Rivista Anarchica Online
Disinnescare le mine?
di Paolo Finzi
Se fosse solo per i loro otto referendum, forse non ce ne occuperemmo nemmeno più. Sui radicali, sulla
loro strategia riformista e sul loro presunto eclettismo ideologico abbiamo già scritto la nostra opinione
su queste colonne. In particolare sia all'epoca della bagarre del referendum per il divorzio sia in
occasione del primo lancio della campagna per gli otto referendum abbiamo avuto modo di chiarire le
ragioni del nostro astensionismo rivoluzionario. Dovendo sintetizzarle, possiamo riaffermare che tramite
i referendum, indipendentemente dai loro risultati specifici, si rafforza il regime, che vede così aumentata
la partecipazione delle masse alla logica delle istituzioni. Siamo perciò convinti che la partecipazione ai
referendum non possa comunque essere vista come un momento "tattico" nella lotta contro lo Stato: chi,
se non lo Stato, potrà trarre giovamento da un eventuale impegno di larghe masse nelle battaglie
referendumiste? Non vogliamo certo negare che anche tramite i referendum si possa andare "un po'
avanti", si possano cioè ottenere dei miglioramenti: diciamo solo che ciò non ci interessa, per il semplice
fatto che siamo rivoluzionari. Le riforme ci interessano solo quando sono il risultato di una lotta diretta
condotta in prima persona dagli sfruttati e quando, comunque, non servano - per il mezzo utilizzato -
a rafforzare la credibilità di quel regime che resta sempre il nostro principale avversario, il vero nemico
dell'emancipazione sociale.
I radicali, da bravi riformisti quali sono, si stupiscono sempre di questa nostra coerenza e spesso la
irridono. Il fatto non ci meraviglia: il solco che ci separa è esattamente quello che separa qualsiasi forza
rivoluzionaria dalle multiformi facce del riformismo. Il partito radicale - lo abbiamo già affermato con
chiarezza, è un partito riformista, anche se tale non ama sempre esser definito, preferendo
sistematicamente ammantarsi di una veste e di una terminologia rivoluzionaria. Di questi equivoci
lessicali e radicali sono indubbiamente maestri, non a caso: il confonder le carte in tavola per cercare
consensi a destra e a manca è una loro caratteristica strutturale, si può anche dire che fa parte della loro
strategia. Definirsi nel contempo liberali, libertari, rivoluzionari, democratici, socialisti, ecc., è
direttamente funzionale al loro progetto riformista; così come il dirsi eclettici, e senza "ideologia",
"aperti", non serve altro che a mascherare un progetto politico ben definito, con una sua base ideologica
certo originale rispetto a quelle degli altri partiti riformisti, ma non per questo "inesistente" come
vorrebbero far credere i leaders radicali.
Per questa loro indeterminatezza ideologica, per certi mezzi adottati a volte nelle loro lotte (seppure
sempre per fini riformisti), per alcune battaglie comunemente condotte in passato (marce antimilitariste,
iniziative anticlericali, ecc.), i radicali sono sempre stati guardati con particolare simpatia dagli anarchici.
Anche noi, che pure abbiamo sempre denunciato l'equivoco riformista ed altre nette discriminanti tra noi
e loro, non abbiamo mai voluto forzare i tempi di quella divaricazione di posizioni che negli ultimi anni
ha sempre maggiormente separato noi da loro.
Con la loro entrata in Parlamento (che sancisce il ruolo radicale di critica all'interno delle istituzioni) e
con alcune delle loro recenti prese di posizione il solco che ci separa si è fatto ancora più profondo.
Certe loro battaglie non ci trovano più solo scettici o estranei: a volte, ormai, siamo su posizioni
diametralmente opposte.
È questo il caso dell'agitazione che i radicali hanno cercato di promuovere negli scorsi mesi (fino alla
vigilia del loro rinnovato impegno referendumista) per "costringere" il governo ad attuare appieno la
riforma carceraria e soprattutto per ottenere miglioramenti salariali e normativi per gli agenti di custodia.
Per quanto riguarda questi ultimi, tanto vale sgombrare subito il campo. Delle condizioni dei secondini
non vediamo cosa ci possa interessare: pensiamo che sia inconcepibile - se non in un'ottica riformista
(come appunto quella radicale) - che se ne occupi chi dovrebbe invece lottare per la loro scomparsa. Chi
lotta perché ci siano più secondini, perché i secondini non siano oberati da troppo "lavoro", perché così
non rischino poveretti di farsi sopraffare dai detenuti in rivolta, ecc. non può essere considerato "un
compagno".
Per comprendere appieno le ragioni di questa battaglia radicale in difesa degli agenti di custodia è
necessario risalire alla più generale lotta per la riforma carceraria: sono stati i radicali stessi a spiegare
che, le carceri essendo sovraffollate e i secondini insufficienti, la situazione stava diventando di giorno
in giorno più esplosiva. "La situazione carceraria è ormai una mina: il governo deve disinnescarla. Se
non lo farà, si sarà assunto una grave responsabilità bla bla bla...": questa in sintesi l'opinione radicale.
Noi la pensiamo in modo diametralmente opposto, non a caso.
Il compito dei riformisti, da sempre, è quello di "disinnescare le mine" presenti nel conflitto sociale, nel
tentativo di migliorare il sistema vigente. È giusto e logico che i radicali, in questa prospettiva, si
occupino dei secondini e si preoccupino che non abbiano a verificarsi "episodi incresciosi come le
evasioni e le rivolte carcerarie". Il compito dei rivoluzionari, invece, è quello di "innescare" quante più
mine possibili nel conflitto sociale, facendo in modo che questo non tenda mai a spegnersi ma si
riaccenda continuamente più forte e più vasto di prima.
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