuorviante continuare 
                  a guardarlo con lo stesso sguardo e interpretarlo con le stesse 
                  categorie dei “bei tempi andati”. 
                  Penso che in questa fase il problema di fondo riguardi soprattutto 
                  qualità e condizioni di vita che i poco e non abbienti 
                  sono costretti a vivere, più che le condizioni dei rapporti 
                  di lavoro (come indicano le visioni di classe). La lotta per 
                  l'emancipazione allora invece che per una vittoria di classe 
                  è per il diritto alla dignità di esistere, riguarda 
                  cioè il tipo di vita, individuale e comunitaria, più 
                  che i rapporti di potere all'interno delle strutture produttive. 
                  Questo implica che dovremmo pensare e agire per cambiare la 
                  qualità della vita associata, in senso libertario e autogestionario, 
                  invece di lottare per prendere o distruggere il potere ai fini 
                  di ribaltare le condizioni di classe. 
                  In proposito, caro Walter, non è sufficiente propugnare 
                  l'autogestione. Se la scelta autogestionaria non è supportata 
                  da una chiara consapevolezza emancipatrice dei mezzi, degli 
                  strumenti, degli scopi e delle intenzioni si rischia, magari 
                  inconsapevolmente, di autogestire qualsiasi cosa, anche contraria 
                  ai presupposti, per noi irrinunciabili, di mutualità 
                  e libertà. Paradossalmente si può benissimo scegliere 
                  collettivamente, in modo correttamente autogestionario, di fare 
                  cose antiecologiche, o nazionaliste o addirittura pure razziste. 
                  Di per sé è un metodo non sufficiente. Va supportato 
                  con una progettualità e una consapevolezza condivise 
                  di voler effettivamente realizzare processi di liberazione e 
                  libertà autentiche. 
                  Per quanto riguarda il discorso sull'uso della violenza, mi 
                  piacerebbe che si riuscisse a rimaner fuori da ogni ambiguità. 
                  Nella mia polemica a Senta facevo riferimento alle logiche insurrezionaliste 
                  più che al violentismo, proprio perché anch'io 
                  ritengo che in caso di necessità non ci debbano essere 
                  remore ad usare forme di risposta violenta per difendersi dagli 
                  attacchi del potere. Ma, sottolineo, solo per difendersi. L'insurrezionalismo 
                  al contrario mi sembra si ponga come precisa logica di attacco 
                  al potere e dichiaratamente si propone di agire per abbatterlo 
                  o conquistarlo. Il che difficilmente può farlo passare 
                  per un momento difensivo. 
                  Inoltre non mi sono riferito in specifico al blocco nero, che 
                  mi appare una variante delle diverse forme di guerriglia urbana 
                  che di tanto in tanto tentano di rinnovarsi. Certamente non 
                  penso che sia ...uno degli strumenti che i movimenti hanno 
                  per difendersi... I black bloc finora si sono imposti come 
                  aggruppamenti formatisi per attaccare e contrastare le forze 
                  di polizia durante le manifestazioni di piazza. Non devono né 
                  vogliono rendere conto a nessuno delle loro scelte, né 
                  si preoccupano di avere consenso o approvazione, snobbando di 
                  fatto chiunque li disapprovi o simpatizzi per loro. Si impongono 
                  con la loro determinatissima presenza rendendo impossibile a 
                  chiunque di fermarli. Non mi sembra proprio una logica difensiva, 
                  né tanto meno un “semplice strumento” di 
                  non ben definiti movimenti. Essi sono esclusivamente strumenti 
                  di se stessi, caparbiamente ostili a chiunque si contrapponga 
                  alle loro pratiche offensive. 
                 Andrea Papi 
                  Forlimpopoli (Fc) 
                 
                 Dibattito 
                  Movimenti e potere/11 
                 Per una diversità delle pratiche 
                 Vorremmo tornare sul tema della rappresentazione della “violenza 
                  anarchica” su “A” rivista, dopo gli scambi 
                  sul n. 390, per offrire maggiori spunti di riflessione ai lettori. 
                  È infatti sorprendente la pressoché totale assenza 
                  sulla rivista di riferimenti alle azioni di settori dell'anarchismo, 
                  soprattutto giovanile, che rivendicano forme di azione diretta: 
                  se la dialettica azione diretta/repressione riempe, a volte 
                  in maniera stucchevole e poco costruttiva, intere riviste (Terra 
                  Selvaggia, La Miccia, Invece), su “A” si stenta 
                  a trovarne traccia. L'ottica con cui affrontiamo la faccenda 
                  è pratica: ovvero non ci interessa l'elaborazione teorica 
                  ma capire come posizionarci quotidianamente rispetto ad atti 
                  di compagni che utilizzano la forza. 
                  Il punto di partenza è cercare di discutere della “violenza” 
                  prodotta dai libertari per andare oltre l'immagine di un manifestante 
                  che cerca di danneggiare una banca circondato da mass media. 
                  Quella immagine non può esaurire i variegati intrecci 
                  tra settori del movimento anarchico e utilizzo della forza nel 
                  contemporaneo. Queste, in breve, sono alcune delle azioni condotte 
                  negli ultimi decenni in Italia. Alcuni utilizzano la forza per 
                  rompere le catene che chiudono le case quando si occupa; si 
                  utilizza il corpo per impedire gli sgomberi; si fa ricorso a 
                  cesoie e materiale incendiario per bruciare macchinari che perpetuano 
                  danneggiamenti all'ambiente; il furto a grandi imprese è 
                  considerato lecito da molti; altri hanno condotto sporadiche 
                  azione esplosive per minacciare e lesionare le istituzioni, 
                  a volte ferendo non i capi ma il personale salariato. Ricordiamo 
                  che storicamente il movimento anarchico ha sempre avuto frange 
                  non minoritarie dedite a varie forme di atti di forza, a volte 
                  esplosivi e omicidi. Il canzoniere anarchico è una testimonianza 
                  di un patrimonio storico di azioni dirette radicali. Negare 
                  o sottacere questa dimensione presente, con modalità 
                  diverse, in numerosi settori dell'anarchismo, ci sembra ipocrita. 
                  Un movimento anarchico assolutamente pacifista ci suona contraddittorio 
                  e inefficace: rivendicare un cambiamento radicale dell'ordine 
                  costituito (con relativo abbattimento delle strutture istituzionali, 
                  finanziarie, repressive ed economiche che lo sorreggono) è 
                  difficilmente pensabile senza una dose di utilizzo della forza. 
                  Sarebbe davvero ingenuo pensare che perché viviamo in 
                  una società sedicente democratica, i potenti si facciano 
                  da parte senza aver sperimentato l'intera gamma delle armi repressive 
                  a loro disposizione. In questa fase la violenza di Stato si 
                  esprime nell'uso massiccio e arbitrario degli attacchi giudiziari; 
                  non dubitiamo che se le crepe nel consenso alle istituzioni 
                  dominanti si accentueranno ulteriormente, rivedremo forme di 
                  coercizione più evidentemente violente. La dialettica 
                  potere-resistenza non ha il carattere della necessità 
                  storica ma il passato dimostra la sua ricorrenza. 
                  È chiaro che la forza messa in campo oggi non è 
                  paragonabile agli atti portati avanti nei decenni e nei secoli 
                  passati perché è mutato il contesto, ma sappiamo 
                  che una trasformazione passa anche dalle iniziative di singoli 
                  e gruppi che si mettono in gioco in forme di resistenza con 
                  il rischio della reclusione. Pensiamo che l'azione diretta e 
                  non solo la pubblicistica o i convegni, siano ingredienti imprescindibili 
                  per immaginare la trasformazione. Sappiamo che sono rischiose 
                  dato l'apparato investigativo e repressivo (tra l'altro perfezionato 
                  ulteriormente negli ultimi anni) in dotazione dello Stato. Non 
                  sappiamo con certezza quali azioni dirette abbiano successo 
                  oggi e quali siano quelle sconsigliabili. Rispettiamo chi rischia 
                  la propria libertà per inceppare la macchina. La coscienza 
                  collettiva cresce non solo nell'esercizio intellettuale ma nutrendosi 
                  di una varietà di stimoli tra cui l'utilizzo autonomo 
                  della forza. 
                  Crediamo che, come anarchici, sia cruciale distinguere con chiarezza 
                  la violenza prodotta dalle istituzioni che ci dominano e le 
                  reazioni degli oppressi. Le prime hanno caratteristiche di organizzazione 
                  sistemica, limitano le nostre libertà, colpiscono singoli 
                  con forme di reclusione, sono appoggiate dalla intera gamma 
                  di potentati contemporanei, sono legali. Le violenze di risposta 
                  – per semplificare quelle dal basso, anche quella del 
                  manifestante che si accanisce contro i simboli del capitale 
                  – sono illegali per definizione; spesso nascono da un 
                  accumulo di rabbia per subire in continuazione forme di limitazione, 
                  maltrattamento, danneggiamento dell'ambiente, negazione della 
                  dignità personale; sono intenzionate a colpire istituzioni 
                  potenti. Le violenze istituzionali colpiscono le persone, le 
                  resistenze quasi sempre oggetti. 
                  Ci teniamo anche a precisare che spesso ci sembra saggio sospendere 
                  il giudizio su molte di queste forme di azione diretta. È 
                  vero che se la polizia infiltra – come è successo 
                  – agenti per infiammare la piazza questo dovrebbe porre 
                  degli interrogativi a chi pensava che i danneggiamenti durante 
                  le manifestazioni penalizzassero il sistema. È vero che 
                  spesso gli atti di forza vengono utilizzati per criminalizzare 
                  il movimento nel suo complesso, ma è anche vero che questo 
                  viene fatto a prescindere: la soluzione non è cercare 
                  la protesta innocua per cercare di avere rappresentazioni simpatetiche 
                  su giornali e televisioni ma rassegnarsi al fatto che i media 
                  si muovono necessariamente per criminalizzare il dissenso e 
                  creare diversi canali di diffusione delle informazioni. Non 
                  vediamo la necessità di colpevolizzare sulla rivista 
                  (ci pensano già abbondantemente i mass-media) azioni 
                  che esprimono rabbia anche se si possono non condividerle come 
                  finalità e/o modalità. 
                  Per noi la vera domanda non è se una certa azione risponda 
                  appieno ai nostri canoni ma se è condotta dalle istituzioni 
                  che ci opprimono o – almeno come intenzione – contro 
                  di esse. Questo è il giudizio che ci interessa dare: 
                  aborriamo paternalismi, psicologismi, moralismi e lo snobbismo 
                  di chi si crede detentore della verità. Accettiamo la 
                  diversità delle pratiche. 
                  Molti casi di utilizzo della forza da parte di compagni si possono 
                  considerare semplicemente, come sono, azioni di singoli o di 
                  piccoli gruppi di cui si prendono le responsabilità, 
                  spesso subendo le conseguenze giudiziarie. Il movimento anarchico 
                  è notoriamente variegato anche nelle modalità 
                  di azione. Qualunque atto deve essere letto come espressione 
                  contestuale di chi la conduce. Ognuno in base alla età, 
                  credenze, rabbia, voglia di vendetta attiva modalità 
                  di sovversione di cui possiamo condividere le premesse ed esprimere 
                  una solidarietà di fondo, senza necessariamente sentirle 
                  completamente proprie. Crediamo che la critica non vada indirizzata 
                  a chi sceglie di rivoltarsi in modo più o meno convincente, 
                  organizzato, efficace ma agli oppressori. In questo senso lo 
                  storico slogan anarchico – pace tra gli oppressi, guerra 
                  agli oppressori – sintetizza al meglio quella che dovrebbe 
                  essere una modalità indispensabile per cercare di rafforzare 
                  il reciproco ascolto tra settori dell'anarchia che, infatti, 
                  tra accuse di violenza da una lato e di staticità e irrilevanza 
                  dall'altro, oggi spesso né si rispettano né collaborano.
                  Stefano Boni & Andrea Staid 
                  Modena - Milano 
                 
                 Dibattito 
                  Movimenti e potere/12 
                 Contro la storia, ma non restandone fuori 
                 Andrea Staid nel suo intervento Posizioni 
                  antipatiche e poco efficaci (“A” 390, p.114) 
                  ha gettato nello stagno un sasso che sembra aver irritato non 
                  poco Massimo Ortalli il quale - come firmatario del comunicato 
                  citato da Andrea - si è sentito punto nel vivo e parte 
                  in causa. Come critico feroce - all'epoca - di tale comunicato, 
                  reputo anch'io di dover intervenire per dire come la penso (e 
                  la pensavo allora). 
                  Se lo scritto di Andrea mi è parso molto equilibrato, 
                  con un invito al dibattito e alla riflessione su temi “scottanti”, 
                  all'inverso la risposta di Massimo (Black 
                  block, G8, violenza, ecc./Danni Irreparabili in “A” 
                  390, p.113) mi è parsa un collage di luoghi comuni 
                  e di furbizie dialettiche. 
                  Equivocare sul termine violenza (come fecero a suo tempo il 
                  governo, i media italiani, gli Agnoletto e Casarini) mi sembra 
                  veramente un astuto escamotage per evitare il confronto. 
                  Come già scrissi allora, “mi spiegate dov'è 
                  stata tutta questa violenza da dover prendere le distanze? Dove 
                  sono i poliziotti morti e feriti? Non so se ve ne siete accorti, 
                  ma l'unico sangue che si è visto è stato quello 
                  dei dimostranti. O - per voi - sono violenza una vetrina rotta, 
                  un cassonetto rovesciato, un'automobile data alle fiamme?” 
                  (“Basta di piagnistei”, 
                  “A” 278, febbraio 2002). L'assunto è 
                  talmente elementare che non posso credere che Massimo non sia 
                  riuscito (e non riesca tuttora) a cogliere la differenza tra 
                  un'azione dimostrativa contro le cose e la violenza contro degli 
                  esseri viventi. 
                  Se persino un movimento popolare come quello NO TAV, da sempre 
                  proclamatosi non-violento, è riuscito a comprendere la 
                  manipolazione che il potere fa del concetto di violenza (o peggio 
                  ancora di terrorismo) tanto da difendere, a spada tratta e senza 
                  mai fare distinguo, tutti coloro che sono accusati (compreso 
                  chi scrive) di atti violenti per aver difeso la Libera Repubblica 
                  della Maddalena o per gli attacchi dimostrativi contro il cantiere, 
                  non riesco proprio a capire come degli anarchici possano non 
                  avere chiara visione di questi problemi. 
                  Che senso ha parlare, nel caso Genova 2001, di “categoria 
                  della violenza”? Il problema non è affatto di carattere 
                  etico ma solo di scelta politica. Perché allora non avere 
                  il coraggio di ammetterlo semplicemente, senza tirare in ballo 
                  altri orpelli teorici, paludati di valori anarchici universali 
                  tirati per i capelli a sostegno delle proprie tesi? Una parte 
                  degli anarchici non condivide l'uso di certe pratiche di attacco, 
                  perché le ritiene controproducenti al coinvolgimento 
                  della gente comune. Va benissimo, siamo (o almeno dovremmo essere) 
                  un movimento pluralista, ognuno di noi è assolutamente 
                  libero di portare avanti le teorie e le prassi che più 
                  gli sembrano produttive al raggiungimento del fine comune. Ci 
                  sta, quindi, la non condivisione e la critica di quanto fanno 
                  gli altri anarchici (compresi naturalmente “A” e 
                  gli estensori del famoso comunicato). Ma, prima di tutto, occorre 
                  rispettare la verità dei fatti senza pretendere, non 
                  solo che la propria univoca posizione sia l'unica accettabile 
                  in una corretta visione anarchica, ma che trovi addirittura 
                  una giustificazione sul piano storico. 
                  La citazione di Enzesberger mi sembra assolutamente fuori luogo. 
                  Come fa Massimo, nel caso di chi rompe una vetrina, a parlare 
                  di “piacere della violenza”? Trovo antistorico quest'uso 
                  del passato, in cui si considera la violenza anarchica giustificabile 
                  dalla legittima difesa e tutti gli anarchici perfettamente coscienti 
                  di questo ogni volta che ricorrevano a mezzi violenti. Massimo 
                  conosce troppo bene la storia del nostro movimento (le posizioni 
                  inconciliabili e le polemiche feroci) per pensarlo. Da sempre 
                  l'uso della violenza e la concezione organizzativa sono state 
                  le due maggiori fonti di divisioni e lacerazioni. Non esistono 
                  numi tutelari (nell'Olimpo dell'anarchismo) che avvallano le 
                  nostre scelte presenti. In ogni epoca ogni anarchico si è 
                  dovuto confrontare con questi problemi sforzandosi di trovare 
                  la propria soluzione. Usando il metodo di Massimo, potrei all'inverso 
                  affermare che, sul piano storico, le posizioni di dissociazione, 
                  come quelle espresse dal comunicato in questione, si sono rivelate 
                  le meno aderenti alla realtà dei tempi e le più 
                  criticabili oggi. Penso agli anarchici laziali che censurarono 
                  il gesto di Gaetano Bresci, alla FORA argentina che condannò 
                  le azioni degli illegalisti per poi arrendersi senza alcuna 
                  resistenza alla dittatura militare (al contrario della CNT spagnola 
                  che si mantenne sempre in giusto equilibrio tra l'azione dei 
                  piccoli gruppi illegali e l'azione di massa). 
                  Quello che poi non ho capito, ritornando al G8 di Genova, è 
                  il passaggio sui compagni attualmente incarcerati, condannati 
                  a pene pesantissime per vendetta di Stato. Ovviamente non traspare 
                  nessuna solidarietà con chi è stato “violento”. 
                  Non sono cose che riguardano una rivista anarchica. Che alcune 
                  persone debbano scontare 10 anni di galera solo per aver infranto 
                  qualche vetrina, potrebbe al massimo indignare un sincero liberale 
                  garantista ma mai e poi mai un anarchico “non violento”. 
                  In fondo “stanno pagando per altri che già sapevano 
                  che non avrebbero pagato nulla”. E chi sarebbero questi 
                  altri? Quelli che obbedivano agli “ordini di questure 
                  e ministeri”? 
                  Ancora una volta sono riprodotti i cliché dei Black Bloc 
                  al soldo dei questurini. Accusa lanciata all'epoca dai Casarini 
                  e Agnoletto, senza mai provarla. È probabile che in piazza 
                  ci fossero infiltrazioni ma, è risaputo, l'opera di provocazione, 
                  sempre presente nella storia dei movimenti sociali, non è 
                  mai riuscita a essere determinante nelle rivolte di piazza, 
                  che esplodono per cause proprie indipendentemente dalle azioni 
                  di possibili agenti infiltrati (valga per tutti l'esempio del 
                  pope Gapon nella rivoluzione russa del 1905). Se fosse corretta 
                  questa mia interpretazione del passo citato (altrimenti invito 
                  Massimo a chiarire meglio quanto espresso) i compagni attualmente 
                  in carcere sarebbero doppiamente dileggiati: non degni di solidarietà 
                  reale perché autori di gesti “violenti” eticamente 
                  non condivisibili e nemmeno degni di rispetto per le proprie 
                  scelte in quanto utili idioti eterodiretti da “questure 
                  e ministeri”. Peggio di così. 
                  Anche il racconto del casseur madrileno col codazzo di 
                  fotografi mi sembra più una nota di colore - in perfetto 
                  stile giornalistico - che una valida argomentazione. Non è 
                  certo colpa di chi compie un'azione se il minimo gesto illegale 
                  trova eco mediatica più di un pacifico corteo di massa. 
                  Seguendo il ragionamento di Massimo, se s'invertisse la tendenza 
                  e la stampa ignorasse gli incidenti di piazza dando invece ampio 
                  spazio alle manifestazioni “tranquille”, dovremmo 
                  smettere di farle per non diventare tutti parte di “una 
                  performance teatrale con la sceneggiatura di prammatica se non 
                  un vero e proprio rito”. Gli anarchici dovrebbero essere 
                  in grado di fare le loro scelte a prescindere da quelle dei 
                  media. Rovesciando poi questo tipo di ragionamento, anche “isolare 
                  i violenti” che s'infiltrano nei movimenti (legittimi 
                  solo se pacifici e rispettosi della legalità) è 
                  quanto chiedono ripetutamente governi chiesa partiti sindacati 
                  istituzionali questure magistrati e - perché no? - anche 
                  qualche “anarchico”. Non potrebbe sorgere il dubbio 
                  che l'accodarsi acriticamente alle posizioni del potere sia 
                  anche questo un rito? E sicuramente molto più deleterio 
                  per l'anarchismo? 
                  Le motivazioni messe in campo da Massimo non stanno in piedi. 
                  Sarebbe più corretto che dicesse apertamente che il muro 
                  che lo separa da quelli che lui definisce “violenti” 
                  è solo politico. Non ci sono (e non reggono all'analisi) 
                  valutazioni etiche di alcun tipo. 
                  Una concezione dell'anarchismo che non vuole misurarsi con la 
                  rivolta di piazza, che crede che prima di ribellarsi (chissà 
                  quando) tutti debbano aver raggiunto un massimo livello di autocoscienza 
                  è - a mio modo di vedere - condannata all'isolamento 
                  dalla realtà, a non saper più cogliere il polso 
                  della storia. Le barricate del maggio francese furono ben poca 
                  cosa se paragonate alla Comune, eppure la loro eco si protrasse 
                  in tutto il mondo tanto da generare cambiamenti epocali. 
                  Compito degli anarchici è sì di essere contro 
                  la storia, ma non restandone fuori. 
                 Tobia Imperato
  
                 
                 Dibattito 
                  Movimenti e potere/13 
                 Metodi adeguati allo scopo 
                 Ciao! 
                  Ho avuto modo di seguire con interesse sulle pagine della rivista 
                  i vari interventi e punti di vista sulla questione dei metodi, 
                  più o meno “violenti”, che da sempre i movimenti 
                  rivendicativi o di liberazione si trovano a dover scegliere, 
                  per difendersi o per rompere le catene dell'oppressione. 
                  Mi sembra - e chi scrive si ritiene libertaria e vicina alle 
                  riflessioni nonviolente - che il dibattito sconti ancora molti 
                  approcci sbrigativi e preconfezionati, anche nel movimento anarchico. 
                  Sgomberiamo il campo dagli equivoci linguistici su cui, peraltro, 
                  specula certo giornalismo asservito: ha senso parlare di violenza, 
                  quando viene colpita una persona o si mette in pericolo effettivamente 
                  l'incolumità di qualcuno. Pratiche o azioni rivolte contro 
                  cose, simboli, strutture, merci, ecc. rientrano perfettamente 
                  nella metodologia non-violenta (lo stesso Gandhi propagandava 
                  il sabotaggio); per cui, si può politicamente valutare 
                  l'efficacia di certe azioni, ma bruciare una bandiera, rompere 
                  la vetrata di una banca o guastare una ruspa non provoca alcun 
                  spargimento di sangue o di lacrime. Altrimenti si può 
                  arrivare al paradosso (ed è successo davvero, non molti 
                  anni fa) di sentire condannare come atto violento il lancio 
                  di alcune uova contro un mezzo militare durante una manifestazione 
                  contro la guerra! Come se la disobbedienza civile potesse essere 
                  sempre beneducata e rispettosa delle leggi. Peraltro, se l'etica 
                  antiautoritaria rifiuta la logica del fine che giustifica i 
                  mezzi (siano questi terroristici o parlamentari), non di meno 
                  è necessario scegliere metodi adeguati allo scopo e coerenti 
                  con le situazioni date. 
                  Ad esempio, come ben sottolinea Arundhati Roy, non si può 
                  proporre lo sciopero della fame a chi muore già di fame 
                  e stenti. D'altronde la forza etica della non-violenza, implica 
                  che la controparte condivida e riconosca la medesima scala di 
                  valori etici; banalizzando, quale senso poteva avere una resistenza 
                  non-violenta in un lager nazista o in un gulag staliniano, se 
                  non quella di mera testimonianza morale? E poiché si 
                  torna spesso a parlare di quanto vivemmo a Genova nel 2001, 
                  alcune considerazioni sorgono spontanee. 
                  In quelle tremende giornate di luglio, andò in scena 
                  un copione terroristico, ossia pianificato e attuato con l'obbiettivo 
                  - conseguito - di terrorizzare un importante e diffuso movimento 
                  antiglobalizzazione che stava mettendo in discussione le politiche 
                  e le economie dominanti. Se persino il commissario Montalbano 
                  di Camilleri entrò in crisi per la macelleria messicana 
                  compiuta dalle forze dell'ordine, nella realtà - va osservato 
                  - che nessun uomo o donna in divisa ha poi avvertito la dignità 
                  etica di riconsiderare il ruolo svolto a Bolzaneto, alla Diaz 
                  o in piazza Alimonda, esercitando livelli inauditi di violenza 
                  legale. 
                  Tale responsabilità non può essere giustificata 
                  da presunti comportamenti individuali o collettivi dei manifestanti. 
                  Ed anche nel valutare le pratiche più radicali, come 
                  quelle del cosiddetto Blocco nero, è necessaria una certa 
                  onestà intellettuale, aldilà della condivisione 
                  o della distanza da esse. Se è vero che pure il danneggiamento 
                  di una filiale bancaria è un gesto dimostrativo che non 
                  merita di essere nè particolarmente enfatizzato o stigmatizzato, 
                  s'impone anche una contestualizzazione con astratta e semmai 
                  una critica non-ideologica o prevenuta. 
                  Appare perciò pretestuoso accusare di spettacolarizzazione 
                  proprio coloro che, durante certe azioni, tentavano al contrario 
                  di tenere lontani giornalisti, fotografi, videoperatori, ecc. 
                  sia per tutelare l'anonimato che per avversione nei confronti 
                  dei media. 
                  Aggiungo inoltre che non tutto quello che succede è liquidabile 
                  come irrazionale o funzionale a qualche complotto; basti pensare 
                  e ricordare l'azione compiuta contro il carcere Marassi, dove 
                  da allora sono morti almeno altri cinque detenuti: chiunque 
                  sia animato da sentimenti umani o di libertà non può 
                  non riconoscrvi la speranza di un mondo senza istituzioni totali, 
                  dove regna la violenza illimitata. 
                  Un saluto in libertà dalla valle che resiste. 
                  NO TAV
                  Rosellina “Rosy” Escalar 
                  Val di Susa 
                 
                 Dibattito 
                  nazionalismo.1/ 
                 Snazionalizzare e internazionalizzare le lotte 
                 L'autunno scorso scrissi una riflessione 
                  sulla relazione tra classe e nazione pubblicata su “A” 
                  385 (dicembre 2013/gennaio 2014), il cui titolo era una citazione 
                  di un bel saggio di Freddy Perlam, L'eterna seduzione del 
                  nazionalismo. In esso cercavo di ripensare una questione 
                  complessa, ambigua, dalle molte declinazioni, su cui tanto si 
                  è scritto e tanto si è detto nell'Otto e soprattutto 
                  nel Novecento. Tutto questo a partire da un caso particolare, 
                  quello catalano, che sta avendo un protagonismo indubbio in 
                  quest'ultimo biennio. A che punto siamo arrivati? Come possiamo 
                  leggere la situazione catalana? Che considerazioni generali 
                  possiamo fare? 
                  Queste erano alcune delle domande che stavano a monte dell'articolo. 
                  L'obiettivo, non dichiarato, ma implicito, era quello di stimolare 
                  un dibattito. È stato dunque un piacere leggere l'articolo 
                  di Laura Gargiulo e 
                  Igor Ninu Nazioni senza stato, pubblicato su “A” 
                  390 (giugno 2014). 
                  Trovo necessario e molto positivo lo sforzo fatto dai due autori 
                  per portare chiarezza dal punto di vista terminologico. E mi 
                  trovo d'accordo poi con buona parte delle considerazioni che 
                  fanno nelle pagine seguenti. Non così però con 
                  altre considerazioni e con alcune premesse. Vado per punti e 
                  approfitto per precisare alcune cose che credo siano state fraintese. 
                  1. Mi sembra errato cercare l'essenza di un termine, 
                  come quello di nazione, con l'obiettivo di liberarlo “dalle 
                  sovrastrutture che la storia le ha dato a seconda dei contesti”. 
                  Come dimostrano gli studi sul linguaggio politico, sono proprio 
                  i significati che i diversi processi storici e le diverse dinamiche 
                  politiche hanno dato a un termine quelli che danno un significante 
                  a tale termine. Cercarne l'essenza non è altro che la 
                  “chimera dell'origine” di cui parlava Foucault. 
                  E difatti del termine nazione, dei suoi significati e dei suoi 
                  significanti esistono diverse interpretazioni, che possono essere 
                  declinate in vari modi. A titolo di esempio ricordo le diverse 
                  letture che ne fanno Ernest Gellner in Nations and Nationalism, 
                  Eric Hobsbawm e Terence Ranger in The Invention of Tradition 
                  e Benedict Anderson in Imagined Communities. Come riassume 
                  in un recente saggio Alberto Martinelli, “il concetto 
                  di nazione è polisemico, ambiguo, mutevole nel tempo 
                  e nello spazio, conserva ampi margini di indeterminatezza e 
                  di ambiguità” (Mal di nazione. Contro la deriva 
                  populista, EGEA, 2013, p. 15). 
                  2. Gargiulo e Ninu rivendicano “una lotta contro l'omologazione 
                  culturale e per la riappropriazione della propria terra” 
                  legandola a doppiofilo al processo di internazionalizzazione 
                  della “borghesia finanziaria”. Se è indubbio 
                  che questo processo è in corso e ha subito un'accelerazione 
                  incredibile nell'ultimo trentennio e se è indubbio anche 
                  che questo tipo di lotta è necessario e importante, rimane 
                  il dubbio sul fatto che la lotta si debba declinare nel modo 
                  proposto dai due autori. Perché dovremmo declinare la 
                  lotta contro l'omologazione culturale e per la difesa e la riappropriazione 
                  della terra in un modo nazionalista e/o indipendentista? Perché 
                  difendere la propria terra deve portare alla lotta per la creazione 
                  di un nuovo stato? Esistono molte esperienze di lotta di questo 
                  tipo che non abbracciano nessun tipo di lotta di liberazione 
                  nazionale, anche in territori che vengono considerati “nazioni 
                  senza stato”. Inoltre, le dinamiche di sviluppo del capitalismo 
                  finanziario dimostrano non solo che questo si sia “internazionalizzato”, 
                  ma dimostrano anche un processo opposto: quanto la classe lavoratrice 
                  abbia abbandonato una delle sue caratteristiche più importanti: 
                  l'internazionalismo. Proprio per questo è sempre più 
                  urgente recuperare di questi tempi l'idea e la pratica internazionalista. 
                  Detto questo, lungi da me dire ciò quel che debbano fare 
                  catalani, sardi, baschi o corsi: ogni individuo e ogni popolo 
                  – altro termine complesso e dalle molte sfumature – 
                  può decidere quello che vuole, ma deve essere cosciente 
                  delle scelte che compie. 
                  3. La lotta di liberazione nazionale è “un pezzo 
                  di antiquariato politico” o “un patrimonio della 
                  destra fascistoide”? Non ho detto questo, ma, dando centralità 
                  alla contestualizzazione storica e politica, ho cercato di mettere 
                  in luce le grandi ambiguità di categorie che non sono 
                  a-storiche, bensì fortemente storicizzate. Ossia, dipende 
                  il dove e il quando. Lo studio delle esperienze passate può 
                  esserci d'aiuto. Vedasi il caso bretone, peculiare senza dubbio, 
                  ma sintomatico per due ordini di ragioni: per il filo-nazismo 
                  dimostrato negli anni Trenta e Quaranta da parte del nazionalismo 
                  indipendentista bretone in funzione anti-francese secondo la 
                  logica schmittiana de “il nemico del mio nemico è 
                  mio amico”; e per le grandi ambiguità nel processo 
                  di “normalizzazione” della lingua bretone, come 
                  spiega Françoise Morvan in Le Monde comme si. Nationalisme 
                  et dérive identitaire en Bretagne. Ma i casi potrebbero 
                  essere molti. La riflessione che si trova in fondo a queste 
                  mie considerazioni è semplice: attenzione poiché 
                  i buoni propositi possono tramutarsi in incubi perché 
                  appunto il nazionalismo fa appello alle emozioni e non alla 
                  razionalità – come le lotte sociali – ed 
                  è dunque poco controllabile. È una fiamma sempre 
                  accesa che può far scoppiare un grande incendio. 
                  4. Ma al di fuori della teoria rimane sempre una questione pratica, 
                  come il caso catalano dimostra. Che si fa, dunque? Si appoggia 
                  la propria borghesia nazionale o no? È un quid fondamentale 
                  perché può avere conseguenze politiche enormi. 
                  Ancora le esperienze passate possono esserci d'aiuto. Si pensi 
                  al caso del movimento indipendentista cubano di fine Ottocento 
                  dove settori libertari appoggiarono la lotta di liberazione 
                  nazionale guidata dai settori borghesi: dopo il 1898 i libertari 
                  furono repressi duramente. Che lezione trarre? Che il vecchio 
                  refrain del “diamoci la mano per ottenere l'indipendenza, 
                  poi faremo i conti” si conclude sempre nello stesso modo: 
                  con l'emarginazione o la repressione di chi è senza 
                  potere. Da qui il mio forte scetticismo e la mia contrarietà 
                  all'appoggio dato da gran parte della sinistra catalana – 
                  sia riformista sia rivoluzionaria – e anche da alcune 
                  correnti libertarie al processo indipendentista guidato dalla 
                  borghesia catalana. Un appoggio, quello di alcuni settori libertari 
                  come il collettivo Negres Tempestes, molto critico, questo deve 
                  essere detto, ma che finisce per dare credibilità a Artur 
                  Mas e compagnia. Per me questa non è nient'altro che 
                  una strada sbagliata o un pericoloso abbaglio. Ricordiamoci 
                  sempre dove finirono quegli anarchici che, come Mario Gioda, 
                  Maria Rygier, Eduardo Malusardi e Massimo Rocca, abbracciarono 
                  la nazione e si fecero interventisti durante la Grande Guerra, 
                  come ha spiegato molto bene Alessandro Luparini in Gli anarchici 
                  di Mussolini. Dalla sinistra al fascismo tra rivoluzione e revisionismo. 
                 Steven Forti 
                  Barcellona (Spagna) 
                 
                 Dibattito 
                  nazionalismo.2/ 
                 Attenzione al nazionalismo! 
                 Ciao redazione, 
                  scusate il mio è uno dei tanti punti di vista e come 
                  tale consideratelo. 
                  Ho più dubbi che certezze sull'anarchismo, ma dopo aver 
                  letto l'articolo di 
                  Laura Gargiulo e Igor Ninu su “A” 390 (giugno 
                  2014): “Nazioni senza Stato”, non mi sono 
                  più ripreso; è un terreno molto, troppo scivoloso 
                  che considero più pericoloso che utopistico. 
                  Mi è venuto in mente il filosofo spagnolo Fernando Savater 
                  quando scrisse un breve saggio edito dalla casa editrice Elèuthera 
                  nel 1996: “Contro le Patrie”, in cui egli spiegava 
                  con un linguaggio semplice e comprensibile le sue ragioni contro 
                  tutte le Nazioni, le Patrie e il Nazionalismo ma sempre a favore 
                  del diritto all'”autodeterminazione non legato ad un soggetto 
                  collettivo astratto come 'etnia', 'nazione', o 'popolo' [...] 
                  ma come semplice espressione dei diritti individuali alla politica, 
                  alla cultura e alla libertà e con maggior probabilità 
                  di successo. E aggiungo, anche meno rischioso....” 
                  In particolare questo passaggio dell'articolo su “A 390” 
                  di Laura Gargiulo e Igor Ninu (ma ce ne sarebbero altri): “Se 
                  guardiamo all'essenza di questo termine, liberandolo dalle sovrastrutture 
                  [...] ci accorgiamo che nazione indica un insieme di individui 
                  che condividono una lingua, una storia [...] Nazione, quindi, 
                  è fondamentalmente un concetto culturale...” fa 
                  a cazzotti con questo di Fernando Savater: Contro le patrie 
                  (ben più interessante dal punto di vista libertario): 
                  “Due dogmi mitici sono sottesi ad ogni nazionalismo: il 
                  primo, che una cosa come “realtà nazionale” 
                  esista prima della volontà di scoprirla e potenziarla 
                  [...] Come ho già detto, è il nazionalismo che 
                  inventa la nazione, non è la preesistenza di questa che 
                  origina il nazionalismo. Né l'etnia, né i costumi, 
                  né l'idioma, né la storia condivisa sono di per 
                  sé nazionali né nazionogene: è il progetto 
                  politico-ideologico del nazionalismo quello che seleziona i 
                  caratteri rilevanti dall'insieme dei dati di fatto, li avvalora 
                  a suo modo e li converte in identità e in unanimità 
                  simbolica.” E più oltre “Rinnegare le patrie 
                  e le nazioni significa restituire agli individui la capacità 
                  d'inventare e di dimenticare, di essere differenti e di essere 
                  nuovi, di essere liberi e di pensare da sé”. 
                  Un caro saluto a voi.
                  Leo Melziade 
                  Milano  
 
                    
                  Diritto internazionale e anarchismo/Per un diritto in opposizione 
                  alla legge delle istituzioni 
                   
                  Gentilissima redazione di A, 
                  vi propongo una riflessione che rivolgo a tutti i compagni e 
                  amici anarchici e libertari lettori di questa storica rivista, 
                  patrimonio di cultura e politica del mondo anarchico italiano 
                  e non solo. 
                  La riflessione che vorrei fare è il rapporto tra anarchismo 
                  e diritto internazionale umanitario. Mi spiego meglio: negli 
                  ultimi anni, analizzando anche la situazione internazionale 
                  a livello di giurisdizioni, ho osservato che la ripresa di tematiche 
                  legate al diritto internazionale umanitario e alle convenzioni 
                  internazionali per il rispetto della libertà e della 
                  dignità di tutti gli esseri umani sembra essere la vera 
                  opposizione concretamente politica alla forza della pura legge 
                  e dell'autorità imposta. 
                  Per riassumere diritto internazionale in opposizione alla legge, 
                  in quanto il diritto rappresenta l'espressione e il risultato 
                  dell'accordo tra individui della specie umana, espressione che 
                  è per sua essenza universalistica e contemporaneamente 
                  individuale, mentre la legge non è altro che l'espressione 
                  di una determinata casta politica e sociale, particolaristica 
                  e appartenente ad un contesto specifico. 
                  Questo è il punto centrale, un diritto che sia libertario 
                  può essere uno strumento sia giuridico che di lotta politica 
                  al quale il movimento anarchico può rifarsi nella sua 
                  lotta all'autorità costituita? A chi dice che il diritto 
                  è quello applicato dai giudici, noi possiamo rispondere, 
                  in base alla teoria dell'individualismo metodologico, che noi 
                  siamo tutti “giudici”, e quindi tutti noi, quando 
                  agiamo, costituiamo fonte del diritto, sicché la scienza 
                  giuridica si sovrappone alla teoria dell'azione razionale, e 
                  far diritto significa prevedere la condotta degli esseri umani, 
                  comunque si manifesti. E poiché sono i mezzi che giustificano 
                  il fine e non il fine che giustifica i mezzi, se i nostri mezzi 
                  sono il diritto, inteso nella sua ottica universale e umanitaria, 
                  il fine non può che essere la liberazione della specie 
                  umana dall'oppressione dei suoi simili. Essendo tutti noi fonte 
                  di produzione di diritto e agendo tutti in un contesto di riconoscimento 
                  dell'altrui diritto, si potrebbe concretizzare la proposta politica 
                  dei “né servi né padroni” di anarchica 
                  memoria. 
                  Tale approccio mi riconduce a pensare positivamente allo “stato 
                  di diritto” che non va inteso, a ben pensarci, come alla 
                  istituzione di uno Stato di diritto che rappresenta anzitutto 
                  un'utopia poiché è piuttosto utopistica l'aspirazione 
                  che gli uomini di potere siano e si sentano vincolati dal diritto, 
                  tanto più che essi possono modificarlo a piacere attraverso 
                  gli strumenti della legislazione e della stessa revisione costituzionale. 
                  Ma la riflessione sullo “stato di diritto” va considerata 
                  proprio in ottica di quella transizione dalla società 
                  autoritaria alla società libertaria poiché tale 
                  stato di diritto potrebbe essere la condizione ottimale visiva 
                  e concreta da cui partire per nuovi approcci libertari e antiautoritari, 
                  rifacendosi proprio a quelle convenzioni internazionali universalmente 
                  riconosciute e non applicate. Detto ciò lancio il dibattito: 
                  l'anarchismo potrebbe trovare una sua probabile strada nell'applicazione 
                  in modo del tutto originale del diritto internazionale umanitario?
                
  Domenico Letizia 
                  Maddaloni (Caserta)  
 
                    
                  Tortura e pena di morte/Una distinzione necessaria 
                   
                  Cara redazione, 
                  permettimi di replicare alla gentile ed interessante risposta 
                  del Collettivo “Altra Informazione” alle mie righe 
                  di cautela rispetto alla loro affermazione di una possibile 
                  approvazione della tortura da parte di Kant, rispettivamente 
                  nei numeri “A” 
                  389 (maggio 2014) e “A” 
                  391 (estate 2014). 
                  Condivido il “pathos” – diciamo così 
                  – che pervade le prese di posizione del Collettivo. Tuttavia, 
                  il sentimento e la passione (lo dico soprattutto a me stesso, 
                  in genere tutt'altro ahimé che freddo e distaccato) non 
                  devono mai oscurare la ragione. Che è fatta di analiticità 
                  e di capacità di tracciare distinzioni. Abbiamo bisogno 
                  dei distinguo; altrimenti potemmo ad un certo momento finire 
                  per credere che tutte le vacche sono grigie, ma invero lo saranno 
                  soltanto allorché si fa buio, quando non c'è più 
                  luce. E a noi, come a tutti coloro che si indignano per l'ingiustizia 
                  presente e sperano e s'impegnano per un futuro più degno, 
                  la luce è necessaria. I contorni dei fatti e della realtà, 
                  e direi anche dei principii, hanno bisogno d'essere netti, o 
                  più netti che si riesce a renderli e percepirli. Vanno 
                  allora illuminati. Con l'intelligenza e la pacatezza della riflessione. 
                  Allora il chiaro risulterà distinto dallo scuro. 
                  Ora, la tortura, purtroppo e crudelmente, è una condotta 
                  specifica, con sue proprie (terribili) caratteristiche, fondamentalmente 
                  quella della soglia imprevedibile del dolore inflitto e della 
                  rottura mirata della volontà del corpo umano che così 
                  si ritorce contro il suo stesso soggetto. Non è un caso 
                  che il verbo latino usato per torturare sia “torquere”. 
                  È il corpo umano usato contro il corpo umano e la sua 
                  intrinseca esigenza di dignità. Come diceva Jean Améry, 
                  il corpo umano “scassinato”. La pena di morte, per 
                  quanto anch'essa terribile, ed inaccettabile moralmente, è 
                  un'altra cosa, o può essere un'altra cosa. La cicuta 
                  data a Socrate evidentemente non è un mezzo di tortura. 
                  È crudele, drammatica, non si può accettare, ma 
                  -ripeto- non è tortura; e lo capisce chiunque. È 
                  evidente. 
                  La tortura tradizionalmente ha due forme: quella del supplizio, 
                  che sì si accompagna alla pena di morte. Un supplizio 
                  mi pare oggi essere (ancora evidentemente) la lapidazione dell'adultera 
                  che si pratica in qualche disperato e fanatico angolo di questo 
                  nostro folle mondo. Tortura è anche ciò ch'è 
                  successo nel carcere di Bolzaneto, abuso gratuito della forza 
                  repressiva. Ora mi pare che Kant non si pronunci mai né 
                  a favore dell'uno né dell'altro. Poi c'è la tortura, 
                  diciamo così vera e propria, quella che si è usata 
                  storicamente ed ancora si pratica per estorcere una confessione, 
                  un'informazione, il “water boarding” della CIA e 
                  di Guantanamo. Quella sotto la quale è morto Leone Ginsburg 
                  per mano degli sgherri della Gestapo. Anche su ciò, sulla 
                  tortura “interrogativa”, la “quaestio” 
                  (come la chiamano i Romani), Kant non si pronuncia mai. Eppure 
                  la seconda formulazione dell'imperativo categorico, che prescrive 
                  di non disporre mai di un altro essere umano solo come mezzo 
                  ma sempre anche come fine, sembrerebbe escludere un qualsiasi 
                  sostegno del filosofo di Königsberg a una tale pratica 
                  feroce. Ora, la tortura usata per estrarre delle informazioni 
                  al torturato o a chi assiste alla tortura (il padre del torturato 
                  per esempio, ma potrebbe essere una persona qualunque che non 
                  resiste allo spettacolo osceno della sofferenza altrui) non 
                  è affatto equivalente alla pena di morte. Sostenerlo 
                  significa -- attenzione -- fare il gioco proprio di coloro che 
                  sono a favore dell'uso della tortura (in Italia Angelo Panebianco) 
                  e che vorrebbero addirittura reintrodurla nel recinto del diritto, 
                  dal quale è stata espulsa a partire dalla critica illuministica 
                  (di cui Kant, come è noto, è uno dei grandi protagonisti). 
                  Un argomento a favore della tortura è infatti il seguente: 
                  visto che la pena di morte è legale (almeno in certi 
                  ordinamenti giuridici), perché, considerato anche che 
                  tortura e pena di morte si equivalgono, ed anzi --si sostiene-- 
                  la pena di morte è una condotta più crudele, perché 
                  allora non potrebbe essere legale anche la tortura (come lo 
                  è la pena di morte)? Su queste cose ho scritto di recente 
                  un libro con Marina Lalatta (”Legalizzare la tortura?”, 
                  Il Mulino 2013), e non è il caso di ripetermi. Rimando 
                  per approfondimenti ed ulteriori argomenti al libro. 
                  Concludendo, nella disamina dei fatti dell'ingiustizia, abbiamo 
                  bisogno di capire bene ciò che accade, di affilare i 
                  concetti, che sono i nostri strumenti di comprensione; la retorica 
                  e la sovrainterpretazione, e il fare di tutta l'erba un fascio 
                  non ci aiutano granché. Danneggiano invece la nostra 
                  facoltà di giudizio. 
                  Saluti. 
                 Massimo La Torre 
                  Catanzaro  
 
                    
                  Pordenone/Gli anarchici, il 25 aprile, il prefetto e “Bella 
                  Ciao” 
                   
                  Leggo in “A” 390 (giugno 2014, pag. 122) la 
                  lettera di Angelo Manzoni a proposito del divieto di cantare 
                  “Bella Ciao” durante le celebrazioni del 25 aprile 
                  a Pordenone. Non ho letto l'articolo completo del “Fatto 
                  Quotidiano”, ma lo stralcio riportato non dà la 
                  possibilità di capire l'esatto svolgersi dei fatti. Come 
                  anarchico ed antifascista mi sento di dare alcune delucidazioni 
                  in merito, così da togliere ogni dubbio ad Angelo sul 
                  fatto che gli anarchici siano contro la resistenza: come precisato 
                  dalla redazione, gli anarchici ne sono stati parte integrante. 
                  Noi anarchici ed antifascisti pordenonesi non siamo contro il 
                  25 aprile, non lo contestiamo; contestiamo invece l'atteggiamento 
                  revisionista che pone sullo stesso piano chi ha sacrificato 
                  la propria vita per difendere la libertà e chi ha combattuto 
                  per togliercela e vuole cambiare il senso della storia. 
                  Di seguito una sommaria ricostruzione dei fatti accaduti a Pordenone 
                  negli ultimi anni. 
                  Una precisazione: credo che nessuno dei compagni anarchici pordenonesi, 
                  né in forma organizzata né in forma personale, 
                  abbia mai partecipato ad una commemorazione del 25 aprile prima 
                  del 2001. Personalmente l'ho sempre trovata una cerimonia piuttosto 
                  svuotata di quelli che sono stati i valori della resistenza 
                  e che mi hanno accompagnato nella mia formazione umana prima 
                  che politica – fra l'altro fino al 2001 i pochi cittadini 
                  che vi partecipavano erano per lo più militari, ex-militari, 
                  reduci, autorità politiche etc. 
                  Nel 2001 siamo venuti a conoscenza che l'organizzazione giovanile 
                  di Alleanza Nazionale, capeggiata da Alessandro Ciriani – 
                  futuro presidente della Provincia – voleva parteciparvi 
                  per dare pari dignità ai morti di tutte le parti! 
                  Una provocazione di questo genere non poteva passare. È 
                  inammissibile che qualcuno possa mettere sullo stesso piano 
                  vittime e carnefici. Sappiamo cos'è stato il fascismo: 
                  violenza, privazione dei diritti fondamentali, libertà 
                  negate, etc.. Era inaccettabile che si potesse “onorare” 
                  chi - per oltre un ventennio - si fosse reso responsabile di 
                  sanguinosi crimini contro chiunque si opponesse alle violenze 
                  squadriste. Un insulto. Non potevamo stare in silenzio. 
                  E così il “nostro” primo 25 aprile ci siamo 
                  organizzati per impedire tale affronto. I giovani post-fascisti 
                  si sono presentati con uno striscione con su scritto “Per 
                  una pacificazione nazionale” che hanno esposto alla fine 
                  della commemorazione ufficiale; noi li abbiamo fronteggiati 
                  con un esplicito no pasaran. 
                  Negli anni successivi la questione si è ripetuta. La 
                  partecipazione dei compagni antifascisti sia anarchici che non, 
                  anche dalle altre province limitrofe, si è fatta più 
                  consistente e l'azione di contrasto è stata talvolta 
                  efficace. Ricordo in particolare quando siamo riusciti ad anticipare 
                  le forze dell'ordine che volevano fermarci e ci siamo piazzati 
                  davanti al monumento ai caduti dove i fascisti volevano deporre 
                  una corona di fiori in memoria di tutti i morti. Si è 
                  innescata un'epica e pacifica resistenza passiva per impedire 
                  che portassero a compimento la loro azione: la polizia prelevava 
                  di peso i compagni seduti ed abbracciati l'un l'altra e li portava 
                  ai margini della piazza ma questi, appena liberi dalla presa, 
                  si precipitavano a riprendere posizione. 
                  L'anno successivo la polizia, memore di quanto successo l'anno 
                  precedente, ha formato un muro invalicabile che ci ha impedito 
                  di ripetere l'azione. Però la tenacia delle forze antifasciste 
                  e le polemiche che inevitabilmente si trascinavano di anno in 
                  anno (per altro non fomentate da noi) i giovani post-fascisti 
                  hanno rinunciato alla lugubre sfilata. 
                  Grande vittoria per noi, ma non definitiva. Il già citato 
                  Ciriani nel frattempo aveva fatto carriera ed era diventato 
                  prima vice e poi presidente della Provincia, ed è proprio 
                  questo l'ente organizzatore delle commemorazioni ufficiali in 
                  Piazzale Ellero dei Mille. Brutta beffa: buttato fuori dalla 
                  piazza dalla porta principale ne rientra dalla finestra e per 
                  di più si colloca nel palco ufficiale, da dove tiene 
                  i suoi discorsi. 
                  Ma non ha fatto i conti con la nostra ostinata perseveranza: 
                  ogni anno abbiamo continuato a contestarlo, tant'è che 
                  nelle ultime commemorazioni ha rinunciato a partecipare, delegando 
                  il suo vice Grizzo, leghista, che si è ormai abbonato 
                  alla puntuale bordata di fischi ed insulti per le incommensurabili 
                  idiozie che dice!! Si vede che gli piace così! 
                  Nel frattempo il nostro 25 aprile si è strutturato e 
                  oggi non si limita più alla semplice contestazione. Nelle 
                  settimane precedenti ogni anno organizziamo incontri e dibattiti 
                  sui temi della Resistenza, che culminano nella giornata del 
                  25 aprile con la deposizione di una corona presso un Luogo della 
                  Memoria, all'interno della ex caserma Martelli a Pordenone, 
                  dove furono fucilati alcuni giovani partigiani. 
                  Ma veniamo ad oggi. La nostra presenza in piazza non è 
                  mai stata – ovviamente – gradita dalle forze dell'ordine 
                  e dai politici nostrani più o meno di tutti gli schieramenti. 
                  Le nostre contestazioni danno sicuramente fastidio. Ma non è 
                  solo una questione di turbamento dell'ordine pubblico: probabilmente 
                  siamo di fronte ad un disegno che cerca di isolarci politicamente 
                  e che spalleggia la destra più estrema. Siamo una presenza 
                  scomoda che sovverte le tranquille abitudini di questa cittadina 
                  che preferisce una tediosa cerimonia – fra l'altro con 
                  punte che sconfinano nel ridicolo, visto che la banda cittadina 
                  da anni suona impunemente una famosa canzone patriottica e monarchica 
                  della prima guerra mondiale (La leggenda del Piave). Cosa ci 
                  quagli con la Resistenza nessuno lo sa, ma questo dà 
                  la misura dell'ignoranza storica e del raffazzonamento politico 
                  di questi pericolosi quaquaraquá! 
                  Un fatto eclatante: solo un paio di mesi prima, nel corso di 
                  una visita in città della ministra Kyenge, è stato 
                  concesso alle organizzazioni neofasciste Fiamma Tricolore, Casa 
                  Pound e Forza Nuova di manifestare nei pressi del Municipio. 
                  Vi lascio immaginare i toni della contestazione, i soliti di 
                  cui abbiamo letto nei mesi scorsi di cui è stata oggetto 
                  la Ministra. Solo insulti, volgarità e minacce. E qui 
                  la domanda sorge spontanea: com'è che un prefetto consente 
                  a codesti criminali di sfogare le loro ire contro un ministro 
                  della Repubblica che esso stesso rappresenta, mentre non consente 
                  di cantare “Bella Ciao” durante la festa di liberazione 
                  adducendo motivi di “ordine pubblico”? 
                  Quest'anno però il prefetto l'ha fatta veramente grossa 
                  promulgando questo divieto, generando una tale ondata di indignazione 
                  che ci ha motivati a cantarla comunque - come del resto abbiamo 
                  fatto ogni anno. Anche il responsabile provinciale dell'Anpi 
                  ha dichiarato che “Bella Ciao” sarebbe stata cantata 
                  a ogni costo. Si è arrivati addirittura ad una interrogazione 
                  al Ministro Alfano da parte di un senatore del PD. 
                  Vista la mala parata il Prefetto ha dovuto fare marcia indietro 
                  e questa volta – per la prima volta – “Bella 
                  Ciao” è stata cantata dal palco ufficiale e suonata 
                  dalla banda cittadina. Prima che la banda iniziasse a suonare 
                  sono stati fatti allontanare i reparti in armi schierati; così, 
                  oltre ad aver ottenuto per la prima volta l'esecuzione di “Bella 
                  Ciao”, ci siamo simbolicamente liberati anche dell'esercito. 
                  Il vice presidente della provincia Grizzo si è preso 
                  la sua consueta bordata di fischi. Il sindaco Pedrotti (PD) 
                  è stato contestato per non aver preso posizione in merito 
                  quando doveva. Tra il pubblico è stato distribuito il 
                  testo della canzone e molte voci – molte più degli 
                  anni scorsi – hanno cantato, unendosi a noi. 
                  Come da qualche anno a questa parte ci siamo infine recati presso 
                  la ex-caserma Martelli (luogo dove furono fucilati Martelli 
                  ed altri partigiani, dove accanto al muro che ancora reca i 
                  segni delle pallottole sorge un monumento in ricordo dei giovani 
                  partigiani massacrati dai fascisti) per la nostra manifestazione 
                  in memoria della Resistenza che di anno in anno sta diventando 
                  “La manifestazione”, condivisa con gli antifascisti 
                  di oggi, cittadini di tutte le età, che in questo luogo 
                  depongono un fiore, mangiano, ballano, cantano... e parlano 
                  anche di storia e cercano di capire in che modo si può 
                  essere ancora adesso “resistenti” perché, 
                  e il tentativo maldestro ne è la riprova, non è 
                  ancora finita!
                
  Roberto Furlan 
                  Pordenone 
                 
                 
                    
                   
                 
                
                   
                    
                        
                           
                              | 
                           
                           
                            |   Gianni 
                                Milano   | 
                           
                         
                        | 
                   
                   
                    Samain 
                      Ridono 
                        i morti 
                        in cimiteri planetari – ridono della loro sconfitta, 
                        ridono degli aguzzini, ridono dei tronfi gonfi ridicoli 
                        successi, 
                        ridono della vana erezione e degli orpelli, ridono e... 
                         
                        S'arrestano soltanto di fronte all'Emozione 
                        che è femmina dolente degna di compassione, che 
                        è dolore, 
                        vergogna del subire, come una foglia cadente tra gli automi... 
                         
                        Orrido ed insensato ripetersi di eventi, l'uno che uccide 
                        l'altro, 
                        l'altro che squarta l'uno, inni di fumo acre dalle pire 
                        per strada 
                        e il cielo opaco e nauseato e stanco che trascina i lamenti 
                        da un vicolo 
                        a una piazza, da una scuola a uno stadio com'occhio di 
                        Ciclope... 
                         
                        Ridono i morti, 
                        ora che sono morti, che nessuno ha potere su di loro e 
                        squilla 
                        il riso, liberatorio orgasmo, verità della Terra 
                        che sotterra, che riprende 
                        da capo il macinare e mostrùcoli vani aprono bocca 
                        come legnose marionette a imporre la loro merda sulla 
                        testa altrui, 
                        ordinando concerti di mitraglie, sviolinate di sapidi 
                        piaceri 
                        su un Pianeta che ruota senza sosta con vermìcoli 
                        tanti ad agitarsi. 
                         
                        Ridono i morti, 
                        ballano la polka, non sono saggi, non sono sciamannati 
                        – 
                        sono il ritorno verso l'originale, verso l'abbraccio plurimolecolare, 
                        oltre le storie le leggi e le morali in una quiete senza 
                        più aggettivi, 
                        con sopra un prato di novella neve, con sopra un volo 
                        sparso 
                        di cornacchia mentre il pendolo tace 
                        e le parole si sciolgono in un rigo come la neve come 
                        la vita tutta 
                        com'anche la vergogna, la sofferenza e il canto... 
                       Gianni 
                        Milano  | 
                   
                 
                
  
 
                    
                  CNT-FAI/Emma Goldman e la Spagna libertaria 
                   
                  Alcuni punti del secondo documento della Goldman (Parigi, Congresso 
                  AIT, Dicembre 1937), pubblicato sullo scorso numero (Ma 
                  la CNT-FAI è in una casa incendiata, pagg. 158-162) 
                  offrono vari spunti di riflessione. 
                  Emma la Rossa presenta le aspre critiche di gruppi e sezioni 
                  non spagnole verso la CNT-FAI, ma senza fare alcun nome, e ricorda 
                  una certa insofferenza degli spagnoli, che giustifica solo parzialmente, 
                  verso queste dure prese di posizione. Inoltre denuncia il pericolo 
                  del dogmatismo, da entrambi le parti in polemica, mentre è 
                  convinta che sarebbe essenziale analizzare ogni problema all'interno 
                  dell'intera tragedia che si sta consumando in Spagna. 
                  La Goldman respinge ogni similitudine fra la CNT-FAI e i bolscevichi 
                  di fronte al potere e su questo punto cambia radicalmente i 
                  propri giudizi del maggio 1936. Oltre alle ovvie differenze 
                  ideologiche, sostiene che la rivoluzione in Russia non correva 
                  pericoli analoghi (per la debolezza delle potenze occidentali 
                  europee logorate dalla Prima Guerra Mondiale) a quelli della 
                  rivoluzione spagnola (l'esercito golpista godeva del massiccio 
                  sostegno nazifascista). Dopo il maggio 1937, e malgrado la repressione 
                  del movimento libertario a Barcellona, la Goldman afferma di 
                  aver trovato una situazione di rafforzamento della CNT-FAI e 
                  misura tale potenza con la maggiore diffusione della stampa 
                  e lo svolgimento di manifestazioni pubbliche affollate. I comunisti, 
                  a quanto sembrerebbe a lei, continuano in una posizione secondaria 
                  se non marginale. Su questo punto la militante americana, secondo 
                  me, sottovaluta il crescente ruolo dei comunisti, che hanno 
                  alle spalle l'unica potenza che aiuta la Repubblica. Ad esempio, 
                  pochi mesi prima il PCE ha determinato un nuovo governo spagnolo 
                  da cui sono esclusi gli esponenti della CNT-FAI e i socialisti 
                  non filocomunisti. Inoltre le carceri di Barcellona risultano 
                  popolate da centinaia di militanti libertari accusati, dopo 
                  il maggio 1937, di delitti comuni. La CNT-FAI non è in 
                  grado di liberarli con l'azione diretta e deve limitarsi a pressioni 
                  politiche sui partiti detentori del potere statale. È 
                  un sintomo di evidente debolezza. 
                  Nel testo del dicembre 1937, a mio parere, Emma esprime quindi 
                  una solidale forma di propaganda del movimento spagnolo piuttosto 
                  che un'analisi critica e obiettiva della situazione sempre meno 
                  favorevole all'anarchismo iberico.
                
  Claudio Venza 
                  Trieste  
 
                    
                  La custodia del sapere/ L'importanza della cultura orale (e 
                  altro ancora) 
                   
                  Carissimo Paolo, 
                  questo numero estivo, che mi è arrivato solo venerdì 
                  1° agosto e che quindi ho solo sfogliato, mi è apparso, 
                  come quanto di meglio si potesse dire e fare in questo momento. 
                  Ho letto solo il tuo pezzo: “in direzione ostinata e contraria”. 
                  Che bello! Mi ha fatto ricordare di me stesso e di un pensiero 
                  che non mi ha mai abbandonato e che reputo fondamentale nella 
                  mia vita: “Una società è quello che è 
                  non perché gli uomini che ne fanno parte siano buoni 
                  o cattivi ma solo in relazione alla maggiore o minore perdita 
                  di contatto con se stessi, con il proprio io, cui ogni uomo 
                  è più o meno soggetto dal potere e/o dalle circostanze.” 
                  E ciò, che io credo, tu dica nel primo periodo del 
                  tuo scritto. 
                  Ma vorrei aggiungere, non a completamento, ma per segnalare 
                  qualcosa di cui non si parla, ed è, scusandomi di riferirmi 
                  a me, la enorme importanza che ha uno scritto e quella ancora 
                  maggiore che ha “l'orale” che non è, e si 
                  capirà in seguito, quello che si vede, si legge o si 
                  sente in televisione o in rete. 
                  Nella casa che abito conservo, forse, tremila libri. Molti sono 
                  romanzi ma moltissimi sono saggi sociali, politici e filosofici. 
                  Io non mi considero affatto il “proprietario” di 
                  questi libri, tutti. Ho questi libri in casa e me ne sento il 
                  custode e basta. Questo vuol dire che se qualcuno mi chiede 
                  uno o più libri, io li cedo molto volentieri specificando, 
                  però, che da quel minuto sono loro i custodi e devono 
                  impegnarsi con me che, se qualcuno li chiede, devono darli.  
                       
                  Essere custodi di un libro, ma anche di ogni scritto, tra i 
                  quali “A”, occupa un posto di grande importanza 
                  (almeno per me). Vuol dire che non ne sono proprietario e quindi 
                  non sottraggo quello scritto alla possibilità che un 
                  altro uomo possa perdere il “contatto con se stesso” 
                  che ogni libro consente. 
                  Ma esiste un'altra e più importante ed efficace custodia 
                  del “sapere”. È un sistema dimenticato e, 
                  che io sostengo, il potere (politico, culturale, accademico 
                  non mi interessa) vuole assolutamente che sia messo da parte 
                  e sia totalmente inapplicato ed è la custodia della 
                  cultura orale, delle proprie culture orali che pur sembrando 
                  diverse da popolo a popolo sono assolutamente identiche ed unificanti 
                  nel metodo. 
                  Ed “A” ha spesso parlato, difeso e rispettato quel 
                  popolo la cui propria cultura orale e troppo poco conosciuta 
                  se non combattuta: gli Zingari (non so se sia politicamente 
                  corretto chiamarli così ma è così che li 
                  chiamo da bambino ed è da bambino che abitano il mio 
                  cuore). 
                  Un popolo, io credo, è veramente tale se possiede una 
                  cultura orale senza la quale è molto difficile vivere 
                  la certezza del tempo come continuità, la certezza del 
                  futuro come cosa propria. Scrivere si può o si deve quando 
                  c'è incertezza, quando manca la fiducia e la speranza 
                  negli altri attraverso i quali, in definitiva, è possibile 
                  garantirci il futuro. Con lo scritto si comunica ciò 
                  che si ha, con la parola si trasmette ciò che si è. 
                  E si insegna agli altri ad essere essi stessi.  
                  E come degli Zingari, la rivista si è occupata delle 
                  donne. Io ho sempre vissuto con profondo disagio il ruolo che 
                  la società, anche oggi, riserva loro. Ed ho sempre pensato 
                  che la società ha impedito alle donne di avere la loro 
                  storia orale (tranne che nelle società materlineari). 
                  E chi non ha proprie storie orali, legge quelle degli altri, 
                  chi, invece, ha proprie storie le racconta. Il racconto orale 
                  rende proprie le storie anche agli ascoltatori che saranno i 
                  raccontatori di domani. Forse è per questo che le donne 
                  sembrano più degli uomini portate a leggere. 
                  E voglio ancora ricordare un merito di “A” che è 
                  anche il merito principale degli anarchici. Quello di non volersi 
                  confondere con ciò che viene reso obbligatorio dal potere 
                  cioè “la partecipazione al dibattito politico”. 
                  Il dibattito serve solo a creare o rompere alleanze. Gli anarchici 
                  o chi si riferisce a queste idee, non possono essere alleati 
                  con chicchessia, nemmeno con altri anarchici. Per gli anarchici, 
                  la faccio assolutamente sintetica, vale l'uguaglianza. E l'uguaglianza 
                  postula soltanto la convivenza. Gli uomini liberi ed uguali 
                  non possono, quindi, dar vita ad un sistema sociale, ma solo 
                  a comunità. 
                  Credere e volere l'uguaglianza non vuole assolutamente postulare 
                  che gli uomini siano tutti uguali. Ma attenzione, pure i fascisti 
                  o i razzisti o i liberisti (sono cose diverse?) dicono di pensarla 
                  così. Ma c'è una differenza enorme. Costoro credono 
                  che: “tu sei diverso” e questo è gravido 
                  di pessime e brutali conseguenze. Gli anarchici: “io 
                  sono diverso” e questo è alla base di ogni possibile 
                  ed utile e desiderabile costruzione. 
                  Infine, a mio parere, “A” ha saputo insegnare che 
                  gli anarchici non sono utopisti, cioè non portano idee 
                  irrealizzabili. Ha proposto inchieste, testimonianze ed altro 
                  che hanno mostrato come, in linea teorica, non ci sono fatti 
                  irrealizzabili. Ogni guerra sarebbe irrealizzabile se ci 
                  si basasse sulla voglia di non morire cha ha la gente. Ogni 
                  verginità protratta oltre un certo limite sembra inumana 
                  ed impossibile a mantenersi. Eppure moltissimi uomini e donne 
                  ne hanno fatto lo scopo della propria vita se non della propria 
                  morte. 
                  Ha insegnato che non può non constatarsi come ogni 
                  cosa considerata innaturale e nefasta per l'uomo va a finire 
                  che si realizza, mentre un progetto positivo (e quello anarchico 
                  è un progetto positivo) non c'è verso che diventi 
                  pratica.  
                  Questa considerazione sembra dar ragione a coloro che ritengono 
                  l'uomo fondamentalmente “cattivo” e quindi capace 
                  ed adatto solo a realizzare quanto più male è 
                  possibile. Se ciò fosse vero dovremmo dedurne che se 
                  si vuole realizzare qualcosa di positivo, non c'è altra 
                  soluzione che quella di imporla con la maggior determinatezza 
                  possibile, il che vuol dire con la maggior “brutalità” 
                  possibile. 
                  Ma utilizzare il male, il cattivo, per realizzare un bene è 
                  proprio quello che gli anarchici non ammettono. Questo, a mio 
                  parere, non è in contraddizione con le morti ed anche 
                  con le stragi provocate dagli anarchici nella loro storia. Queste 
                  uccisioni non sono mai state dirette alla creazione del progetto 
                  anarchico, ma ad una volontà di giustizia o, se si vuole, 
                  di vendetta. Nessun progetto si voleva realizzare con l'uccisione 
                  di Carnot o di Umberto I; era solo vendetta e giustizia, ma 
                  non intesa come adesione ad un “sistema” che definisse 
                  il giusto e l'ingiusto, ma solo come adesione ad una propria 
                  e solo propria decisione di cosa fosse giusto o ingiusto. Sopportabile 
                  o non più sopportabile. 
                  Ti abbraccio,
                
  Angelo Tirrito 
                  Palermo  
 
                    
                  Antiziganismo/ Sempre più razzisti e prepotenti 
                   
                  Gentile redazione, 
                  sono un abbonato alla vostra rivista, ho scritto questi versi 
                  pensando al sempre più dilagante razzismo nei confronti 
                  dei rom in particolare e degli immigrati in generale. Forse 
                  è un po' banale, un po' elementare, ma volevo esprimere 
                  in qualche modo la mia indignazione pensando ai continui episodi 
                  di aggressioni razziste nei confronti dei rom, e ai commenti 
                  di approvazione della cosiddetta gente per bene. 
                  Un caro saluto.
                
  Massimo Teti 
                  Roma
                  noi, coi vestiti puliti, le ascelle 
                  deodorate; noi nella nostra casa 
                  ben arredata, il mutuo, la spesa 
                  all'ipercoop; nelle nostre belle 
                  utilitarie prese a rate, fermi 
                  nel traffico infernale delle vie 
                  delle nostre sporche periferie; 
                  chiusi, tra clacson assordanti, inermi 
                  di fronte allo spettacolo orrendo 
                  delle nostra squallida esistenza 
                  piena di cose inutili, di mancanza 
                  di ideali, di sogni, di un mondo 
                  migliore, più giusto; sempre più arresi 
                  ai richiami del libero mercato 
                  del pensiero unico globalizzato, 
                  che ci ha reso tutti piccolo-borghesi; 
                  ciechi e sordi di fronte al bisogno 
                  di chi chiede soltanto il diritto 
                  a una vita migliore, ad un tetto 
                  sulla testa e a coltivare il sogno 
                  di un futuro migliore per i figli; 
                  gli “altri”che vengono a turbare 
                  la nostra vista, quel vagabondare, 
                  quel rimestare tra i nostri rimasugli 
                  nei cassonetti, in mezzo ai rifiuti 
                  della nostra grande, bella civiltà, 
                  dove non c'è più posto per la pietà, 
                  per i bambini che sono cresciuti 
                  tra lamiere, cartoni e la polvere 
                  dei campi nomadi, nel fango d'inverno 
                  e in estate in un caldo d'inferno; 
                  dove chiedersi ogni giorno se restare 
                  in quel posto dove l'odio cresce 
                  della gente “per bene”, infastidita 
                  da persone che con la loro vita 
                  ricorda loro che forse chi non nasce 
                  nei posti giusti, dove non c'è guerra 
                  né miseria, né dittatura, né fame 
                  fa differenza sulla nostra terra 
                  tra chi pensa domani a che indossare 
                  e chi si chiede se riuscirà a mangiare; 
                  e magari se a qualcuno verrà in mente 
                  una sera di armarsi di bastone 
                  e di andare a dare una lezione 
                  a quei pezzenti che non servono a niente, 
                  che rubano o tendono la mano 
                  e se qualcuno di quelli ci rimane 
                  sarà come aver ammazzato un cane 
                  rabbioso, non un essere umano, 
                  come noi che siamo cittadini 
                  onesti, per bene, ligi alle regole, 
                  paghiamo le tasse, mandiamo nelle scuole; 
                  i nostri cari, piccoli bambini; 
                  i nostri bambini puliti, innocenti 
                  che cresceranno e diventeranno 
                  proprio come noi, anno dopo anno, 
                  sempre più razzisti e intolleranti. 
                   
                  M. T. 
                 
                   
                 
                
                
                 
                  
                   
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                          nostri fondi neri 
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                         Sottoscrizioni. Roberto Ceruti (Albisola Marina 
                          - Sv) 10,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia 
                          Pastorello e Alfonso Failla, 500,00; Antonio Abbotto 
                          (Sassari) 5,00; Libreria San Benedetto (Genova) 4,70; 
                          Lorenzo Partesana (Sondalo – So) 10,00; Davide 
                          Andrusiani (Castelverde – Cr) 10,00; Raimondo 
                          Aleddu Salaris (San Vero Milis – Or) 10,00; Rino 
                          Quartieri (Zorlesco – Lo) 50,00; Tullio Procacciante 
                          (Milano) 100,00; Davide Giovine (Valpellice – 
                          To) 15,00; Nicola Plebani (Martinengo – Bg) 20,00; 
                          Luciano Collina (Sala Bolognese – Bo) 10,00; Antonio 
                          Ciaramella (Colle Val d'Elsa – Si) 10,00; Gianni 
                          Forlano e Marisa Giazzi (Milano) per onorare Errico 
                          Malatesta a 82 anni dalla sua morte, 100,00; Giorgio 
                          Scalenghe (Omegna – Vb) 10,00; Massimo Teti (Roma) 
                          50,00; Orazio Gobbi (Piacenza) 10,00; Antonio Senta 
                          (Bologna) 20,00; Gianni Antidormi (Avezzano – 
                          Aq) 10,00; Francesco Triggiari (Amandola – Ap) 
                          5,00; Giusy Carnemolla (Marina di Ragusa – Rg) 
                          25,00; Settimio Pretelli (Rimini) ricordando Antonio 
                          Tarasconi, 20,00; Eva Bendinelli (Vetulonia – 
                          Gr) 10,00; Fabrizio Tognetti (Larderello – Pi) 
                          20,00; Andrea Papi (Forlimpopoli – Fc) 40,00; 
                          Roberto Palladini (Nettuno – Rm) 20,00; Roberto 
                          Bernabucci (Cartoceto – Pu) 20,00; Gavino Puggioni 
                          (Como) 10,00; Angelo Tirrito (Palermo) “manifestazione 
                          di una eleganza in direzione ostinata e contraria”, 
                          100,00; Antonino Pennisi (Acireale – Ct) 20,00; 
                          Marco Della Croce (Decimomannu – Ca) 20,00; Pino 
                          Fabiano (Cotronei – Kr) ricordando Spartaco, 10,00; 
                          Maurizio Mamini (Brisighella - Ra) 10,00 (ha pagato 
                          l'abbonamento annuo specificando “come straniero”); 
                          Giuseppe De Vincenti (Brescia) 10,00; Umberto Mandelli 
                          (Milano) 20,00; Silvestro Livolsi (Troina - En) 40,00; 
                          Giorgio Bigongiari (Lucca), 20,00. Totale € 
                          1.374,70. 
                          
                        Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti 
                          specificato, trattasi di euro 100,00). Roberto 
                          Altobelli (Canale Monterano – Rm); David Licheri 
                          (Altopascio – Lu); Roberto Di Giovannantonio (Roseto 
                          dgli Abruzzi – Te); Carlo Ghirardato (Roma); Cariddi 
                          Di Domenico (Livorno); Renato Girometta (Vicobarone 
                          – Pc); Carmelo Goglio (Olmo al Brembo – 
                          Bg); Luigi Natali (Donnas – Ao) 150,00; Marco 
                          Buraschi (Roma); Marco Galliari (Milano) 200,00 in ricordo 
                          di Franco Pasello; Alfredo Gagliardi (Ferrara) 200,00; 
                          Claudio Piccoli (Milano). Totale € 
                          1.450,00. 
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