Rivista Anarchica Online
Antisemitismo, ancora
di Paolo Finzi
Pestaggi contro chi viene identificato come ebreo, attentati intimidatori contro le abitazioni ed i
negozi di membri della comunità ebraica, ed infine nella serata del 3 ottobre - un venerdì, proprio
quando per l'inizio della festività sabbatica c'erano molti fedeli - la bomba micidiale contro una
sinagoga a Parigi. Bilancio: quattro morti e numerosi feriti. Chi voleva credere che in Europa
l'antisemitismo fosse scomparso, ha avuto di che ricredersi. E se le solite belle dichiarazioni di
circostanza fatte da tutti i partiti testimoniano che ufficialmente l'antisemitismo non trova
paladini (se non nel macabro razzismo dei gruppi neonazisti), noi sappiamo che la realtà è ben
altra. Camuffato, represso, taciuto, l'antisemitismo è ancora ben vivo in ampi strati della
popolazione. All'analisi storica e sociologica delle sue origini, della sua ampia diffusione e soprattutto della
sua terribile vitalità sono stati dedicati moltissimi studi, dai quali è emerso chiarissimo
l'intrinseco legame dell'antisemitismo con altri fenomeni di intolleranza e di demonizzazione del
"diverso". Non a caso una delle principali ricerche socio-psicologiche sull'antisemitismo,
effettuata negli Stati Uniti una trentina di anni fa da un'equipe di ricercatori (tra i quali Theodor
Adorno), si allargò, strada facendo, all'analisi dell'autoritarismo e dell'intolleranza in generale,
tanto da essere pubblicata alla fine con il significativo titolo La personalità autoritaria. I
sentimenti di diffidenza e di odio di cui gli ebrei sono stati in varia misura oggetto, negli ultimi
due millenni, derivano anche dalla loro refrattarietà all'assimilazione, dal loro rifiuto di divenire
"uguali" rinunciando al loro patrimonio culturale e religioso: la forte coesione interna che,
attraverso mille persecuzioni ed esilii, gli ebrei hanno saputo opporre a quei tentativi, ha
permesso la sopravvivenza di un popolo che altrimenti sarebbe scomparso dalla faccia della terra
ben prima dell'era di Auschwitz e Mauthausen. Come tutte le altre minoranze etniche, religiose,
ideologiche, come tutti i "diversi" decisi a restare tali, gli ebrei hanno costituito in tante occasioni
il perfetto capro espiatorio sul quale i potenti del momento hanno fatto ricadere le colpe dei mali
sociali, delle ingiustizie e delle guerre: contro di loro sono stati istigati i sentimenti più bassi e le
azioni più selvagge, al punto che i sei milioni di ebrei eliminati dal nazismo non costituiscono
che l'ultima - la più immane - persecuzione tra le tante di cui è costellata la storia ebraica. Ora
che tutti fanno a gara per sembrare il meno antisemiti possibile, è doveroso ricordare il ruolo
essenziale svolto dalla Chiesa cattolica per quasi due millenni senza interruzione nella
"criminalizzazione" degli ebrei, additati, in quanto popolo deicida, quali strumenti del diavolo e
causa della rovina dell'umanità. Fino a poco tempo fa questa era anche la versione ufficiale
del
Vaticano, rilanciata in tutto il mondo dalla quotidiana predicazione di odio e di menzogna del
clero: sotto questa luce, anche il complice silenzio di Pio XII di fronte all'olocausto perpetrato dal
nazismo appare in tutta la sua logica.
Ma non è solo nell'armamentario propagandistico clerico-nazista che l'antisemitismo affonda le
sue origini: componenti antisemite sono ripetutamente affiorate anche a sinistra, tra persone e
movimenti che si richiamano al socialismo. Non si tratta, naturalmente, di teorizzazioni dello
sterminio e della soluzione finale alla Hitler, ma non per questo siamo in presenza di un
fenomeno meno allarmante, anzi: tantopiù che anche in alcuni "classici" del socialismo (Bakunin
compreso, per limitarci al filone anarchico) fanno capolino pregiudizi antisemiti che lasciano
allibiti. Negli ultimi decenni, poi, questo particolare tipo di antisemitismo ha tratto alimento a
volte dalla controversa questione medio-orientale, caratterizzata - per la prima volta dopo
millenni - dall'esistenza di uno Stato ebraico. Tale infatti è, per sua stessa definizione, lo Stato
d'Israele, stato confessionale a tutti gli effetti, basato sui testi sacri e caratterizzato ufficialmente
dalla simbologia religiosa (sulla sua bandiera come sulle ali dei suoi bombardieri campeggia la
stella di Davide). Com'è noto, le vicende che hanno portato alla costituzione di questo Stato - e
prima ancora all'insediamento di nuclei di ebrei in Palestina - sono tra le più complesse e
drammatiche. Non è possibile ripercorrerle in questa sede, nemmeno nei loro momenti salienti. Ma va
sottolineato che tra i pionieri degli insediamenti ebraici in Palestina, tra i promotori dei
primi kibbutz vi sono stati numerosi esponenti dell'opposizione rivoluzionaria in Russia e in altri
paesi dell'Europa orientale - perseguitati perché ebrei e perché rivoluzionari. Anche grazie alla
loro presenza, si sviluppò qui dalle origini del movimento dei kibbutz una tendenza laica,
umanitaria e profondamente libertaria, desiderosa di convivere in pace con gli arabi palestinesi e
di sviluppare la pratica autogestionaria propria del kibbutz. Significativo è il richiamo a
Proudhon, a Kropotkin, a Landauer da parte di Martin Buber, la più conosciuta personalità di
questa tendenza libertaria: non ci possiamo certo riconoscere tout court in quella tendenza - con
il tempo peraltro sopraffatta dalle altre, stataliste, accentratrici e confessionali - ma nemmeno si
può ignorarla, com'è sempre stato fatto "a sinistra". L'esperienza del kibbutz è certo molto
più
interessante e ricca di insegnamenti di quanto siano abituati a credere tanti "compagni". Altrettanto sconosciuta
è la presenza di forti correnti di sinistra libertaria tra le popolazioni
ebraiche ed yddish dell'Europa centrale ed orientale - in parte poi costrette a trapiantarsi altrove,
soprattutto negli Stati Uniti. Contrariamente a certa stupida oleografia che vorrebbe gli ebrei
sempre ricchi e ben pasciuti (e in fondo quanti sotto sotto non la pensano così un po' anche
oggi?), quei movimenti nati all'interno dei ghetti hanno avuto una matrice di miseria, di povertà,
di fame e di emarginazione, che li ha orientati verso il socialismo, a volte verso il socialismo
anarchico. Che lo Stato d'Israele faccia una politica di potenza, dichiaratamente aggressiva e terribilmente
militarista, è indiscutibile; che i palestinesi siano oggi le vittime principali della sua politica, al
punto che si può parlare di un nuovo genocidio, è altrettanto vero. E tanti altri sono gli aspetti
negativi della politica israeliana, che motivano la nostra opposizione irriducibile ai suoi vari
governi e alla sua struttura socio-politica. Ma altro è combattere uno Stato, un governo, una
politica, altro è volerne sterminare la popolazione, anche se questa si mostra in gran parte
solidale con i suoi governanti: sarebbe come se, per sconfiggere il nazismo, ci si fosse proposti di
eliminare dalla faccia della terra i tedeschi. O per sconfiggere lo stalinismo, i russi. Scontato? Non me la sentirei
proprio di affermarlo, guardando all'atteggiamento di acritica
simpatia con il quale tanta parte della sinistra europea - riformista e "rivoluzionaria" (dal P.C.I.
alle Brigate Rosse, tanto per intenderci) - ha appoggiato nell'ultimo decennio le varie
organizzazioni "per la liberazione della Palestina", cioè i vari governi-ombra palestinesi alla
ricerca di un territorio sul quale poter esercitare il proprio dominio. Ancora qualche settimana fa
il leader dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina, Yassir Arafat, ha confermato a
Damasco che il suo obiettivo è la cacciata degli ebrei dalla Palestina e la distruzione dello Stato
d'Israele. Dello stesso avviso si sono ripetutamente detti quei regimi arabi che amano proclamarsi
ispirati dal "socialismo islamico" (già la formula è tutta un programma!) e che dalla sinistra
europea sono in genere ritenuti "compagni". Non a caso tutta la campagna anti-israeliana alla fine
degli anni '60 (ed anche dopo), fu incentrata in Egitto ed in altri paesi arabi sulla figura del grasso
ebreo, ricco ed avaro, brutto e strozzino: la presenza ancora oggi in quei paesi di numerosi
gerarchi nazisti in posti di responsabilità dovrebbe attenuare certi facili entusiasmi e spingere alla
riflessione. Ma tant'è: nella frenesia anti-israeliana Arafat diventava un libertador e gli sceicchi
che lo foraggiano dei quasi-compagni. È inutile farla lunga: si vadano a rileggere L'Unità,
Lotta
Continua ed altre pubblicazioni di sinistra all'indomani della guerra dei sei giorni (1967), sarà
più
che sufficiente. Siamo stati al fianco degli ebrei quando, per il solo fatto di essere tali, sono stati vittime delle
persecuzioni del potere e dell'ignoranza della gente. Lo siamo ancora oggi quando, in varie parti
del mondo, ancora pagano per stupidi pregiudizi e bisogni di vendetta: è il caso della comunità
ebraica dell'Unione Sovietica, vittima di odiose discriminazioni nelle quali riemerge anche certo
atavico antisemitismo presente in quella tradizione. Per questo popolo da sempre vittima di
calunnie, pregiudizi e persecuzioni sentiamo un'istintiva simpatia, che deriva anche dal comune
destino di emarginati / capri espiatori / criminalizzati: ma è una simpatia che deriva appunto dalla
loro tragica storia e non da altro. Non deriva certo dalla loro religione, che noi avversiamo come tutte le
religioni, convinti come
siamo che con il suo fardello di menzogne, illusioni e pregiudizi non possa che giocare un ruolo
negativo, allontanando tra l'altro le prospettive di soluzione della questione mediorientale. Né abbiamo
alcuna simpatia particolare per lo Stato di Israele, anche se possiamo comprendere
che un territorio nel quale raggrupparsi rappresenti per un popolo disperso per millenni in terre
per lo più "nemiche", un punto di sicurezza, d'approdo, la testimonianza di un'identità. Possiamo
comprendere tutto ciò, ma non per questo rinunciamo a combatterlo con tutte le nostre forze:
come ogni Stato, anche quello di Israele non fa che legittimare le diseguaglianze, difendere il
privilegio, preparare le guerre. Solo slogan? Andatelo a chiedere ai giovani israeliani obiettori di
coscienza detenuti nelle supercarceri israeliane, o ai palestinesi che hanno avuto la famiglia
sterminata dalle bombe micidiali dell'esercito di Gerusalemme. Il fatto che gli ebrei siano stati
perseguitati fino a ieri, e in varie parti ancora oggi, non potrà mai giustificare ai nostri occhi le
persecuzioni che il governo israeliano attua contro i suoi oppositori, contro i "diversi" del
momento: così facendo, anzi, le stelle di Davide marchiate sui bombardieri israeliani non
possono che alimentare l'antisemitismo, anche "di sinistra". Solo un impegno costante, universale, al fianco di
tutti i perseguitati, contro il pregiudizio e
l'intolleranza comunque si manifestino, può dare credibilità ed efficacia alla lotta contro
l'antisemitismo. E se, a mio avviso, bene agiscono quegli ebrei che oggi rifiutano la "protezione"
della polizia e si auto-organizzano per difendersi in prima persona, rispondendo con la violenza
alla violenza degli antisemiti, non si vede perché lo stesso diritto non vada riconosciuto, per
esempio, ai palestinesi quando si trovano oppressi e martoriati dalle truppe dello Stato di Israele.
Quei settori ebraici che in queste settimane si sono mobilitati tempestivamente contro il
rinascente razzismo dovrebbero tenerne conto, se non vogliono che la loro mobilitazione non
appaia che la solita miope difesa dei propri "interessi" e basta. Perché i razzismi e le intolleranze
- compreso l'antisemitismo - si generano a vicenda e affondano le loro radici nei terreni più
diversi. Estirparle da ogni terreno, comunque si presentino, è l'unica via per farla finita con le
persecuzioni ed i progrom.
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