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 società 
                  
                Rendere protagoniste le piazze 
                  
                di Antonio Cardella 
                    
                Al di là delle consuete “drammatiche” alternative strombazzate in campagna elettorale, le politiche dei governi (tecnici o politici) fanno riferimento ai vari poteri forti. Non certo alla “gente”. 
                 
                  Quando ebbi terminato l'intervento, 
                  fui colto dall'angoscia di non essere stato chiaro, di non avere 
                  sufficientemente motivato le ragioni che mi vedevano così 
                  radicalmente contrario alle analisi e alle ipotesi di intervento 
                  che governo e partiti – nessuno escluso – sostenevano 
                  per uscire dalla crisi gravissima che attanaglia il nostro paese 
                  e gran parte delle comunità occidentali. 
                  I riflettori dell'auditorium della Rai di Palermo – dove, 
                  con i compagni Vaccaro, Tirrito e La Via (relatore il sociologo 
                  Enzo Macaluso) si presentava ad un pubblico eccezionalmente 
                  numeroso e attento il nostro libro Il 
                  buco nero del capitalismo – illuminavano di luce 
                  intensa il proscenio sul quale eravamo seduti e dal quale la 
                  sala appariva come uno spazio vuoto oscuro e impenetrabile. 
                  Decisi subito – sulla scia della frustrazione che compagni 
                  e amici non riuscivano a rimuovere – che avrei messo nero 
                  su bianco, il più razionalmente e chiaramente possibile, 
                  la mia tesi di fondo e cioè che quanto si sostiene sulle 
                  ragioni che hanno reso la crisi così imponente e duratura, 
                  e gli interventi messi in atto per fronteggiarla, sia totalmente 
                  infondato. 
                   
                  Misure peggiori  del male 
                
  Iniziamo – sia pure a volo d'uccello – dall'inizio 
                  della crisi. 
                  La presunzione, tutta americana, che il mercato fosse il regolatore 
                  finale di ogni possibile scompenso delle economie reali, aggiunta 
                  ad una politica del credito espansiva e disinvolta, determinò 
                  una corsa all'indebitamento che investì in particolare 
                  alcuni settori dell'economia americana, in prima fila l'industria 
                  della casa. Per acquistare un tetto per abitarvi o per creare 
                  reddito, le famiglie della Grande Mela ipotecarono presunte 
                  risorse future, prosciugando i risparmi accumulati. Altrettanto 
                  disinvoltamente gli istituti bancari cartolarizzarono i crediti 
                  accumulati, creando un giro di denaro cartaceo che moltiplicava 
                  fittiziamente il valore del credito originario nella presunzione 
                  che il processo si potesse sostenere all'infinito e che, in 
                  ogni caso, alla fine, la crescita del benessere collettivo, 
                  ritenuta inarrestabile, avrebbe pareggiato i conti. 
                  Come tutti ormai sanno, le cose non andarono esattamente così: 
                  la bolla speculativa esplose, il valore degli immobili crollò 
                  e istituti di credito e di intermediazione finanziaria si trovarono 
                  con una valanga di titoli cartacei che non valevano nulla, mentre 
                  le famiglie che si erano indebitate si trovarono a fare i conti 
                  con una indigenza alla quale l'opulenza pregressa li aveva disabituati. 
                  Ma la carta straccia prodotta dal sistema finanziario statunitense 
                  aveva nel frattempo inquinato tutto il resto dell'area occidentale, 
                  per cui le famiglie che, dolosamente consigliate dalle proprie 
                  banche, avevano investito i propri risparmi in azioni o in obbligazioni 
                  d'oltre oceano e lo stesso sistema bancario si trovarono a non 
                  potere far fronte ai propri impegni. 
                  A questo punto le misure delle istituzioni pubbliche per fronteggiare 
                  la crisi furono, se possibile, peggiori del male che volevano 
                  combattere. Anziché equilibrare le misure di sostegno 
                  tra gli ambiti delle sofferenze maggiori, finanziando in misura 
                  equilibrata sia il sistema del credito, selezionando quegli 
                  istituti più sani e che meno avevano contribuito a diffondere 
                  la pandemia, sia le economie reali dei paesi più pesantemente 
                  investiti dalla crisi, si preferì privilegiare proprio 
                  quel settore maggiormente responsabile della crisi stessa. 
                  Così, tra la fine del 2008 e il primo trimestre del 2009, 
                  le banche centrali di Stati Uniti ed Europa finanziarono le 
                  banche con la stratosferica cifra di 14 mila miliardi di dollari, 
                  una massa di denaro equivalente a circa il 50 per cento del 
                  prodotto interno lordo dei paesi beneficiari (calcolo della 
                  Bank of England). 
                  In questo modo si è compiuta la più imponente 
                  operazione di socializzazione del debito privato che la storia 
                  ricordi. In pratica, i debiti accumulati dal sistema bancario 
                  privato si riversano sul debito pubblico di tutti i paesi travolti 
                  dalla crisi, determinando il decollo del debito pubblico complessivo 
                  rispetto al Pil. In Italia tale rapporto, considerato in crescita, 
                  è di circa il 121 per cento (2014 miliardi di euro).
                  
                
  Processi recessivi  a spirale 
                  Il modo in cui tutti gli stati tentano di risolvere i loro 
                  problemi per finanziarsi è quello di aumentare indiscriminatamente 
                  la pressione fiscale e di effettuare tagli lineari alla spesa 
                  pubblica, sottraendo risorse alle autonomie locali e, quindi, 
                  servizi essenziali per i cittadini. Si verifica così 
                  un circolo vizioso in virtù del quale le popolazioni 
                  sono doppiamente vessate: dalla tassazione diretta e dalla necessità 
                  di pagarsi i servizi essenziali sottratti dalla bulimia dei 
                  governi. 
                  Sono misure di brevissimo respiro e normalmente inutili. Infatti 
                  innescano processi recessivi a spirale: la popolazione non ha 
                  più soldi da destinare ai consumi e al risparmio, la 
                  contrazione dei consumi deprime la produzione interna di beni 
                  e servizi, aumenta la disoccupazione, si restringe – qualità 
                  e quantità –base dei contribuenti con la doppia 
                  conseguenza dell'aumento del debito pubblico e del rapporto 
                  tra la produzione di ricchezza prodotta e il debito complessivo 
                  dello stato. 
                  Questa è la condizione attuale di molti paesi dell'eurozona, 
                  con la fondata preoccupazione che per alcuni di essi i danni 
                  che si stanno provocando all'economia reale diventino irreversibili. 
                  In Italia, il dato sulla disoccupazione è gravissimo: 
                  si stima che tra espulsi dalle attività produttive e 
                  lavoratori potenziali che un lavoro, sfiduciati, non lo cercano 
                  più, i senza occupazione saranno nel 2013 oltre 3 milioni 
                  e 500.000, il 14 per cento della popolazione attiva, ai quali 
                  occorre aggiungere circa 1 milione di cassaintegrati per un 
                  numero di ore che supera il miliardo. La conseguenza diretta 
                  è che i consumi sono diminuiti del 4 per cento su base 
                  annua, la produzione industriale del 7 per cento in due anni 
                  e il Pil del 2,4 per cento. 
                  E noi stiamo ancora bene rispetto ad altri paesi. 
                  Il voler porre rimedio a questa situazione con la politica del 
                  rigore imposta dalle autorità della Comunità Europea 
                  è pura follia. Tale strategia presuppone l'infondata 
                  convinzione che l'indebitamento pubblico derivi dalla propensione 
                  degli stati a spendere, mentre risulta chiaro da quello che 
                  ho appena scritto – difficilmente contestabile perché 
                  mi sembra sufficientemente suffragato da dati obiettivi – 
                  che il debito pubblico cresce e si alimenta per effetto della 
                  crisi: cioè per le dinamiche recessive che la speculazione 
                  finanziaria ha innescato. 
                  Bisogna aggiungere che in questi frangenti la moneta unica non 
                  aiuta a risolvere i problemi, anzi contribuisce a cristallizzare 
                  alcuni squilibri connessi ai diversi livelli di evoluzione delle 
                  economie dell'eurozona. Le ragioni sono assai complesse, proverò 
                  a sintetizzarle, scusandomi in anticipo se non riuscirò 
                  ad essere esaustivo. 
                  La moneta unica – che ha certamente contribuito ad evitare 
                  derive inflattive incontrollabili all'interno dell'area – 
                  si regge prevalentemente sulla definizione di un tasso d'interesse 
                  omogeneo tra tutti gli stati dell'Unione (oggi è allo 
                  0,75 per cento). Tale misura, che rende il costo del denaro 
                  molto contenuto con effetti certamente positivi per gli scambi 
                  commerciali, impedisce alle banche centrali delle singole nazioni 
                  di immettere nuova liquidità (stampando cioè denaro 
                  non vincolato) per quelle che erano definite inflazioni competitive, 
                  volte a sanare squilibri (prevalentemente) degli apparati industriali, 
                  in modo da renderli competitivi. In buona sostanza, le attività 
                  produttive dell'area sono state private, anche giuridicamente 
                  (leggi europee sulla concorrenza), della possibilità 
                  di essere sostenute in qualche misura dai propri stati. Il che 
                  rende poco flessibili i modelli di sviluppo, deprime il commercio 
                  internazionale (oggi poche nazioni hanno bilanci commerciali 
                  in attivo con l'estero) e innesca processi di deindustrializzazione, 
                  dovuti anche agli alti costi dell'energia e delle materie prime. 
                  In un panorama così deprimente, la funzione di un governo 
                  europeo dovrebbe essere quella di immettere risorse adeguate 
                  alle economie reali, potenziando tutte quelle attività 
                  che nei singoli paesi faciliterebbero la ripresa dei consumi 
                  e della produzione di beni e servizi essenziali, la riduzione 
                  dei tassi di disoccupazione e, soprattutto, quelle attività 
                  a tutela dell'ambiente e dei patrimoni culturali, di cui tutta 
                  l'eurozona è ricca. Niente di tutto questo si vede all'orizzonte. 
                  Ancora ultimamente, in aiuto ai titoli sovrani, Draghi ha erogato 
                  ulteriori 1000 miliardi al sistema bancario, di cui 240 sono 
                  arrivati in Italia. Complessivamente nei portafogli dei nostri 
                  istituti di credito ne giacciono per 140 miliardi, chissà 
                  a cosa destineranno l'eccedenza. Certamente non al credito a 
                  favore di famiglie e imprese in sofferenza, a giudicare dal 
                  fatto che alle famiglie non è neppure consentito rinegoziare 
                  i mutui contratti e ogni giorno migliaia di imprese o chiudono 
                  i battenti o sono sul punto di chiuderli. 
                  Per queste ragioni e per tutte le altre che riguardano il sistematico 
                  smantellamento di quel poco che rimane delle garanzie sociali 
                  e giuridiche dello stato, bisogna in ogni modo che le logiche 
                  del governo europeo, interpretate acriticamente da quel Berlusconi 
                  travestito che è l'incartapecorito Monti, con la sua 
                  agenda cinicamente antipopolare, non prevalgano alle imminenti 
                  elezioni. 
                  Noi, come sempre, ci siamo sottratti al gioco della scheda elettorale. 
                  Ma guai se a questo sottrarsi non corrisponderà la promozione 
                  più determinata, intanto, di una rivolta dal basso che 
                  renda protagoniste le piazze e, contemporaneamente, di tutte 
                  quelle libere e autonome iniziative che confermino la nostra 
                  convinzione che un altro mondo sia possibile. 
                 Antonio Cardella
 
                   
                      
                        “Il 
                          buco nero del capitalismo” 
                          (120 pagine) costa € 7,50. 
                           
                          Per richieste: 
                           
                          Zero in Condotta, casella postale 17127 - MI 67, 20128 
                          Milano 
                           
                          zic@zeroincondotta.org 
                           
                          conto corrente postale 98985831 intestato a Zero in 
                          Condotta 
                           
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