Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 7 nr. 56
aprile 1977


Rivista Anarchica Online

Una piovra che si chiama Stato
a cura della Redazione

La primavera non è solo la stagione piacevole che amano cantare i poeti; anche altri autori hanno scelto questo periodo per declamare le loro composizioni, molto meno piacevoli, decisamente burocratiche, ma purtroppo utili per comprendere la realtà nella quale viviamo: relazioni dei consigli di amministrazione, bilanci, consuntivi.

Tra questi esempi della letteratura burocratica merita particolare attenzione la "relazione generale sulla situazione economica del paese nell'anno 1976", presentata al parlamento il 31 marzo. La relazione è molto complessa, si articola in sei grandi settori (formazione del prodotto lordo, occupazione e distribuzione del reddito, amministrazione pubblica nel campo economico, risorse nazionali, bilancio nazionale, evoluzione della congiuntura) e offre in cifre un interessante, anche se di parte, spaccato della realtà italiana.

Uno dei dati che colpisce maggiormente è l'estendersi dell'area statale in campo economico. Il costo delle amministrazioni pubbliche nel 1976 è ammontato a 65.712 miliardi, suddivisi in 57.742 miliardi per le spese correnti (cioè di funzionamento) e solo in 7.970 miliardi per gli investimenti in conto capitale. Si tratta di una cifra veramente enorme soprattutto se vista nella sua espansione dinamica: infatti per il 1977 la spesa prevista è di 76.000 miliardi che rappresentano il 46% del reddito nazionale, mentre nel 1971 costituiva solo (?) il 30%.

Questo significa che oggi quasi la metà del reddito nazionale viene assorbito dallo stato per il suo funzionamento. Rilevante è pure la quota degli interessi passivi, preventivati per l'anno in corso in 9.300 miliardi e che dimostrano il crescente e inarrestabile disavanzo della bilancia pubblica.

Elemento oltremodo significativo è l'entità degli investimenti dell'intero settore pubblico (imprese pubbliche, a partecipazione statale, aziende municipalizzate, ENEL e Cassa del Mezzogiorno) che raggiungono la rispettabilissima cifra (ancora stimata per difetto) di 11.166 miliardi, oltre un terzo degli investimenti lordi nazionali, pari a 33.217 miliardi.

L'enumerazione di cifre e di percentuali potrebbe proseguire ancora per molte pagine, ma preferiamo fermarci qui per non annoiare eccessivamente il lettore. Crediamo infatti che quanto sopra riportato sia già sufficiente per delineare il nuovo assetto dell'economia italiana che a buona ragione non può più dirsi a capitalismo privato. Tanto più se aggiungiamo al costo dell'amministrazione pubblica l'incidenza dell'economia delle imprese e delle banche a partecipazione statale. Abbiamo in programma uno studio in tale senso e crediamo che i risultati a cui perverremo saranno quantomeno sbalorditivi. Per ora non è azzardato prevedere che almeno i tre quarti dell'economia italiana sono controllati dallo stato. Questo significa che lo stato è in pratica il più grosso e potente datore di lavoro e che riesce a condizionare quasi tutti gli aspetti della nostra vita sociale: lavoro, consumi, tempo libero.

Stranamente, a lanciare il grido d'allarme sono stati gli economisti del PCI; non che essi non vogliano tutta l'economia nello stato, ma perché hanno compreso che lo sviluppo disorganico ed elefantiaco assunto dall'area pubblica sta portando all'ingovernabilità il sistema, mentre in questo momento si rende necessaria una riorganizzazione e razionalizzazione delle imprese statali per portarle a livelli di efficienza. In questa sua critica il PCI ha trovato un valido aiuto nel Fondo Monetario Internazionale che per concedere il famoso prestito ha preteso un contenimento della spesa pubblica. Obiettivo, questo, che il buon Andreotti sta già perseguendo con il blocco dei salari e delle assunzioni dei dipendenti pubblici, come se questo blocco potesse riequilibrare una situazione che nasce da cause molto più complesse, e senza tener conto degli stessi risultati della relazione generale che ammettono un aumento dei prezzi in termini reali (cioè non in termini monetari) del 17,8% contro un aumento dei redditi di lavoro dipendente del 4,4%.