Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 5 nr. 37
marzo 1975


Rivista Anarchica Online

Sulle orme di Stirner
di Mirko Roberti

Le tre correnti dell'individualismo anarchico: teorico, antiorganizzatore, d'azione - L'illusione ottocentesca della rivoluzione imminente alla base della teorizzazione della "propaganda del fatto" - La sintesi fra individualismo e comunismo nella concezione anti-organizzatrice di Galleani - Le irriducibili contraddizioni dell'individualismo teorico.

Un discorso sull'individualismo anarchico si presenta, oggi come ieri, complesso e controverso. Complesso per l'oggetto stesso della materia la quale non presenta aspetti univoci di interpretazione teorica, controverso per i giudizi di valore impliciti in tali interpretazioni non sempre dettati da uno sforzo di comprensione storica. Proprio partendo da quest'ultimo punto di vista cercheremo, per quanto possibile, di condurre un discorso allo stesso tempo analitico e valutativo. La difficoltà di un tale discorso, lo ripetiamo, è dovuta alle plurime sfumature coesistenti nella dottrina individualista, alla ambivalenza costante del suo campo d'azione, alla sua stessa parabola storica (unico campo sicuro di valutazione) ma, a nostro avviso, anch'essa capace di presentare visioni controverse dopo alcune schematizzazioni storiografiche troppo rigide e semplicistiche.
Per tutto questo si impone una prima disamina che faccia chiarezza preliminare e distingua sia i molteplici aspetti all'interno dell'individualismo, sia i confini di quest'ultimo rispetto alle altre correnti dell'anarchismo. A questo proposito pensiamo che ci possa essere d'aiuto la triplice distinzione operata dal Masini, distinzione che a nostra volta tenderemo a suddividere in ulteriori distinzioni. Scrive dunque il Masini: "Nella storia del movimento anarchico esistono almeno tre specie di individualismo, affini fra loro ma non necessariamente interdipendenti: un individualismo teorico, un individualismo cosiddetto antiorganizzatore, un individualismo d'azione" (1).
Vediamo ora di qualificare e di quantificare questa schematizzazione, perché, presentata così, può sembrare un può scolastica (teniamo presente, però, che inizialmente alcune schematizzazioni si rendono necessarie se vogliamo procedere in questo discorso). Cominciamo dunque dal primo "filone", quello dell'individualismo teorico che, a nostro avviso, è forse l'espressione più autentica e completa dell'individualismo anarchico. In esso si possono, grosso modo, inserire Stirner, Tucker, Mackav, Armand, per citare i più noti, individualisti cioè sia rispetto ai mezzi (azione individuale come veicolo rivoluzionario), sia rispetto ai fini (concezione atomizzata della società e funzionante secondo rapporti interindividuali di affinità e di pura elezione) (2).
Nel secondo filone, quello cosiddetto antiorganizzatore, (e qui il discorso comincia a diventare un po' complicato) possono essere inseriti come esempi, sempre grosso modo, anarchici come Ciancabilla e Galleani che furono individualisti rispetto all'azione (da qui la loro tendenza antiorganizzatrice) ma societari e comunisti rispetto ai fini (3). Essi, e quelli che si richiamarono a loro, concepivano la prassi rivoluzionaria come azione individuale e interindividuale scaturita dalla spontaneità, dai bisogni e dalle circostanze del processo rivoluzionario stesso, pertanto non programmabile anteriormente, non inquadrabile entro strutture organizzative.
Infine nel terzo e ultimo filone le cose tendono a complicarsi maggiormente, perché l'individualismo cosiddetto d'azione comprende una gamma svariatissima di concezioni e di tendenze. Esse vanno dalla "propaganda del fatto" all'"illegalismo" (e anche qui si dovrebbero fare ulteriori distinzioni) (4), dagli attentati alla Bresci a quelli alla Ravachol e all'Henry (5).
Questa schematizzazione che si presenta un po' forzata va adesso inquadrata alla luce della prospettiva storica, la sola, come dicevamo, capace di cogliere le ragioni e gli aspetti autentici dell'individualismo.

L'individualismo d'"azione"

Senza risalire troppo indietro (anche perché la prospettiva tenderebbe troppo a dilatarsi e a generalizzarsi) si può dire che una prima affermazione ed un primo avallo autorevole all'individualismo cosiddetto d'azione, avviene al Congresso internazionale anarchico di Londra nel 1881, presenti fra gli altri Kropotkin e Malatesta. Esso approva una risoluzione che teorizza non solo "la propaganda del fatto" sia individuale sia di gruppo, ma anche i mezzi di questa propaganda ("le scienze tecniche e chimiche hanno già reso dei servizi alla causa rivoluzionaria") (6), proponendo quindi il passaggio alla lotta armata, violenta ed espropriatrice.
Ciò è comprensibile oggi tenendo ben presente che il movimento anarchico di allora era pervaso dalla convinzione profonda che la rivoluzione fosse alle porte. Pertanto nel corso degli anni Ottanta esso fini per trascurare il lavoro organizzativo e implicitamente si trovò a perdere contatto direttamente con le masse popolari e specialmente con la classe operaia, che veniva contemporaneamente sempre di più guadagnata alla socialdemocrazia.
È in questo quadro che va spiegata l'azione individualista degli attentati in Francia la prima metà degli anni Novanta, azione il più delle volte sviluppata come risposta estrema e disperata di alcuni individui alla repressione feroce del governo della borghesia. Prodotto diretto delle convinzioni storiche del tempo, l'individualismo d'azione non esprime pertanto una consapevolezza teorica precisa. L'ideologia di questi attentatori non si riferisce quindi all'individualismo cosiddetto teorico; di fatto essi erano ben lontani dall'esigenza ideologica di distinguersi anche nei fini, come individualisti. Essi erano e rimanevano anarchici "generici" (se così si può dire) preoccupati più che altro di rispondere con la violenza, considerata giustiziera, alla violenza legalizzata e istituzionalizzata del potere.
Questa ventata ebbe una vita breve perché, dopo il 1895, con la creazione delle Borse del Lavoro da parte di Pelloutier e dei suoi compagni, con la conseguente nascita dell'anarcosindacalismo, il movimento anarchico ritrovò quel contatto organico con le masse perso negli anni Ottanta (7).
Inoltre, al suo interno, ridimensionata notevolmente la prospettiva "catastrofica" del processo rivoluzionario si veniva sempre di più distinguendo la corrente organizzatrice che, già dal 1891 con il Congresso di Capolago per quanto riguarda l'Italia, tendeva di fatto a distinguersi nettamente dagli individualisti e dagli allora nascenti antiorganizzatori. (8).

L'individualismo antiorganizzatore

Finita l'era degli attentati che trovò soprattutto in Francia il suo epicentro, la storia dell'anarchismo registra ora la nascita quasi contemporanea di due tendenze individualiste: quella teorica e quella antiorganizzatrice. Vediamo di analizzare le istanze teoriche di quest'ultima.
Essa trova soprattutto in America del Nord un notevole seguito per opera del Galleani che esprime una sintesi fra l'istanza puramente individualista di stampo anglosassone e americano (ben espressa negli scritti di Turker) e quella profondamente socialista del movimento anarchico di lingua italiana. Questa commistione di elementi individualisti e comunisti - che caratterizza bene la corrente antiorganizzatrice - rappresenta lo sforzo di quanti avvertirono in modo estremamente sensibile l'invadente burocratismo che pervadeva il movimento operaio e socialista.
Anche qui - come per l'individualismo cosiddetto d'azione - non vi è una chiara consapevolezza teorica individualista, perché tutti coloro che si richiamarono a questa corrente furono individualisti in quanto furono antiorganizzatori. A parte lo Schicchi, personaggio troppo bizzarro e di per sé difficilmente inquadrabile, vi è per esempio tutta una serie di anarchici italiani che nel ribadire la loro fede comunista o in tutti i casi societaria, ripropongono di fatto metodi ed azioni che si richiamano all'individualismo. Un esempio lo possiamo trovare in Giovanni Gavilli, che riassume in sé sia l'istanza comunista (nei fini) sia l'istanza individualista (nei mezzi) (9). La contraddizione, che potrebbe sembrare a prima vista insanabile, è in realtà una contraddizione continuamente superata dalla pratica quotidiana che pone di fatto gli antiorganizzatori sul terreno comune degli organizzatori: la lotta operaia e popolare.
Pensiamo pertanto che sia per gli individualisti d'azione sia per gli individualisti antiorganizzatori non si possa parlare di una vera e propria dottrina individualista. I primi la praticarono con i fatti senza porsi vere e proprie pregiudiziali teoriche, i secondi posero una continua istanza di autonomia all'interno del processo rivoluzionario, pur confermando la loro concezione comunista della società: Galleani è forse l'esempio più significativo.
Restano dunque da esaminare gli individualisti cosiddetti teorici che sono, come abbiamo già accennato, gli unici a meritassi a nostro avviso per intero tale titolo.

L'individualismo teorico

La nascita di una vera e consapevole corrente individualista avviene all'interno del movimento anarchico nei primi anni del Novecento. In Francia essi si raccolgono attorno al giornale L'Anarchie diretto interamente da Albert Libertad, che propugna lo stirnerismo ormai conosciuto e divulgato; in Italia si possono rintracciare a Milano anch'essi attorno al giornale Il grido della folla cui collaborarono soprattutto individualisti ed antiorganizzatori. Mentre in Italia tale movimento scemerà dopo il periodo giolittiano (nel primo dopoguerra gli individualisti ereditarono Gli scamiciati a Genova-Pegli, L'individualista a Milano e pochi altri fogli), in Francia esso continuò per opera soprattutto di Emil Armand e di altri individualisti di tendenza pacifista ed educazionista.
Comune a tutti gli individualisti è la volontà di lottare contro ogni forma di autorità perché essa li opprime direttamente e non tanto perché opprime anche tutti gli altri. Da ciò consegue che l'anarchico individualista lotta in prima persona senza curarsi - in linea di principio - della lotta altrui, perché l'unico punto di riferimento giustificativo di tale lotta, l'unica certezza di valore dei suoi scopi, l'unico confronto obiettivo delle sue azioni e della sua strategia, è sempre e soltanto lui stesso e nessun altro, perché ogni diritto, come afferma Stirner, "non sta mai fuori o sopra di me... ma sotto di me" (10).
Queste due proposizioni comportano ora una terza ed ultima definizione teorica che si qualifichi adesso rispetto alla concezione sociale degli individualisti. È Emil Armand a riassumerla esemplarmente: "La società è il prodotto addizionale degli individui" (11).
Questa proposizione significa che per gli individualisti la società non rappresenta oggettivamente una forza collettiva (come per esempio per Proudhon) che superi la semplice somma delle forze individuali. Non riconoscendo né sul piano analitico né su quello valutativo questo quid superiore, gli individualisti non possono che approdare ad una concezione atomizzata della società. Essa quindi si prefigura sul piano economico come una struttura di equilibrio che implica un libero ed equo scambio fra i produttori. Nella visione di Tucker- il cui pensiero sconfina per certi aspetti nel liberismo puro - la proprietà privata non è abolita ma è ripartita fra ogni individuo il quale la rende funzionale al proprio diretto lavoro. Riprendendo l'idea proudhoniana del credito gratuito, egli propone l'abolizione di ogni monopolio, compreso quello dello Stato di battere moneta.
Costruendo una banca che "opera senza capitale, col solo mezzo di una carta sociale che registri tutti servizi sociali e produttivi scambiati" si potrà ridurre "al solo costo di lavoro, ossia a meno dell'uno per cento, ogni credito, che potrà quindi essere esteso universalmente a tutti in base al proprio diretto lavoro" (12).
Nella fondamentale preoccupazione di mantenere completamente integra l'autonomia individuale, gli individualisti direttamente o indirettamente si facevano paladini della proprietà privata concepita sempre però come una emanazione del lavoro individuale sviluppato in prima persona, senza cioè salariati o dipendenti. In questo senso e con questa visione la proprietà privata finiva addirittura col diventare un presidio irriducibile della libertà (13) e pertanto una lotta contro essa non aveva senso "Essi considerano come senza senso una lotta contro la proprietà privata (...) Essi dichiarano che coloro che imputano alla proprietà privata lo stesso ruolo di sfruttamento sugli uomini come quello esercitato dallo Stato, non sono degli anarchici, anche se ne prendono il nome come gli anarco-comunisti" (14). Non è dunque nel regime del salariato che si trova l'origine dei mali sociali, perché essi sono "dovuti soprattutto alla mentalità difettosa degli uomini presi in blocco" (15).
Con questa concezione psicologica comune a quasi tutti gli individualisti, sì può capire il senso delle loro proposte operative che si basano su una radicale rivoluzione di coscienza, l'unica rivoluzione che non comporta ritorni o deviazioni. La rivoluzione individualista è dunque una rivoluzione che parte dalla coscienza per trasformare le cose e non viceversa. Sensibilissimi alla funzione dei rapporti umani, propugnano forse con maggior lucidità di ogni altra corrente anarchica la libertà dei rapporti sessuali considerati, giustamente, fondamentali per la crescita equilibrata ed armonica dell'uomo.
Di qui la dimensione educazionista delle loro proposte, di qui l'alternativa stirneriana della rivolta permanente al posto della rivoluzione tesa a trasformare solo l'apparato istituzionale.
Questo brevissimo esame delle idee individualiste ci permette ora una prima considerazione critica. Essa parte dalla valutazione individualista della lotta che percorre, come abbiamo visto, un circolo chiuso: parte dall'individuo e ritorna all'individuo. Se questa lotta ha un tramite sociale esso è sempre fortuito e senza seguito. Ora la dimensione reale di questa strategia è tesa ad accrescere non tanto tale lotta nel suo sviluppo in avanti, ma nel suo ritorno all'indietro, al suo punto cioè permanente di riferimento: l'individuo. In altri termini l'individualista non può mai mediarsi fino in fondo con lo sviluppo storico essendone impedito proprio dalla sua concezione, la quale, ponendo la dimensione individuale come campo autosufficiente, gli impedisce nel contempo un confronto reale e concreto con se stesso.
Infatti nell'assegnare all'individuo gli ambiti assoluti della libertà, egli implicitamente ammette che solo la dimensione antropologica in quanto dimensione naturale è garanzia oggettiva di tale sviluppo, solo essa, insomma, spiega e giustifica l'associazione.
Esasperando il naturalismo illuminista, gli individualisti pongono non più la ragione contro la storia, ma l'individuo, diventato unica regola di condotta, unico ricettacolo irripetibile dei valori, unico polo permanente attorno al quale si sviluppa la libertà e l'etica della libertà. Ma proprio perché volutamente unico ed irripetibile esso ha solo una storia dietro di sé (in quanto è, lo voglio o no, un suo prodotto) ma non davanti a sé. Uniche e irripetibili come lui, la sua lotta non ha seguito, anche se l'esempio rimane "una forza contagiosa ed irresistibile" (16). La dimensione antropologica diventa quindi l'unica dimensione oggettiva non solo di ogni valore ideologico, ma anche di ogni criterio scientifico di analisi.
Infatti non esiste nella letteratura individualista uno sforzo teorico capace di cogliere i mutamenti storico-sociali. Olimpicamente indifferenti ad essi, gli individualisti continuarono per anni a riscrivere nei loro giornali, a ribadire nelle loro conferenze, a riproporre nelle loro azioni i medesimi contenuti etici ed ideologici senza nessuna mediazione storica che li rendesse pregnanti, vivi, concreti. Irriducibilmente etici, privi di strategia sociale, gli individualisti si resero indisponibili alla comprensione dello sviluppo storico da loro giustamente - ma anche unilateralmente - visto solo come un mero mutamento di potere (in questo senso spetta a loro il merito di aver per primi indicato i mezzi indiretti del condizionamento psicologico usati dal potere moderno).

I limiti dell'individualismo

Abbiamo visto le proposte economiche della teoria individualista che propugna una formula capace di dare ad ognuno "il prodotto integrale del proprio lavoro". Questa proposizione che fu propria anche degli anarco-collettivisti (con le dovute differenze storiche) e che fu a suo tempo lucidamente criticata da Malatesta e Kropotkin, la assumiamo ora come proposizione indicante non tanto una concezione strettamente economica, quanto, per ciò che essa esprime significativamente in questo caso (a differenza appunto dei collettivisti), una concezione sociale. Infatti la formula "ad ognuno il prodotto integrale del proprio lavoro", vuol dire per gli individualisti non riconoscere esplicitamente il lavoro come attività oggettivamente sociale, come prodotto cioè complesso e plurimo di innumerevoli e svariatissimi contributi diretti ed indiretti concorrenti al suo risultato.
Ora la negazione teorica dell'oggettività sociale del lavoro comporta quella della dimensione sociale dell'uomo, l'impossibilità cioè da parte di quest'ultimo di potersi liberare dall'influenza inevitabile dell'ambiente (fisico, storico, sociale, ecc.); inoltre non riconoscendo questa dimensione, l'individualismo cade in una illusione permanente, perché secondo questa logica quanto maggiore è l'affermazione teorica dell'autonomia dell'individuo, tanto maggiore diverrà poi la sua dipendenza pratica della società.
Le contraddizioni teoriche dell'individualismo segnano tutti i limiti della sua pratica ed il fatto che oggi esso non esiste più come tendenza all'interno del movimento anarchico conferma quanto dicevamo sopra: irripetibile come l'individuo, l'azione individualista non ha avuto storia, né seguito, né sviluppo. Morti gli esponenti individualisti, di questa corrente non è rimasta che l'istanza tutta generica dell'autonomia irriducibile dell'individuo, che è parte fondamentale, ma non unica, del patrimonio teorico e storico del movimento anarchico nel suo insieme.

Mirko Roberti

1) P.C. Masini, Storia degli anarchici italiani da Bakunin a Malatesta, Milano, Rizzoli, 1969, p.225

2) La distinzione stirneriana fra società e associazione, la prima considerata come unione coercitiva e la seconda come unione libera, esprime bene, sul piano teorico, questa rappresentazione. Cfr. M. Stirner, L'Unico e la sua proprietà, Milano, Casa Ed. Sociale, 1922, pp. 376-392.

3) Ciancabilla, per esempio, fu il primo a tradurre in italiano e a commentare entusiasticamente nelle prefazioni da lui scritte le opere degli anarco-comunisti, come Kropotkin e Grave. Cfr U. Fedeli, Giuseppe Ciancabilla, Cesena, L'Antistato, 1965, p. 46.

4) Vi è infatti una bella differenza fra l'espropriazione teorizzata e propagandata da Marius Jacob e quella di Durruti ed Ascaso. La prima è portata avanti senza collegamenti con il movimento, la seconda, invece trova il suo punto di riferimento proprio in esso. Cfr. la dichiarazione di Jacob che rivendica il diritto individuale dell'esproprio. Si veda Pourquoi j'ai combriole. Declarations de Jacob devant la Cour d'Assises de la Somme, Paris, L'Idée Libre, 1913, p.3.

5) Mentre Bresci colpisce direttamente un responsabile, il re, Ravachol ed Henry colpiscono anche quelli che a loro giudizio sono indirettamente complici dello sfruttamento. Henry dichiarerà al processo di aver voluto colpire anche tutti quei borghesi "che applaudiscono agli atti del governo e si fanno suoi complici". Cfr L. Galleani, Il processo di Emilio Henry, Genova, Gruppi Anarchici Riuniti, 1956, p. 39. Si vedano inoltre le memorie di Ravachol in J. Maitron, Ravachol et les anarchistes, Paris, Julliard, 1964, pp. 39-75.

6) Cfr. il "Le Revolte", n. 11, 23 luglio 1881.

7) Concordiamo con Jean Maitron che spiega la fine degli attentati in Francia proprio per la nascita dell'anarco-sindacalismo. Cfr J. Maitron, Histoire du mouvement anarchiste en France, Paris, Société Universitaire, 1949, p. 238.

8) Il Congresso di Capolago testimonia il tentativo di organizzare su base nazionale il movimento anarchico italiano. Voluto e preparato soprattutto da Malatesta e Merlino esso fu una risposta anticipata e preventiva alle composite forze antiorganizzatrici ed individualiste che in quegli anni cominciarono confusamente ad affiorare. Cfr. P.C. Masini, Storia degli anarchici..., pp. 236-242.

9) Cfr. U. Fedeli, Giovanni Gavilli, Firenze-Pistoia, "Albatros", 1959, p. 25 e p. 44. Per Schicchi si veda R. Souvarine, Vita eroica e gloriosa di Paolo Schicchi, Napoli, "Anarchismo", s.d.

10) M. Stirner, L'Unico... cit.

11) E. Armand, L'Initiation individualiste anarchiste, Paris et Orléans, Editions de L'En Dehors, 1923, p. 21.

12) B.R. Tucker, Istead of a boook, By a man too busy to write one. A fragmentary exposition of philosophical anarchism, citato da P. Ghio, L'Anarchisme aux Etats-Unis, Paris, Colin, 1903, pp. 116-117.

13) Scrive Armand "L'anarchismo individualista si differenzia dall'anarchismo comunista in questo senso nel considerare cioè la proprietà dei mezzi di produzione e la libera disposizione del prodotto come garanzia essenziale dell'autonomia della persona". Cfr. E. Armand, Petit manuel anrchiste individualiste, julliet 1911. Riprodotto nel supplemento del En Dehors, n. 273-274, mi-août mi-septembre 1934, pp. 5-6.

14) Dichiarazione dell'associazione degli anarco-individualisti tedeschi alla riunione tenuta a Berlino il 12 agosto 1910. Cfr AA. VV. Le differents visages de l'anarchisme, Paris, L'En Dehors, 1927, p. 54.

15) E. Armand, Petit manuel anarchiste... p. 4.

16) L'En Dehors, hors série, mi-août 1926.