Rivista Anarchica Online
Sulle orme di Stirner
di Mirko Roberti
Le tre correnti dell'individualismo anarchico: teorico, antiorganizzatore, d'azione - L'illusione
ottocentesca della
rivoluzione imminente alla base della teorizzazione della "propaganda del fatto" - La sintesi fra
individualismo
e comunismo nella concezione anti-organizzatrice di Galleani - Le irriducibili contraddizioni
dell'individualismo
teorico.
Un discorso sull'individualismo anarchico si presenta, oggi come ieri,
complesso e controverso. Complesso per
l'oggetto stesso della materia la quale non presenta aspetti univoci di interpretazione teorica, controverso
per i
giudizi di valore impliciti in tali interpretazioni non sempre dettati da uno sforzo di comprensione storica.
Proprio
partendo da quest'ultimo punto di vista cercheremo, per quanto possibile, di condurre un discorso allo
stesso
tempo analitico e valutativo. La difficoltà di un tale discorso, lo ripetiamo, è dovuta alle
plurime sfumature
coesistenti nella dottrina individualista, alla ambivalenza costante del suo campo d'azione, alla sua stessa
parabola
storica (unico campo sicuro di valutazione) ma, a nostro avviso, anch'essa capace di presentare visioni
controverse
dopo alcune schematizzazioni storiografiche troppo rigide e semplicistiche. Per tutto questo si
impone una prima disamina che faccia chiarezza preliminare e distingua sia i molteplici aspetti
all'interno dell'individualismo, sia i confini di quest'ultimo rispetto alle altre correnti dell'anarchismo. A
questo
proposito pensiamo che ci possa essere d'aiuto la triplice distinzione operata dal Masini, distinzione che
a nostra
volta tenderemo a suddividere in ulteriori distinzioni. Scrive dunque il Masini: "Nella storia del
movimento
anarchico esistono almeno tre specie di individualismo, affini fra loro ma non necessariamente
interdipendenti:
un individualismo teorico, un individualismo cosiddetto antiorganizzatore,
un individualismo d'azione" (1). Vediamo ora di qualificare e di quantificare questa
schematizzazione, perché, presentata così, può sembrare un
può scolastica (teniamo presente, però, che inizialmente alcune schematizzazioni si
rendono necessarie se
vogliamo procedere in questo discorso). Cominciamo dunque dal primo "filone", quello
dell'individualismo
teorico che, a nostro avviso, è forse l'espressione più autentica e completa
dell'individualismo anarchico. In esso
si possono, grosso modo, inserire Stirner, Tucker, Mackav, Armand, per citare i
più noti, individualisti cioè sia
rispetto ai mezzi (azione individuale come veicolo rivoluzionario), sia rispetto ai fini (concezione
atomizzata della
società e funzionante secondo rapporti interindividuali di affinità e di pura elezione)
(2). Nel secondo filone, quello cosiddetto antiorganizzatore, (e qui il discorso comincia
a diventare un po'
complicato) possono essere inseriti come esempi, sempre grosso modo, anarchici come
Ciancabilla e Galleani
che furono individualisti rispetto all'azione (da qui la loro tendenza antiorganizzatrice) ma societari e
comunisti
rispetto ai fini (3). Essi, e quelli che si richiamarono a loro, concepivano la prassi rivoluzionaria come
azione
individuale e interindividuale scaturita dalla spontaneità, dai bisogni e dalle circostanze del
processo
rivoluzionario stesso, pertanto non programmabile anteriormente, non inquadrabile entro strutture
organizzative. Infine nel terzo e ultimo filone le cose tendono a complicarsi maggiormente,
perché l'individualismo cosiddetto
d'azione comprende una gamma svariatissima di concezioni e di tendenze. Esse vanno dalla "propaganda
del fatto"
all'"illegalismo" (e anche qui si dovrebbero fare ulteriori distinzioni) (4), dagli attentati alla Bresci a quelli
alla
Ravachol e all'Henry (5). Questa schematizzazione che si presenta un po' forzata va adesso
inquadrata alla luce della prospettiva storica,
la sola, come dicevamo, capace di cogliere le ragioni e gli aspetti autentici dell'individualismo.
L'individualismo d'"azione"
Senza risalire troppo indietro (anche perché la prospettiva tenderebbe troppo a dilatarsi e a
generalizzarsi) si può
dire che una prima affermazione ed un primo avallo autorevole all'individualismo cosiddetto d'azione,
avviene
al Congresso internazionale anarchico di Londra nel 1881, presenti fra gli altri Kropotkin e Malatesta.
Esso
approva una risoluzione che teorizza non solo "la propaganda del fatto" sia individuale sia di gruppo, ma
anche
i mezzi di questa propaganda ("le scienze tecniche e chimiche hanno già reso dei servizi alla
causa rivoluzionaria")
(6), proponendo quindi il passaggio alla lotta armata, violenta ed espropriatrice. Ciò
è comprensibile oggi tenendo ben presente che il movimento anarchico di allora era pervaso dalla
convinzione
profonda che la rivoluzione fosse alle porte. Pertanto nel corso degli anni Ottanta esso fini per trascurare
il lavoro
organizzativo e implicitamente si trovò a perdere contatto direttamente con le masse popolari e
specialmente con
la classe operaia, che veniva contemporaneamente sempre di più guadagnata alla
socialdemocrazia. È in questo quadro che va spiegata l'azione individualista degli attentati
in Francia la prima metà degli anni
Novanta, azione il più delle volte sviluppata come risposta estrema e disperata di alcuni individui
alla repressione
feroce del governo della borghesia. Prodotto diretto delle convinzioni storiche del tempo, l'individualismo
d'azione non esprime pertanto una consapevolezza teorica precisa. L'ideologia di questi attentatori non
si riferisce
quindi all'individualismo cosiddetto teorico; di fatto essi erano ben lontani dall'esigenza ideologica di
distinguersi
anche nei fini, come individualisti. Essi erano e rimanevano anarchici "generici" (se così si
può dire) preoccupati
più che altro di rispondere con la violenza, considerata giustiziera, alla violenza legalizzata e
istituzionalizzata
del potere. Questa ventata ebbe una vita breve perché, dopo il 1895, con la creazione delle
Borse del Lavoro da parte di
Pelloutier e dei suoi compagni, con la conseguente nascita dell'anarcosindacalismo, il movimento
anarchico
ritrovò quel contatto organico con le masse perso negli anni Ottanta (7). Inoltre, al suo
interno, ridimensionata notevolmente la prospettiva "catastrofica" del processo rivoluzionario si
veniva sempre di più distinguendo la corrente organizzatrice che, già dal 1891 con il
Congresso di Capolago per
quanto riguarda l'Italia, tendeva di fatto a distinguersi nettamente dagli individualisti e dagli allora nascenti
antiorganizzatori. (8).
L'individualismo antiorganizzatore
Finita l'era degli attentati che trovò soprattutto in Francia il suo epicentro, la storia
dell'anarchismo registra ora
la nascita quasi contemporanea di due tendenze individualiste: quella teorica e quella antiorganizzatrice.
Vediamo
di analizzare le istanze teoriche di quest'ultima. Essa trova soprattutto in America del Nord un
notevole seguito per opera del Galleani che esprime una sintesi
fra l'istanza puramente individualista di stampo anglosassone e americano (ben espressa negli scritti di
Turker)
e quella profondamente socialista del movimento anarchico di lingua italiana. Questa commistione di
elementi
individualisti e comunisti - che caratterizza bene la corrente antiorganizzatrice - rappresenta lo sforzo
di quanti
avvertirono in modo estremamente sensibile l'invadente burocratismo che pervadeva il movimento
operaio e
socialista. Anche qui - come per l'individualismo cosiddetto d'azione - non vi è una chiara
consapevolezza teorica
individualista, perché tutti coloro che si richiamarono a questa corrente furono
individualisti in quanto furono
antiorganizzatori. A parte lo Schicchi, personaggio troppo bizzarro e di per sé
difficilmente inquadrabile, vi è
per esempio tutta una serie di anarchici italiani che nel ribadire la loro fede comunista o in tutti i casi
societaria,
ripropongono di fatto metodi ed azioni che si richiamano all'individualismo. Un esempio lo possiamo
trovare in
Giovanni Gavilli, che riassume in sé sia l'istanza comunista (nei fini) sia l'istanza individualista
(nei mezzi) (9).
La contraddizione, che potrebbe sembrare a prima vista insanabile, è in realtà una
contraddizione continuamente
superata dalla pratica quotidiana che pone di fatto gli antiorganizzatori sul terreno comune degli
organizzatori:
la lotta operaia e popolare. Pensiamo pertanto che sia per gli individualisti d'azione sia per gli
individualisti antiorganizzatori non si possa
parlare di una vera e propria dottrina individualista. I primi la praticarono con i fatti senza porsi vere e
proprie
pregiudiziali teoriche, i secondi posero una continua istanza di autonomia all'interno del processo
rivoluzionario,
pur confermando la loro concezione comunista della società: Galleani è forse l'esempio
più significativo. Restano dunque da esaminare gli individualisti cosiddetti teorici che sono,
come abbiamo già accennato, gli unici
a meritassi a nostro avviso per intero tale titolo.
L'individualismo teorico
La nascita di una vera e consapevole corrente individualista avviene all'interno del movimento
anarchico nei primi
anni del Novecento. In Francia essi si raccolgono attorno al giornale L'Anarchie diretto
interamente da Albert
Libertad, che propugna lo stirnerismo ormai conosciuto e divulgato; in Italia si possono rintracciare a
Milano
anch'essi attorno al giornale Il grido della folla cui collaborarono soprattutto individualisti
ed antiorganizzatori.
Mentre in Italia tale movimento scemerà dopo il periodo giolittiano (nel primo dopoguerra gli
individualisti
ereditarono Gli scamiciati a Genova-Pegli, L'individualista a Milano e pochi
altri fogli), in Francia esso
continuò per opera soprattutto di Emil Armand e di altri individualisti di tendenza pacifista ed
educazionista. Comune a tutti gli individualisti è la volontà di lottare contro ogni
forma di autorità perché essa li opprime
direttamente e non tanto perché opprime anche tutti gli altri. Da ciò consegue che
l'anarchico individualista lotta
in prima persona senza curarsi - in linea di principio - della lotta altrui, perché l'unico punto di
riferimento
giustificativo di tale lotta, l'unica certezza di valore dei suoi scopi, l'unico confronto obiettivo delle sue
azioni e
della sua strategia, è sempre e soltanto lui stesso e nessun altro, perché ogni diritto, come
afferma Stirner, "non
sta mai fuori o sopra di me... ma sotto di me" (10). Queste due proposizioni comportano ora una
terza ed ultima definizione teorica che si qualifichi adesso rispetto
alla concezione sociale degli individualisti. È Emil Armand a riassumerla esemplarmente: "La
società è il prodotto
addizionale degli individui" (11). Questa proposizione significa che per gli individualisti
la società non rappresenta oggettivamente una forza
collettiva (come per esempio per Proudhon) che superi la semplice somma delle forze individuali. Non
riconoscendo né sul piano analitico né su quello valutativo questo quid
superiore, gli individualisti non possono
che approdare ad una concezione atomizzata della società. Essa quindi si prefigura sul piano
economico come
una struttura di equilibrio che implica un libero ed equo scambio fra i produttori. Nella visione di Tucker-
il cui
pensiero sconfina per certi aspetti nel liberismo puro - la proprietà privata non è abolita
ma è ripartita fra ogni
individuo il quale la rende funzionale al proprio diretto lavoro. Riprendendo l'idea
proudhoniana del credito
gratuito, egli propone l'abolizione di ogni monopolio, compreso quello dello Stato di battere
moneta. Costruendo una banca che "opera senza capitale, col solo mezzo di una carta sociale che
registri tutti servizi
sociali e produttivi scambiati" si potrà ridurre "al solo costo di lavoro, ossia a meno dell'uno per
cento, ogni
credito, che potrà quindi essere esteso universalmente a tutti in base al proprio diretto lavoro"
(12). Nella fondamentale preoccupazione di mantenere completamente integra l'autonomia
individuale, gli individualisti
direttamente o indirettamente si facevano paladini della proprietà privata concepita sempre
però come una
emanazione del lavoro individuale sviluppato in prima persona, senza cioè salariati
o dipendenti. In questo senso
e con questa visione la proprietà privata finiva addirittura col diventare un presidio irriducibile
della libertà (13)
e pertanto una lotta contro essa non aveva senso "Essi considerano come senza senso una lotta contro
la proprietà
privata (...) Essi dichiarano che coloro che imputano alla proprietà privata lo stesso ruolo di
sfruttamento sugli
uomini come quello esercitato dallo Stato, non sono degli anarchici, anche se ne prendono il nome come
gli
anarco-comunisti" (14). Non è dunque nel regime del salariato che si trova l'origine dei mali
sociali, perché essi
sono "dovuti soprattutto alla mentalità difettosa degli uomini presi in blocco" (15). Con
questa concezione psicologica comune a quasi tutti gli individualisti, sì può capire il senso
delle loro
proposte operative che si basano su una radicale rivoluzione di coscienza, l'unica rivoluzione che non
comporta
ritorni o deviazioni. La rivoluzione individualista è dunque una rivoluzione che parte dalla
coscienza per
trasformare le cose e non viceversa. Sensibilissimi alla funzione dei rapporti umani, propugnano forse
con maggior
lucidità di ogni altra corrente anarchica la libertà dei rapporti sessuali considerati,
giustamente, fondamentali per
la crescita equilibrata ed armonica dell'uomo. Di qui la dimensione educazionista delle loro proposte,
di qui l'alternativa stirneriana della rivolta permanente
al posto della rivoluzione tesa a trasformare solo l'apparato istituzionale. Questo brevissimo esame
delle idee individualiste ci permette ora una prima considerazione critica. Essa parte
dalla valutazione individualista della lotta che percorre, come abbiamo visto, un circolo chiuso: parte
dall'individuo e ritorna all'individuo. Se questa lotta ha un tramite sociale esso è sempre fortuito
e senza seguito.
Ora la dimensione reale di questa strategia è tesa ad accrescere non tanto tale lotta nel suo
sviluppo in avanti,
ma nel suo ritorno all'indietro, al suo punto cioè permanente di riferimento:
l'individuo. In altri termini
l'individualista non può mai mediarsi fino in fondo con lo sviluppo storico essendone impedito
proprio dalla sua
concezione, la quale, ponendo la dimensione individuale come campo autosufficiente, gli impedisce nel
contempo
un confronto reale e concreto con se stesso. Infatti nell'assegnare all'individuo gli ambiti assoluti della
libertà, egli implicitamente ammette che solo la
dimensione antropologica in quanto dimensione naturale è garanzia oggettiva di
tale sviluppo, solo essa,
insomma, spiega e giustifica l'associazione. Esasperando il naturalismo illuminista, gli individualisti
pongono non più la ragione contro la storia, ma
l'individuo, diventato unica regola di condotta, unico ricettacolo irripetibile dei valori, unico polo
permanente
attorno al quale si sviluppa la libertà e l'etica della libertà. Ma proprio perché
volutamente unico ed irripetibile
esso ha solo una storia dietro di sé (in quanto è, lo voglio o no, un suo prodotto) ma non
davanti a sé. Uniche e
irripetibili come lui, la sua lotta non ha seguito, anche se l'esempio rimane "una forza contagiosa
ed irresistibile"
(16). La dimensione antropologica diventa quindi l'unica dimensione oggettiva non solo
di ogni valore
ideologico, ma anche di ogni criterio scientifico di analisi. Infatti non esiste nella letteratura
individualista uno sforzo teorico capace di cogliere i mutamenti storico-sociali.
Olimpicamente indifferenti ad essi, gli individualisti continuarono per anni a riscrivere nei loro giornali,
a ribadire
nelle loro conferenze, a riproporre nelle loro azioni i medesimi contenuti etici ed ideologici senza nessuna
mediazione storica che li rendesse pregnanti, vivi, concreti. Irriducibilmente etici, privi di strategia sociale,
gli
individualisti si resero indisponibili alla comprensione dello sviluppo storico da loro giustamente - ma
anche
unilateralmente - visto solo come un mero mutamento di potere (in questo senso spetta a loro il merito
di aver
per primi indicato i mezzi indiretti del condizionamento psicologico usati dal potere moderno).
I limiti dell'individualismo
Abbiamo visto le proposte economiche della teoria individualista che propugna una formula capace
di dare ad
ognuno "il prodotto integrale del proprio lavoro". Questa proposizione che fu propria anche degli
anarco-collettivisti (con le dovute differenze storiche) e che fu a suo tempo lucidamente criticata da
Malatesta e
Kropotkin, la assumiamo ora come proposizione indicante non tanto una concezione strettamente
economica,
quanto, per ciò che essa esprime significativamente in questo caso (a differenza appunto dei
collettivisti), una
concezione sociale. Infatti la formula "ad ognuno il prodotto integrale del proprio lavoro", vuol dire per
gli
individualisti non riconoscere esplicitamente il lavoro come attività oggettivamente
sociale, come prodotto cioè
complesso e plurimo di innumerevoli e svariatissimi contributi diretti ed indiretti concorrenti al suo
risultato. Ora la negazione teorica dell'oggettività sociale del lavoro comporta quella della
dimensione sociale dell'uomo,
l'impossibilità cioè da parte di quest'ultimo di potersi liberare dall'influenza inevitabile
dell'ambiente (fisico,
storico, sociale, ecc.); inoltre non riconoscendo questa dimensione, l'individualismo cade in una illusione
permanente, perché secondo questa logica quanto maggiore è l'affermazione teorica
dell'autonomia dell'individuo,
tanto maggiore diverrà poi la sua dipendenza pratica della società. Le contraddizioni
teoriche dell'individualismo segnano tutti i limiti della sua pratica ed il fatto che oggi esso non
esiste più come tendenza all'interno del movimento anarchico conferma quanto dicevamo sopra:
irripetibile come
l'individuo, l'azione individualista non ha avuto storia, né seguito, né sviluppo. Morti gli
esponenti individualisti,
di questa corrente non è rimasta che l'istanza tutta generica dell'autonomia
irriducibile dell'individuo, che è parte
fondamentale, ma non unica, del patrimonio teorico e storico del movimento anarchico nel suo
insieme.
Mirko Roberti
1) P.C. Masini, Storia degli anarchici italiani da Bakunin a Malatesta, Milano, Rizzoli,
1969, p.225
2) La distinzione stirneriana fra società e associazione, la prima considerata come unione
coercitiva e la seconda
come unione libera, esprime bene, sul piano teorico, questa rappresentazione. Cfr. M. Stirner,
L'Unico e la sua
proprietà, Milano, Casa Ed. Sociale, 1922, pp. 376-392.
3) Ciancabilla, per esempio, fu il primo a tradurre in italiano e a commentare entusiasticamente nelle
prefazioni
da lui scritte le opere degli anarco-comunisti, come Kropotkin e Grave. Cfr U. Fedeli, Giuseppe
Ciancabilla,
Cesena, L'Antistato, 1965, p. 46.
4) Vi è infatti una bella differenza fra l'espropriazione teorizzata e propagandata da Marius
Jacob e quella di
Durruti ed Ascaso. La prima è portata avanti senza collegamenti con il movimento, la seconda,
invece trova il suo
punto di riferimento proprio in esso. Cfr. la dichiarazione di Jacob che rivendica il diritto
individuale
dell'esproprio. Si veda Pourquoi j'ai combriole. Declarations de Jacob devant la Cour
d'Assises de la Somme,
Paris, L'Idée Libre, 1913, p.3.
5) Mentre Bresci colpisce direttamente un responsabile, il re, Ravachol ed Henry colpiscono anche
quelli che
a loro giudizio sono indirettamente complici dello sfruttamento. Henry dichiarerà
al processo di aver voluto
colpire anche tutti quei borghesi "che applaudiscono agli atti del governo e si fanno suoi complici". Cfr
L.
Galleani, Il processo di Emilio Henry, Genova, Gruppi Anarchici Riuniti, 1956, p. 39. Si
vedano inoltre le
memorie di Ravachol in J. Maitron, Ravachol et les anarchistes, Paris, Julliard, 1964, pp.
39-75.
6) Cfr. il "Le Revolte", n. 11, 23 luglio 1881.
7) Concordiamo con Jean Maitron che spiega la fine degli attentati in Francia proprio per la nascita
dell'anarco-sindacalismo. Cfr J. Maitron, Histoire du mouvement anarchiste en France,
Paris, Société Universitaire, 1949,
p. 238.
8) Il Congresso di Capolago testimonia il tentativo di organizzare su base nazionale il movimento
anarchico
italiano. Voluto e preparato soprattutto da Malatesta e Merlino esso fu una risposta anticipata e
preventiva alle
composite forze antiorganizzatrici ed individualiste che in quegli anni cominciarono confusamente ad
affiorare.
Cfr. P.C. Masini, Storia degli anarchici..., pp. 236-242.
9) Cfr. U. Fedeli, Giovanni Gavilli, Firenze-Pistoia, "Albatros", 1959, p. 25 e p. 44.
Per Schicchi si veda R.
Souvarine, Vita eroica e gloriosa di Paolo Schicchi, Napoli, "Anarchismo", s.d.
10) M. Stirner, L'Unico... cit.
11) E. Armand, L'Initiation individualiste anarchiste, Paris et Orléans, Editions
de L'En Dehors, 1923, p. 21.
12) B.R. Tucker, Istead of a boook, By a man too busy to write one. A fragmentary
exposition of philosophical
anarchism, citato da P. Ghio, L'Anarchisme aux Etats-Unis, Paris, Colin, 1903, pp.
116-117.
13) Scrive Armand "L'anarchismo individualista si differenzia dall'anarchismo
comunista in questo senso nel
considerare cioè la proprietà dei mezzi di produzione e la libera disposizione del prodotto
come garanzia
essenziale dell'autonomia della persona". Cfr. E. Armand, Petit manuel anrchiste
individualiste, julliet 1911.
Riprodotto nel supplemento del En Dehors, n. 273-274, mi-août mi-septembre 1934,
pp. 5-6.
14) Dichiarazione dell'associazione degli anarco-individualisti tedeschi alla riunione tenuta a Berlino
il 12 agosto
1910. Cfr AA. VV. Le differents visages de l'anarchisme, Paris, L'En Dehors, 1927, p.
54.
15) E. Armand, Petit manuel anarchiste... p. 4.
16) L'En Dehors, hors série, mi-août 1926.
|