rivista anarchica
anno 34 n. 304
dicembre 2004 - gennaio 2005


Israele

Abbattere muri, costruire ponti
di Maria Matteo

 

L’originale esperienza non-violenta degli “Anarchists against the wall”.

Un ponte. Un ponte fatto di gente che si incontra, discute, collabora, agisce insieme. Questa l’intuizione semplice e radicale degli anarchici israeliani riuniti nella rete “Anarchici contro il muro”. La maggior parte di loro sono giovani e giovanissimi, cresciuti in un paese sempre più dominato dalla paura, dall’odio, sempre più separato da quei territori occupati durante la guerra dei 6 giorni nell’ormai lontano ’67. A me pare ieri ma sono ormai 37 anni… Almeno due generazioni di palestinesi sono nate e vissute nella Cisgiordania occupata, dove il filo spinato, i posti di blocco, la presenza costante dei militari hanno fatto parte del panorama quotidiano ben prima che l’inevitabile fallimento della cosiddetta “pace” di Oslo portasse alla rivolta, all’intifada.
Il muro di separazione che taglia come un mostruoso serpente la Cisgiordania non fa che rendere visibile la frattura tra due società che la geografia vorrebbe vicine ma la politica statuale divide.

Contro il muro di diffidenza e odio

I giovani anarchici israeliani lottano contro il muro di cemento, la fitta selva di filo spinato, i fossati che materialmente creano una serie di Bantustan nei quali è relegata la popolazione palestinese, ma anche contro il muro di diffidenza e odio che separa le persone tanto quanto la struttura fisica, rendendola ancor più invalicabile.
Il percorso che li ha portati a costituirsi in gruppo parte dalla volontà di conoscere la realtà al di là della rappresentazione mediatica, recandosi nei territori, costruendo relazioni dirette, conoscendo e facendosi conoscere. In un’intervista rilasciata nell’ottobre del 2003 (1), uno di loro, Jonathan, sosteneva: “La gente in Europa si deve rendere conto che non usiamo la parola ‘apartheid’ solo come uno slogan. C’è una separazione assoluta tra le due società. Anche al di là della green line non vi è nessuna occasione in cui le due società possono venire in contatto. Allacciare relazioni personali e costruire la fiducia, che sono la base dell’azione politica, è l’elemento più difficile e contemporaneamente più importante.”
Un’occasione preziosa è stata il campo contro la costruzione del muro svoltosi tra la primavera e l’estate del 2003 a Mash’ha. “Il campo di Mas’ha è stato un’esperienza di reale coesistenza. La gente lavorava assieme su una base di parità. Si discuteva assieme, si cercavano assieme strategie, linee di azione. Naturalmente era difficile, ed era necessario riconoscere le differenze tra di noi. Tutto quanto si basava sul principio della democrazia diretta, la gente partecipava alle discussioni in cui si prendevano le decisioni, quasi sempre sulla base del consenso.” (2)
Durante il campo di Mas’ha – ha dichiarato in una recente intervista Yossi – siamo diventati realmente un gruppo. A Mash’a c’erano anarchici, palestinesi, internazionali. Per la prima volta israeliani e palestinesi si univano per costruire relazioni, conoscenze e per elaborare progetti: siamo riusciti a costruire un rapporto continuativo. Per noi anarchici il muro è stato l’elemento catalizzatore della nostra stessa coscienza: noi siamo contro tutti i muri, contro tutti i confini e gli stati. (…). Noi veniamo qui uniti per combattere qualcosa che viene costruito per dividere.” (3)

Azioni dirette non-violente

Sulla base delle relazioni dirette pazientemente costruite con la popolazione locale, di gran lunga preferite a quelle con strutture gerarchiche, violente e spesso intrise di fanatismo religioso, come l’Olp o Hamas, i compagni hanno intrapreso una serie di azioni dirette non-violente che mettevano insieme anarchici israeliani, gruppi di internazionali e popolazione dei villaggi direttamente colpiti dalla costruzione del muro. La scelta della non-violenza come metodo d’azione serve, secondo i compagni, a tentare di ridurre l’enorme violenza che negli ultimi anni ha segnato il conflitto asimmetrico nella regione. La loro presenza durante le azioni contro il muro ha rappresentato di fatto una tutela per i palestinesi, contro i quali è diminuita la violenza dell’esercito. Una violenza che si è comunque mantenuta forte: l’esercito ha fatto uso di gas lacrimogeni, di proiettili di gomma, di manganelli durante tutte le iniziative di protesta. Finché, il 26 dicembre del 2003, durante un’azione diretta, l’esercito ha aperto il fuoco, colpendo ad entrambe le gambe il compagno Gil Naa’mati. Era la prima volta che i soldati usavano armi “vere” contro un cittadino israeliano ebreo. Un cittadino israeliano ebreo che propugnava con la sua stessa presenza fisica contro il muro le ragioni dell’internazionalismo contro quelle, sempre feroci, spesso razziste, degli stati.
Ogni volta che si traccia un confine si finisce con il costruire un muro. E dove c’è il muro spunta una garitta, del filo spinato, uomini armati pronti a sparare. Ogni volta che si getta la campata per un ponte, sia questo simbolico o reale, vengono meno le ragioni della guerra.
Non è un caso che la distruzione a Mostar del suo celebre ponte sia ancor oggi ricordata come il simbolo di un conflitto feroce.
Gli anarchici israeliani ci stanno provando a tirare su un ponte, un ponte che è possibile edificare solo dal basso, mettendo insieme le persone, e lasciando fuori le follie nazionaliste.
Quelle in nome delle quali uomini e donne uccidono e vengono uccisi.

Maria Matteo

Il muro
Barrier, Fence, Wall: con questi tre termini inglesi vengono definiti i 650 km di costruzione di blocchi di cemento, filo spinato, palificazione elettrica, dissuasori elettronici, videosorveglianza e polizia di frontiera (con uno spazio di sicurezza che va dai 60 ai 100 metri di larghezza) che dovrebbe garantire la tranquillità degli israeliani dalle infiltrazioni dei terroristi e dei kamikaze palestinesi. I termini non sono casuali ed hanno un peso specifico politico molto elevato. La propaganda governativa mira ad evocare l’immagine di una sorta di porta blindata destinata ad impedire l’accesso di malintenzionati e quindi preferisce il termine barriera. Una barriera serve a fermare, mentre un muro rinchiude. In un caso è sottolineata la funzione difensiva, nell’altro quella disciplinare.
Ma cos’è in realtà il muro?
Il muro si insinua nei territori della Cisgiordania, il suo percorso non segue quello della vecchia linea di frontiera tra Israele e Giordania ma obbedisce alla necessità di garantire l’annessione delle colonie israeliane in Cisgiordania. Esso disegna veri e propri bantustan, nei quali la popolazione palestinese viene di fatto reclusa. Tristemente famosa è la cittadina di Qualqilya che è completamente circondata dal muro, una sorta di prigione di cielo aperto, per uscire dalla quale gli abitanti debbono sottostare alla volontà degli uomini armati piazzati alle porte. Ma in realtà è l’intera Cisgiordania ad essere una prigione: il muro espropria terre, distrugge coltivazioni e pozzi, separa la popolazione dalle proprie fonti di sussistenza, rende i movimenti interni estremamente difficile e annette, di fatto, una larga percentuale di territorio, soprattutto intorno alle zone degli insediamenti israeliani e a quelle strategicamente ed economicamente più interessanti.
Al di del muro le colonie israeliane sono collegate da una moderna strada carrozzabile, mentre in Cisgiordania, i collegamenti sono difficili, spesso resi impossibili da blocchi di cemento piazzati dall’esercito israeliano in mezzo alle strade.
Mentre la costruzione del muro va avanti gli attentati suicidi non sono affatto cessati. D’altra parte, come sottolineano i compagni di “Anarchici contro il muro”, la funzione di questa mostruosa struttura è politica e non difensiva: la questione “sicurezza” viene usata come alibi efficace perché fa leva sul terrore suscitato in Israele dagli attentati suicidi. Il controllo del territorio, delle sue risorse, della sua popolazione, nonché la sua frantumazione in una miriade di microentità non collegate è lo scopo vero del muro, che non ferma terroristi e kamikaze ma incarcera un intero popolo.

Video
Tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre la Federazione Anarchica ha organizzato un giro di conferenze con Liad di “Anarchici contro il muro”. Durante le conferenze svoltesi in numerose località è stato proiettato un video – All lies (Tutte bugie) – sul ferimento del compagno Gil Naa’mati nel corso di un’azione diretta contro il muro nel dicembre del 2003. Il compagno Gil è stato colpito da un soldato ad entrambe le gambe. Quest’episodio ha avuto un’enorme eco tra l’opinione pubblica israeliana e ha occupato a lungo il dibattito sui media mainstream. Il video, ed altri documenti su “Anarchici contro il muro”, è liberamente scaricabile dal sito della FAI www.federazioneanarchica.org oppure se ne può far richiesta a latipo@bicnet.it.

I processi
I compagni di “Anarchici contro il muro” sono stati più volte denunciati per le loro iniziative politiche sia in Israele sia in Cisgiordania.
Il 18 ottobre, di fronte alla Corte di giustizia di Tel Aviv si è svolta la prima udienza di un processo contro undici di loro. Dovevano rispondere di “manifestazione non autorizzata”, “assalto alla polizia” e “danneggiamento della proprietà privata” (ossia aver fatto scritte sui muri).
Tutte le accuse si riferivano ad un singolo episodio dello scorso 25 febbraio: in tutto non più di dieci minuti di azione.
Quel giorno all’Aja la Corte Internazionale dava inizio al procedimento relativo al muro che il governo di Sharon sta costruendo attraverso le città ed i villaggi palestinesi.
Gli anarchici avevano deciso fare una manifestazione congiunta con gli abitanti di un villaggio che aveva perso gran parte della propria terra a causa del muro. Ma la polizia e l’esercito mandarono a monte i piani dei compagni, intercettandoli al confine con la Cisgiordania e obbligandoli a tornare indietro. Il gruppo di diresse subito al Ministero dell’Interno a Tel Aviv, si sedette sulla strada di fronte ai cancelli di ingresso e venne immediatamente attaccato dalla polizia. Un compagno venne picchiato al punto da perdere conoscenza, un altro dovette ricorrere a cure ospedaliere e 13 trascorsero la notte in guardina. La mattina successiva la polizia chiese al giudice incaricato del caso di trattenerli in arresto finché la corte dell’Aja avesse terminato i propri lavori, ma il giudice respinse la richiesta e li mise in libertà. A quel punto la polizia decise di accusarli dei reati per i quali il 18 ottobre ha preso avvio il processo (4). Per sostenere le spese processuali, durante il giro di conferenze italiano della compagna Liad è stata effettuata una sottoscrizione, durante la quale sono state raccolte diverse centinaia di euro.

Note
1. Cfr. “Germinal” n. 94 del gennaio/maggio 2004 Israele/Palestina.Anarchist against the wall. Un’intervista.
2. Cfr. in “Umanità Nova” n. 40 del novembre 2003 A colloquio con due anarchici israeliani. Ramallah: Jonathan e Liad all’ombra del muro.
3. Cfr. “Umanità Nova” n. 33 dell’ottobre 2004 pag. 4 Gay, refusnik, anarchico. A colloquio con Yossi di Anarchici contro il muro.
4. Cfr. “Umanità Nova” n. 33 dell’ottobre 2004 pag. 5 Israele: processo agli anarchici. Ribellarsi è giusto.