rivista anarchica
anno 43 n. 385
dicembre 2013 - gennaio 2014


Catalogna

L'eterna seduzione del nazionalismo

testo e foto di Steven Forti


Alcune riflessioni sparse sulla questione catalana.
E, più in generale, sul rapporto tra “lotte nazionali” e lotta di classe.

Scrivere a caldo, si suol dire, non è cosa buona e giusta. Bisognerebbe far passare del tempo e scrivere a mente fredda. Tendenzialmente sono d'accordo. Il fatto è che qui in Catalogna la situazione è “calda” da più di un anno e non ci sono avvisaglie che si raffreddi in tempi ragionevoli.
Dunque, è meglio scrivere, prima che passi troppo tempo, perché il dibattito di fondo, lungi dall'essere solo catalano, è di interesse generale.
In queste pagine vorrei evitare di toccare temi di cronaca spiccia o riportare dichiarazioni altisonanti, che per lo più lasciano il tempo che trovano, di dirigenti i cui nomi si dimenticheranno nel giro di qualche anno. Non parlerò dunque del possibile referendum di autodeterminazione catalano (si terrà o non si terrà? e in questo caso, che domanda si porrà ai cittadini catalani?) né della catena umana che ha riunito oltre un milione e mezzo di persone lo scorso 11 settembre. Non parlerò neppure dell'infausto centralismo di Madrid e dell'atavico nazionalismo spagnolo, che alimenta il nazionalismo e l'indipendentismo catalano, da cui poi, a sua volta, si retroalimenta, né delle prese di posizione europee (una Catalogna indipendente rimarrebbe fuori dall'Unione Europea?).1
Sono già in troppi ad urlare – con insulti gratuiti inclusi e grazie ai mass media che da un lato o dall'altro dell'Ebro spillano propaganda a seconda delle lobby di riferimento e che dimostrano ancora una volta che nelle baraonde politico-identitarie ci sguazzano – e pochi, pochissimi sono quelli che cercano di riflettere, favorendo l'apertura di un dibattito che si fa di giorno in giorno più difficile. Un dibattito che alla base ha, almeno per chi si sente un membro della vasta ed eterogenea famiglia della sinistra, una vexata quaestio da risolvere: quella della relazione tra classe e nazione. Pensare di risolverla sarebbe forse un'utopia, complessa tanto quanto quella descritta cinque secoli fa da Tommaso Moro. Provare a ripensarla in questo inizio di XXI secolo è invece una necessità. Può dunque la sinistra essere nazionalista, senza perdere la sua identità? Lotta di classe e lotta nazionale possono andare mano nella mano? E ancora, nell'Europa del 2013 possiamo parlare di popoli oppressi e sfruttati che lottano per la loro emancipazione?

Manifesto “Catalunya contra el Feixisme”
della gioventù del partito
indipendentista Estat Català

Marx, Lenin, Mao

La tematica non è affatto nuova. Molti ne hanno scritto. A partire da Marx con le riflessioni sui casi della Polonia e soprattutto dell'Irlanda, considerate nazioni oppresse. In Irlanda, per il Marx maturo, non c'era una questione sociale al di fuori di una questione nazionale. Anche l'ultimo Engels sottolineò in più occasioni come l'internazionalismo del proletariato era possibile solo se esistevano nazioni indipendenti. La posizione di Lenin, ribadita più chiaramente nel Congresso dei popoli oppressi tenutosi a Baku nel 1920, era stata resa esplicita già nel 1916: “Credere che la rivoluzione sociale sia immaginabile senza le insurrezioni delle piccole nazioni nelle colonie e in Europa (...) significa rinnegare la rivoluzione sociale”.
Anche Mao, almeno a partire dalla Lunga Marcia iniziata nel 1934, dimostra posizioni orientate ancora di più in questa direzione: “nella lotta nazionale, la lotta di classe assume la forma di lotta nazionale; e in questa forma si manifesta l'identità tra le due lotte”. Ovvero: “Nella guerra di liberazione nazionale, il patriottismo è perciò un'applicazione dell'internazionalismo”.
Seguono poi i cosiddetti classici del socialismo terzomonidista della metà del novecento, dove la lotta per la liberazione di una nazione oppressa si unisce indissolubilmente alla lotta di classe. Gli esempi sono numerosi (da Cuba al Vietnam, dai paesi arabi al Congo fino alle Black Panther). Non è un caso che Editori Riuniti intitolò la raccolta di saggi politici di Ho Chi Minh pubblicata nel 1968 Socialismo e nazione.
Per quanto la cultura marxista sia passata di moda dopo il 1989, ciò non toglie che alcuni settori dell'indipendentismo catalano recuperino, coscientemente o meno, parte di queste analisi. Una cosa non nuova in Spagna (e non solo): si pensi alla sinistra abertzale nei Paesi Baschi dai tempi di Herri Batasuna al presente di Bildu o al caso galiziano con il primo Bloque Nacionalista Galego o l'attuale Alternativa Galega de Esquerda. Anche in Catalogna l'unione di classe – permettetemi, anche per l'oggi l'uso di un termine considerato ormai desueto – e nazione non è una novità. La novità è semmai il consenso che tali posizioni stanno ottenendo. Si badi bene: coloro i quali sono a favore dell'indipendenza della Catalogna non sono solo partiti ed associazioni del composito mondo della sinistra catalana (e di quel che ne rimane di questi tempi). La destra di Convergència Democràtica de Catalunya è passata nell'ultimo biennio da una posizione autonomista a una indipendentista, il centro-sinistra di Esquerra Republicana de Catalunya ha sposato la tesi di un indipendentismo senza complessi.
È fuorviante e completamente erroneo, dunque, leggere la situazione catalana come un'opposizione tra la destra (spagnolista) e la sinistra (catalanista). Le fratture sono molteplici, sia nella società sia nei partiti politici. La sinistra ecologista e post comunista di Iniciativa per Catalunya Verds è spaccata al suo interno, come anche la federazione socialista catalana, per quanto i due partiti abbiano votato in modo diverso riguardo al diritto di autodeterminazione e dimostrino diverse sensibilità sulla volontà di celebrare o meno un referendum.

La catena umana nel centro di Barcellona
lo scorso 11 settembre 2013

Questione complessa e delicata

Lo stesso vale per il mondo anarchico e libertario, da sempre meno sensibile al richiamo della patria e della nazione. Non sono pochi però gli anarchici catalani indipendentisti, sia all'interno sia all'esterno della Fai. Esiste poi la Candidatura d'Unitat Popular (Cup), formazione anticapitalista entrata per la prima volta nel Parlamento catalano nel novembre scorso con tre deputati e il 3 per cento dei voti, che considera sociale e nazionale i pilastri del proprio pensiero e della propria azione. Per la Cup, l'indipendenza catalana non è separabile dalla lotta per politiche sociali avanzate. Negli ultimi sondaggi di inizio ottobre la Cup raddoppierebbe i voti.
Un'altra formazione è sorta recentemente: il Procés Constituent guidato dall'economista Arcadi Oliveres e dalla teologa benedettina Teresa Forcades che difende una Repubblica catalana indipendente libera dalle banche e dai poteri finanziari. Sociale e nazionale vanno mano nella mano.
La questione è invero assai complessa e delicata. Un italiano fatica a capirla e, usando paradigmi conosciuti, la identifica con una specie di leghismo oltre frontiera. Certo, il discorso della destra catalanista basato sull'economia, le tasse e l'anticentralismo avvalla in parte questa analogia: “Roma ladrona!” si converte in “¡Madrid ens roba!”. Ossia, “Madrid ci ruba!”. Ma c'è di più.
Torniamo però alla relazione classe-nazione e facciamo un altro passo indietro. L'estate del 1914 è stato uno dei buchi neri nella storia del proletariato. La socialdemocrazia tedesca vota i crediti di guerra e il socialismo francese decide di entrare nella Union sacrée. Il militante (socialista) si trasforma in militare (tedesco o francese). È la fine dell'internazionalismo. Pochi resistono al fascino della patria. Lenin, Rosa Luxemburg, Gorter, Pannekoek e Malatesta, tra gli altri. Anche in Italia, per quanto il Psi né aderì né sabotò la guerra, non furono pochi gli interventisti provenienti dalle fila della sinistra: Mussolini e qualche sparuto socialista rivoluzionario e molti sindacalisti rivoluzionari, in odore di nazionalismo già dalla guerra di Libia (Arturo Labriola, Ottavio Dinale...), come era avvenuto in Francia per Gustave Hervè. Pochi furono i “superstiti” all'abbraccio della patria; nelle fila sindacaliste rivoluzionarie meritano una menzione Armando Borghi, Virginia D'Andrea e Pulvio Zocchi, accusato d'essere pagato profumatamente dagli Imperi Centrali (come il Lenin che nel 1917 attraversò la Germania diretto in Russia) per aver pubblicato all'inizio del 1915 Coerenza, un periodico anarco-sindacalista neutralista. In ogni caso, se evitiamo il senno di poi e ci immergiamo in quel momento storico, i propositi spesso non erano malvagi o non parevano tali: la guerra la si faceva per difendere la patria della rivoluzione e della libertà dai “barbari” tedeschi guglielmini e per fare poi la rivoluzione sociale. Prima la guerra, poi la rivoluzione. Ben altro è successo.
Facciamo ora un passo in avanti. Nel periodo interbellico non furono pochi i tentativi di coniugare sociale e nazionale. E non penso solamente al nazionalsocialismo e al corporativismo fascista. Penso anche alla cosiddetta terza via, al planismo di Henri De Man, ai neosocialisti francesi di Renaudel e Marquet e a molti altri casi comparabili in Europa. E penso anche a traiettorie individuali, come quelle di alcuni socialisti, comunisti e sindacalisti rivoluzionari che si convertirono al fascismo tra anni venti e anni trenta. Jacques Doriot, Paul Marion e Marcel Déat in Francia, Óscar Pérez Solís e Ramón Merino Gracia in Spagna, Nicola Bombacci, Alberto Malatesta e Edmondo Rossoni in Italia, solo per fare qualche nome.2
Non è un caso che fu proprio quando il fascismo giocò la carta della patria vilipesa e attaccata in ambito internazionale (le sanzioni della Società delle Nazioni per la guerra d'Etiopia nel 1935) che Arturo Labriola rientrò in Italia dall'esilio a Bruxelles scrivendo al figlio che “Bisogna avere il santo coraggio di identificarsi col proprio paese anche in quello che il proprio paese può presentare di contrario alle nostre tendenze.” Non è un caso nemmeno il fatto che Stalin giocò la carta propagandistica della “grande guerra patriottica” dopo l'invasione nazista dell'Urss per unificare il popolo sovietico. È fuor di dubbio che in quegli stessi anni la relazione tra classe e nazione ha dato anche frutti bellissimi, per quanto di corta durata, come le esperienze dei Fronti popolari in Francia e Spagna o le esperienze partigiane in Italia, Francia e Jugoslavia (e anche in Grecia, spesso dimenticata). Ciò non toglie, in ogni modo, che i tentativi di unire sociale e nazionale, classe e nazione siano spesso un modo rischioso di giocare con il fuoco. La nazione è una fiamma incontrollabile che può bruciare in pochissimo tempo un lavoro sociale durato decenni. Quello che mi domando è dunque: ne vale la pena?

Bandiere indipendentiste nella catena umana
nel centro di Barcellona lo scorso 11 settembre 2013

Una nazione sfruttata e oppressa?

Non è questa l'unica domanda che mi pongo, tutt'altro. Entrando più in concreto nel caso catalano: possiamo considerare la Catalogna del 2013 una nazione sfruttata e oppressa (da 300 anni di dominio spagnolo, come frequentemente si sente ripetere)? Ha senso, politicamente e storicamente parlando, applicare modelli terzomondisti a una regione autonoma europea nel XXI secolo? E ancora: di che libertà si parla quando si dice che si vuole una “Catalogna che vive in libertà”? Non è ormai la parola libertà un contenitore svuotato di qualunque suo significato? Libertà da che cosa e per che cosa? A cosa serve una Catalogna indipendente se il proletariato (leggasi lavoratore precario o disoccupato) andaluso, galiziano e madrileno è ancora sfruttato? Una Catalogna libera sarebbe una Catalogna diversa dal punto di vista sociale? E una domanda a monte: Come si può stringere la mano al proprio sfruttatore (la borghesia catalana) per un obiettivo comune (l'indipendenza)?
Vorrei concludere con un ultima citazione di un pensatore dimenticato: Anton Pannekoek. Nel 1912, il pensatore olandese scrisse Lotta di classe e nazione, una risposta a La questione delle nazionalità e la socialdemocrazia di Otto Bauer, pubblicata nel 1907. Pannekoek vi affermava che “il proletariato non può trovare nessuna forza costitutiva nella nazione. (...) Ciò che è nazionale non ha per il proletariato altro significato che quello di una tradizione. (...) la nazione gioca per il proletariato un ruolo simile a quello della religione.” E ancora: “Ciò che è nazionale (...) costituisce un ostacolo per la lotta di classe e deve essere eliminato. (...) gli antagonismi nazionali costituiscono un mezzo eccellente per dividere il proletariato, distrarlo dalla lotta di classe con slogan ideologici e impedire la sua unità di classe. (...) Agli slogan e agli argomenti nazionalisti dobbiamo rispondere: sfruttamento, plusvalore, borghesia, dominio di classe, lotta di classe.”3 Ad alcuni probabilmente tutto ciò puzza di naftalina. Io non ne sono convinto. Credo invece che sia ancora oggi uno dei migliori antidoti a questa “eterna seduzione del nazionalismo”4.

Steven Forti

Note

  1. Per una cronaca ragionata della questione catalana rimando a due libri usciti recentemente in Italia: Elena Marisol Brandolini, Catalunya – España, il difficile incastro, Roma, Ediesse, 2013 e Angelo Attanasio e Claudia Cucchiarato, La questione catalana. Independéncia?, GoWare, 2013 [e-book].
  2. Per un approfondimento di questi casi vedasi il mio El peso de la nación. Nicola Bombacci, Paul Marion y Óscar Pérez Solís en la Europa de entreguerras, Santiago de Compostela, PUSC, 2013.
  3. Cito dall'edizione spagnola: Anton Pannekoek, Lucha de clases y nación, in Herman Gorter e Anton Pannekoek, Contra el nacionalismo, contra el imperialismo y la guerra: ¡Revolución proletaria mundial!, Ediciones Espartaco Internacional, 2005, pp. 39, 40, 41, 60, 51.
  4. Prendo a prestito il titolo dal bel saggio di Fredy Perlman pubblicato in Italia dalla casa editrice Chersi di Brescia nel 2006.