Rivista Anarchica Online
C'era una volta l'U.S.I.
di A. M.
Anarco-sindacalismo sì o no? E se sì, come? Il dibattito interno al movimento anarchico sulle modalità
più efficaci di intervento nelle lotte sociali si è intensificato negli ultimi mesi, anche in seguito alla
proposta avanzata da alcuni gruppi tendente alla ricostituzione dell'Unione Sindacale Italiana.
Sull'argomento abbiamo organizzato una tavola-rotonda alla quale abbiamo invitato sei compagni
residenti in diverse località (Bardonecchia, Torino, Milano, Forlì, Firenze e Napoli): il testo della
discussione sarà pubblicato sul prossimo numero di "A". In queste pagine pubblichiamo intanto una breve storia dell'USI, certi - data la quasi totale carenza
di materiale in proposito - di fare cosa non inutile per i nostri lettori.
La costituzione dell'USI, nel novembre del 1912 (Modena), aveva scarse ripercussioni sul piano
internazionale, se si esclude una certa risonanza nei fogli wobblies italo-americani. La linea vincente, in
quel momento, negli ambienti sindacalisti che "contavano" - in Francia e in Gran Bretagna - era quella
dell'unità. I sindacalisti francesi, pur da tempo minoranza effettiva, egemonizzavano di fatto, malgrado
le crescenti difficoltà, la CGT. Gli "industriali" inglesi, guidati da un leader di prestigio come Tom Mann,
praticavano un entrismo efficace (e lo dimostravano i grandi scioperi della fine del 1911) nelle Trades
Unions. Le organizzazioni scissioniste - a parte il caso tutto particolare degli IWW - vivevano vita
stentata. Così il NAS olandese, la SAC (svedese), la FVDG (Germania) e la CNT (tra volta dalla
repressione), anche se i loro effettivi aumentavano sensibilmente dal 1910 al 1914 (ma si trattava sempre
di poche migliaia).
Si può quasi dire che l'Unione Sindacale Italiana fosse una scommessa arrischiata. Fino ad allora, infatti,
anche in Italia la tradizione unitaria aveva prevalso. Il tentativo, nel novembre del 1907, di dar vita ad
un'"Comitato Nazionale della Resistenza", autonoma dalla Confederazione Generale del Lavoro, aveva
incontrato una notevole resistenza tra le stesse file sindacaliste ed era naufragato sia per mancanza di
adesioni sia per l'emigrazione forzata (in seguito agli scioperi del 1908) dei suoi più tenaci sostenitori.
Quando, nel dicembre del 1910, il congresso bolognese dell'azione diretta dava vita al "Comitato
Nazionale dell'Azione Diretta", sceglieva la via della minoranza organizzata all'interno della CGdL,
respingendo le tentazioni alla rottura.
Alla fine del 1912, tuttavia, la situazione era profondamente mutata, tanto da permettere alle
organizzazioni ad orientamento sindacalista di costituirsi in organismo a sé, l'Unione Sindacale Italiana
appunto, con una consistenza effettiva di circa 60.000 iscritti (il Sindacato Ferrovieri milanese, 25.000
unità, aveva ben presto defezionato). Che cosa era cambiato nel frattempo? In termini generali, le
condizioni politiche ed economiche: la crisi della mediazione giolittiana, evidenziata dal piccolo
cabotaggio imperialista dell'"impresa tripolina", e quindi la crisi del riformismo da un lato; la recessione
economica, conseguenza del breve, ma grave collasso del 1907-1908, dall'altro. La pressione di larghe
masse di disoccupati e di sottoccupati, che neppure la massiccia emigrazione riusciva a diluire,
l'aggressività del grande capitale in fase di ristrutturazione, il rilancio dell'antimilitarismo di fronte al
deteriorarsi (definitivo) dell'equilibrio internazionale, la radicalizzazione della stessa sinistra socialista
erano tutti elementi del nuovo quadro. La contrapposizione tra sindacalisti e riformisti si era accentuata
dopo la grande lotta di Piombino-Elba (1911), dove la Camera del Lavoro di Piombino, autonoma, si
era trovata a dover fronteggiare il trust siderurgico con scarsissima solidarietà da parte della FIOM, e
dopo gli scioperi degli automobilisti torinesi del 1912, dove la FIOM e il recentissimo Sindacato
autonomo sindacalista si erano affrontati senza mezzi termini. Il passaggio, poi, al congresso di Reggio
Emilia del 1912, della direzione del PSI nelle mani dei rivoluzionari e la contemporanea espulsione di
alcuni "destri", con solidi agganci nella CGdL, era parsa legittimare le speranze in un "nuovo corso".
Nel corso del 1913, la "scommessa" risultava vincente. La tensione di classe cresceva progressivamente
e sfociava in una serie quasi ininterrotta di scioperi di categoria fino allo sciopero generale dell'agosto.
Alla testa delle agitazioni sempre e dovunque gli organismi locali o di categoria aderenti all'USI.
Sull'onda del momento di alta conflittualità l'Unione Sindacale aumentava le proprie forze. In numerose
città le Camere del Lavoro si spaccavano e si creavano organizzazioni antagoniste, riformiste e
rivoluzionarie. Si avviava il processo di concentrazione delle leghe di uno stesso settore in Sindacati
Nazionali d'industria (lavoratori della terra, delle costruzioni e della metallurgia). Sindacalisti, anarchici
e perfino frazioni non trascurabili di repubblicani e di socialisti guardavano all'USI come lo strumento
per spezzare l'egemonia riformista e convogliare le spinte rivoluzionarie verso obiettivi precisi. Alla fine
del 1913, l'USI contava 100.000 iscritti (localizzati soprattutto in Emilia, Lombardia, Toscana, Liguria)
e poteva far leva sulla simpatia della maggioranza dei ferrovieri e dei lavoratori del mare. Si trattava della
più forte organizzazione sindacalista del mondo e superava, come area di influenza, perfino quella della
corrente sindacalista della CGT. Soprattutto, fatto impensabile in quasi tutta l'Europa, era in grado di
tenere testa alla centrale riformista (la CGdL con la Federterra toccava i 300.000 iscritti) data la non
eccessiva sproporzione di forza.
Indubbiamente, la fase di crescita era stata anche una fase in cui le sconfitte avevano superato le vittorie
e lo stesso sciopero generale dell'agosto ne aveva dimostrato sia le carenze strutturali (mancanza di
coordinamento centrale e spesso di quadri intermedi) sia la debolezza di una strategia di continuo
conflittualismo. Il livello di scontro sul piano economico poteva rimanere elevato solo a condizione di
offrire anche risultati positivi sul terreno pratico. Di qui un leggero mutamento di rotta, agli inizi del
1914, e un tentativo, da parte della leadership sindacalista, di "costruire" più accuratamente le forme
organizzative dell'USI e di "programmare" le stesse scadenze di lotta. Il trasferimento a Milano della
sede dell'Unione (deciso nel dicembre del 1913 durante il II congresso), l'attenzione sempre maggiore
verso il proletariato industriale, il superamento del localismo tipico delle organizzazioni agricole ne erano
un segno evidente.
In realtà questo processo, che avrebbe dovuto rendere l'USI più funzionale al suo ruolo, rivoluzionario
sì, ma pur sempre tipicamente sindacale non riusciva a maturare. La "settimana rossa" prima (giugno
1914) e la guerra mondiale poi impedivano all'USI di consolidare il proprio assetto e di radicarsi in
profondità. La "settimana rossa", sussulto insurrezionale improvviso, anche se non del tutto
imprevedibile, obbligava l'USI a lanciare lo sciopero generale, in circostanze tutto sommato perdenti e
soprattutto su di un terreno, quello della rivolta popolare, che non le era congeniale. Il meccanismo della
"lotta economica" era saltato. Tutto si riduceva ad una protesta, più o meno efficace, più o meno
radicale, ma sempre destinata a rimanere simbolica. Lo sciopero, infatti, (grazie anche al ritiro della
CGdL) si esauriva e l'USI si ritrovava a dover ricomporre con difficoltà le proprie file. La guerra, poi,
sviluppava all'interno dell'Unione, dei suoi stessi quadri dirigenti, una tendenza apertamente interventista,
causa di lacerazioni e contrasti che portavano nel settembre 1914 (Consiglio Generale di Parma) ad una
scissione. E se è vero che l'ala interventista era decisamente minoritaria, era però vero che trascinava con
sé le due organizzazioni più importanti dell'USI, Milano e Parma, modificandone la geografia interna e
privava l'Unione del suo organo ufficiale "L'Internazionale" (sostituito alcuni mesi dopo dal bolognese
"Guerra di classe").
In ogni modo, era la decisa opposizione alla guerra, in seguito all'intervento italiano del 1915, a mettere
in crisi la tenuta dell'organizzazione. La chiamata alle armi e, per i più coriacei, l'internamento (come nel
caso del segretario Borghi) ne bloccavano la crescita. Nel 1917 gli iscritti erano scesi a 50.000. Ma non
era solo questo a determinare il tracollo. Mentre la CGdL (in particolar modo la FIOM) aveva accettato
di entrare nel Comitato Centrale della Mobilitazione Industriale, organismo paritetico (rappresentanti
degli imprenditori, degli operai e del comando militare) con il compito di dirigere l'economia bellica,
l'USI si era, coerentemente rifiutata. Con la conseguenza di isolarsi e di lasciare mano libera alle
organizzazioni confederali. In effetti, al termine della guerra, nel momento più alto (1920), la CGdL
superava i due milioni di iscritti, mentre è ragionevole pensare che l'USI non oltrepassasse di molto i
300.000 (e non 500.000 come sosteneva Borghi). Un divario eccessivo perché potesse essere colmato
da una maggiore combattività.
Del resto, nel cosiddetto "biennio rosso" (1919-1920), erano gli avvenimenti, spesso se non sempre, a
precedere le organizzazioni. Così la nascita dei Consigli di fabbrica, che l'USI, nel suo congresso
parmense nel dicembre 1919, salutava entusiasticamente; così le agitazioni operaie e i moti del caro
viveri del '19, che vedevano l'USI presente, ma non promotrice. Anche l'occupazione delle fabbriche del
settembre del 1920, nata dall'ostruzionismo dei metallurgici (in cui FIOM e Sindacato Nazionale
Metallurgico dell'USI si erano associati) aveva avuto più i caratteri della spontaneità che della mossa
predeterminata. Certo, l'USI, sul terreno della volontà di lotta, non aveva esitazioni, ma quello che le
sfuggiva, tranne forse in alcune zone e in particolari settori e comunque non in centri chiave, era la
capacità di tirare le fila della difesa potenzialità rivoluzionaria, come invece aveva fatto nell'anteguerra.
Non si può dire con questo che la rivoluzione fosse possibile. Ma non era questo a contare. Era l'USI
a non costituire più il punto di riferimento delle tensioni rivoluzionarie. La rivoluzione russa aveva
cambiato le cose.
In un primo momento, nel 1919, l'USI non solo aveva aderito alla III Internazionale, ma aveva visto la
"concezione sovietistica della ricostruzione sociale come antitetica dello Stato". Ben presto, però, una
più profonda conoscenza ed analisi degli avvenimenti russi aveva portato alla critica e al distacco. Tanto
che nel 1921/22 l'USI aderiva alla nuova Associazione Internazionale dei Lavoratori berlinese
(sindacalista rivoluzionaria), dando luogo al suo interno a vivaci polemiche tra la maggioranza anarchica
e sindacalista e la minoranza filocomunista. L'USI, come anche la CGdL, veniva attraversata da fratture
verticali, il cui motivo originario erano i rapporti con le forze politiche del momento. E questo metteva
in forse la sua unità. Si faceva strada anche, soprattutto tra i sostenitori del legame con Mosca, l'idea di
una fusione con la CGdL, in linea con la tesi leninista dell'unità sindacale. Il problema emergeva con
chiarezza al IV Congresso nazionale (Roma, marzo 1922), che si trovava anche a doversi pronunciare
sulle candidature politiche di esponenti come Faggi e Di Vittorio. L'ipotesi dell'unificazione veniva
respinta, ma non eliminata. Nel 1925 sarebbero stati alcuni anarchici, come Malatesta, Fabbri, Molastchi,
ad invitare, senza successo, i resti dell'USI ad unirsi alla CGdL per meglio fronteggiare il fascismo.
Queste proposte, in realtà, già fin dal 1922 avevano un senso. Dopo l'occupazione delle fabbriche il
movimento operaio era stato costretto sulla difensiva dalla massiccia avanzata fascista. Nel 1921/22 e
più ancora nel 1924/25 l'obiettivo principale era la resistenza al fascismo dilagante che andava
distruggendo letteralmente le organizzazioni di classe. La divisione significava maggiore debolezza.
Tanto più che USI e CGdL non si differenziavano molto, sul piano della pratica sindacale, in quella fase
di riflusso. Ma le speranze unitarie finivano con il cozzare contro forti resistenze sia nell'USI che nella
Confederazione. Le lacerazioni erano troppo profonde per pensare di ricucirle con una decisione, tutto
sommato, di vertice.
L'avvento del fascismo significava in pratica la distruzione dell'Unione Sindacale. Attaccata ben più
duramente dalla CGdL, l'USI già nel 1923 era costretta a chiudere il proprio organo "Guerra di classe"
e a sostituirlo, l'anno successivo, con un mensile "di studi" dal titolo "tranquillo" ("Rassegna sindacale")
e a vivere una vita semiclandestina. Le sue fila venivano decimate da arresti in massa e da processi per
"sindacalismo criminale". Malgrado una resistenza tenace e tentativi di riorganizzazione in alcune zone
(Puglia, Liguria, Toscana) l'USI non aveva ormai più nessuna possibilità di movimento. La vita sindacale
era semplicemente una formalità e solo qualche sporadico sussulto (gli scioperi dei metallurgici nel 1925,
ad esempio) sembrava mettere alla corda l'egemonia fascista. Agli inizi del 1925, del resto, prima ancora
del Patto di Palazzo Vidoni (con cui la Confindustria stabiliva relazioni uniche con i sindacati fascisti)
e delle leggi eccezionali che mettevano fuori gioco partiti e sindacati "liberi", l'USI veniva dichiarata
illegale. Un ultimo tentativo (un congresso clandestino, tenuto a Genova nel giugno 1925), pur in un
coro di speranze, era la dimostrazione definitiva del crollo. L'Unione Sindacale non esisteva più né i
comitati fondati nell'emigrazione (quello parigino in particolare) riuscivano ad assicurarle la continuità.
A quel punto l'Unione Sindacale Italiana era semplicemente una sigla e tale sarebbe rimasta anche dopo
la caduta del fascismo.
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