Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 4 nr. 34
dicembre 1974


Rivista Anarchica Online

Consigli di fabbrica e autonomia operaia
a cura di P. F.

L'8 novembre abbiamo organizzato un incontro, cui hanno partecipato cinque compagni di Venezia, Torino e Milano che svolgono attività "anarco-sindacalista" in diverse realtà aziendali. Abbiamo pensato, mettendo a confronto alcune esperienze personali, non certo di risolvere la complessa e dibattuta questione dei consigli di fabbrica, ma di fornire del materiale "di prima mano" per una discussione ancora aperta nel campo libertario. Tanto più che il tema particolare è solo un aspetto della più generale tematica relativa al difficile compito, che spetta ai lavoratori anarchici, di difendere e sviluppare in un coerente progetto ed in una adeguata organizzazione le tendenze egualitarie e libertarie spontaneamente rinate tra gli sfrittati in questi ultimi anni (la cosiddetta "autonomia proletaria").

PAOLO (redattore di A) - Penso che sia utili iniziare l'incontro con un giro di interventi sulle singole esperienze dei compagni presenti.
MAURO - Entrato alla "Michelin" dopo un periodo di apprendistato (dato che la "Michelin" doveva impiantare dei macchinari nuovi in Italia che già erano in funzione in Francia), ritornai in Italia e presi contatto con i sindacalisti che conobbi sul posto di lavoro con il fine di iscrivermi ad un sindacato, avere un contratto di lavoro e seguire quel che succedeva. Vista la mia partecipazione alla vita sindacale di fabbrica ed alle assemblee che si tenevano alla Camera del Lavoro mi fu proposto di partecipare ad un corso sindacale che si tenne a Meina: argomento, i consigli di fabbrica. Quando fui ammesso al corso avevo ancora la tessera della C.G.I.L. In questo corso si parlò dei consigli di fabbrica, di come organizzarli. Dopo questo corso sindacale si dette vita all "Michelin" ad un consiglio di fabbrica che possiamo definire "illegale", nel senso che non godeva di un riconoscimento ufficiale da parte della direzione della "Michelin". Alle prime elezioni io fui eletto (1970) ed allora il numero dei delegati era di circa 150 in tutta la fabbrica. Senonché da parte del sindacato si voleva un riconoscimento ufficiale da parte della direzione; prima c'era la commissione interna, ora si voleva sostituirla con il nuovo organismo del c.d.f., ma la direzione continuava a riconoscere solo la direzione interna. Quando poi avvenne il riconoscimento ufficiale ci fu una grossa bidonatura: il c.d.f. che fu impiantato non può nemmeno essere definito un consiglio di fabbrica, ed anche oggi si può affermare che alla "Michelin" di Torino-Dora (dove lavoro io) un vero c.d.f. non c'è.
Infatti i delegati eletti da tutte le squadre erano circa 150, mentre la direzione ne ha riconosciuti e ne riconosce solo novantanove, in base al principio numerico: cioè la direzione riconosce un delegato ogni 50 lavoratori, non il delegato della squadra, cosicché queste persone che venivano incaricate di fare il delegato si trovavano a rappresentare oltre ai propri compagni di squadra anche altri lavoratori non della loro squadra, che pertanto non avevano certo molte occasioni per parlare, per discutere con lui sui problemi. Così il delegato all'interno del c.d.f. prendeva decisioni per 50 persone che lui non rappresentava. Al limite, se nella squadra ci fosse stata discussione, dibattito, il delegato non poteva che rappresentare la sua squadra, non certo gli altri. Da parte mia, poi, c'è stato un intervento in fabbrica, in collaborazione con il "Collettivo Lavoratori Libertari" e con il gruppo Azione Anarchica (del quale faccio parte), proprio per far vedere agli operai la buggeratura che era stata fatta; inoltre abbiamo sottolineato il fatto che il delegato doveva essere fatto a rotazione da tutti i lavoratori, in modo da garantire la rappresentatività del c.d.f.; per esempio in una squadra di 20 persone tutti avrebbero potuto, un mese per ciascuno, fare il delegato. Questo perché nell'anno in cui ho svolto questo incarico ho notato che, mentre io partecipavo alle assemblee e discutevo i problemi che da parte del sindacato venivano posti o che comunque sorgevano, da parte della squadra non c'era interessamento, si diceva "tu sei il delegato, decidi tu quello che c'è da fare". La decisione dunque non era presa dalle squadre, ma dal singolo delegato e ciò era una cosa che a me non andava giù. Allora per interessare tutti ai problemi che sarebbero sorti abbiamo ritenuto appunto opportuno che questo incarico fosse fatto a rotazione. E questo è un primo aspetto.
Un altro aspetto è che le elezioni dei delegati fossero rifatte e che fosse riconosciuto dagli operai, non tanto dalla direzione, il delegato della squadra, perché se anche la direzione avesse detto NO noi avremmo comunque fatto in modo che la scelta dei delegati avvenisse in tutta la fabbrica, sulla base delle (circa) 150 squadre. A questo punto si poneva un problema: come avremmo fatto, dal momento che la direzione avrebbe concesso libertà di movimento e di partecipazione alle riunioni dei delegati solo a quei 99 da lei riconosciuti, mentre noi proponevamo che comunque il consiglio dei delegati fosse di 150 delegati? Tanto più che il sindacato non era d'accordo con la nostra proposta ed accettava l'accordo già raggiunto con la direzione.
Facciamo l'esempio del mio reparto, il "pi greco ix" (confezione pneumatici) dove io lavoro con la qualifica di operaio di 1a categoria, reparto che è composto di tre squadre: di delegati eletti, riconosciuti dalla direzione ne spettavano due: restava dunque un reparto il cui delegato non sarebbe stato riconosciuto. La nostra proposta iniziale era che a turno, quando venivano fatte delle votazioni, venissero cambiate le rappresentanze; la prima volta venissero riconosciuti i rappresentanti A e B ed escluso quello C, poi escluso quello A e così via. Se poi gli operai avessero trovato gusto nel partecipare alla vita del Consiglio e ne avessero compreso la importanza, allora sarebbero stati loro stessi ad imporre alla direzione il riconoscimento di tutti i delegati, e non solo una parte.
Da parte dei sindacati non si rispose a questo nostro discorso, o meglio si rispose in modo negativo: si disse che "se i lavoratori sono disposti a farlo, a ruotare, per noi va bene", però non fecero assolutamente nulla per poterlo realizzare. Proprio sul tipo di organizzazione del consiglio di fabbrica, sul suo funzionamento, non c'è un dibattito continuo per poter avere una visione chiara di come deve funzionare. Il delegato alla "Michelin" è più o meno un dirigente, che esprime all'interno della fabbrica quello che vuole il sindacato, invece di essere il contrario; dovrebbero essere i lavoratori a dare il mandato al delegato e a dirgli ciò che deve fare.
Al riguardo proprio dell'esecutivo, nella prima elezione veniva posto questo fatto: per accordo fra i tre sindacati (CGIL, CISL, UIL) si stabiliva che l'esecutivo del c.d.f. doveva essere composto in questo modo: sei membri dell'esecutivo dovevano essere della CGIL, tre della CISL e tre della UIL. A noi sembrava una nota stonata; visto che le elezioni del delegato venivano fatte su scheda bianca che cosa sarebbe mai successo se tutti i delegati eletti appartenessero tutti alla medesima sigla, o addirittura se i delegati non fossero iscritti a nessuno dei sindacati? Avrebbero i sindacati riconosciuto ciò che i lavoratori avevano espresso o avrebbero cercato di far rifare le elezioni? Si è andati avanti un anno con questo esecutivo, al suo rinnovo è stato riproposta la stessa cosa, dicendo che l'unità sindacale è un fatto ancora di là da venire, che sarebbe bello fare le elezioni a scheda bianca qualunque risultato ne venisse fuori, ma per adesso intanto rifacciamolo allo stesso modo: 6 alla CGIL, 3 alla CISL e 3 alla UIL. A ciò c'è stata un'opposizione da parte di tre o quattro delegati, che hanno accusato i sindacalisti di essere antidemocratici (dal momento che i sindacati si lavano spesso la bocca con la parola democrazia); il difetto che ha avuto questa opposizione è stato quello di non aver preso di petto la situazione, limitandosi a far notare che così non andava bene e ad auspicare che l'anno successivo le cose si svolgessero diversamente, che quest'inconveniente fosse superato, facendo appunto un'elezione diretta, senza più guardare le sigle.
Per quanto riguarda la mia partecipazione dall'interno alla vita del c.d.f. va sottolineato che, nonostante che io sia stato eletto dalla squadra, i miei compagni di lavoro mi vedevano sotto la veste del dirigente, e non del delegato; in pratica non mi davano un mandato sui vari problemi in modo da riferire la loro opinione al c.d.f. Per esempio, la squadra decideva che bisognava richiedere un aumento, ma non decideva che tipo di aumento: il delegato (io, in questo caso) era lasciato libero di dire quel che voleva a nome della squadra. E' evidente che in questo modo il delegato non era più tale, ma di fatto agiva da dirigente. Si trattava poi di un ambito limitato, perché all'interno del c.d.f. si ritrovavano per lo più le decisioni che il sindacato prendeva in sede nazionale e che sguinzagliava tramite i suoi funzionari in tutte le sedi periferiche. Per cui si arrivava al punto che era l'esecutivo che diceva ai delegati ciò che loro dovevano andare a dire agli operai. Non essendo protagonisti in prima persona, i lavoratori diventavano così solo una massa di manovra.
Tutto ciò considerato, quando c'è poi stata la prima elezione ufficiale io non ho accettato di ripresentarmi come delegato, per dare la possibilità di fare ruotare questo incarico in modo che tutti, entrando all'interno del c.d.f. e conoscendone dall'interno il funzionamento, avrebbero potuto apprendere qualche cosa, avrebbero potuto dare un contributo alle lotte e tutto il movimento operaio ne avrebbe tratto vantaggio, mentre nell'attuale situazione i lavoratori non sono - come già ho detto - che una massa di manovra dei sindacati, attraverso i consigli di fabbrica.
CORRADO - Sono entrato in fabbrica al Petrolchimico di Porto Marghera nel 1971 ed ora sono operaio di 1a categoria; allora il c.d.f. era abbastanza rappresentativo. Entrato in fabbrica ho subito iniziato il lavoro politico, entrando in contatto con la realtà di fabbrica e cercando di prendere contatti un po' a tutti livelli, con i sindacalisti, con i lavoratori rivoluzionari all'interno del c.d.f. ed anche nell'esecutivo. Nel contempo ho sempre continuato la militanza anarchica nel gruppo Nestor Machno di Marghera (in cui milita anche Levis). Fin dall'inizio ho rifiutato di iscrivermi al sindacato a causa del suo verticismo. A partire dal '71 l'autonomia del c.d.f. è andata sempre più diminuendo e quindi è sorta la necessità di trovare un'altra via organizzativa per poter incidere sulla situazione. Da questa esigenza di sganciarsi da un c.d.f. sempre più controllato dai vertici sindacali nasce l'esigenza dell'ASSEMBLEA AUTONOMA, che deriva appunto dalla volontà dei vari lavoratori del Petrolchimico di costruire un organismo abbastanza complesso e generalizzato, che allarghi il suo ambito di operatività dalla fabbrica al quartiere. Da allora Levis ed io abbiamo sempre partecipato alle lotte portate avanti dalla assemblea autonoma.
PAOLO - Quali forze politiche hanno partecipato alla creazione dell'assemblea autonoma e quanti lavoratori promotori dell'iniziativa erano già militanti in raggruppamenti della sinistra rivoluzionaria?
LEVIS - L'a.a. è proprio nata all'interno del Petrolchimico, come iniziativa portata avanti da elementi attorno a Potere Operaio; anzi, per quel che riguarda P.O., si può dire che proprio da questo momento è cominciato lo scioglimento dell'organizzazione di P.O. La a.a. è sorta alla fine della lotta contrattuale, che proprio all'interno del Petrolchimico aveva avuto modo di esprimere un altissimo potenziale di lotta fra i lavoratori. Si era cioè riusciti a saltare almeno in parte la mediazione sindacale per discutere e trattare tutto. Questo era un fatto nuovo, importantissimo. Si trattava cioè di passare autonomamente ad una riduzione di orario: cioè i lavoratori chiedevano sì una riduzione di orario, ma nel frattempo si erano già organizzati per attuare da soli la riduzione. Visto che questo tipo di lotta non è andato avanti a causa del boicottaggio sindacale e visto che c'era una forte base operaia che era indirizzata verso questo nuovo tipo di lotta, è venuta fuori la prospettiva di una organizzazione autonoma, indipendente dal sindacato e questa iniziativa è stata ripresa dai militanti di P.O., di L.C. e di altri gruppi. Vi è però stata quasi subito l'uscita di questi gruppi, che contrastavano con P.O. il quale già marciava verso lo scioglimento della sua organizzazione in nuove strutture tipo appunto l'a.a. di Porto Marghera.
CORRADO - Levis ha messo in rilievo un aspetto delle lotte che venivano portate avanti dall'assemblea autonoma, cioè della riduzione dell'orario di lavoro alle 36 ore settimanali. Su questo obiettivo, però, sia a causa del boicottaggio sindacale, sia per carenze organizzative interne all'a.a., non si è riusciti a sfondare. Un altro tema delle lotte del periodo 72/73 è stato quello della nocività; si è cercato di stabilire un regolare contatto con medici e specialisti simpatizzanti che ci dicessero veramente se avevamo o no la silicosi, il piombo nei polmoni, ecc. Infatti a Marghera era difficile trovare dei medici onesti che fossero precisi nelle loro diagnosi. Comunque, nel complesso, l'a.a. è diventata sempre meno autonoma, a causa della preponderanza dei militanti di P.O., che sì avevano una concezione diversa da quella degli altri raggruppamenti della sinistra extra-parlamentare, ma alla fine erano pur sempre dei marxisti, con la loro concezione organizzativa ben determinata. Al processo di centralizzazione e di definizione ideologica precisa (marxista) dell'a.a. è corrisposto un progressivo svuotamento dell'a.a. stessa, dalla quale si sono allontanati molti dei lavoratori che vi si erano avvicinati ai primi tempi, quando la pratica dell'autonomia era effettiva. In conseguenza di tutto ciò, Levis e io siamo usciti dall'a.a.
PAOLO - Altri anarchici o libertari hanno partecipato all'esperienza dell'a.a.?
CORRADO - Fin dall'inizio vi ha partecipato un altro compagno, di Venezia, anche lui lavoratore, che ha dato un grosso contributo alle lotte dell'a.a. Comunque recentemente anche lui è uscito dall'a.a. per i nostri stessi motivi.
LEVIS - Vorrei fare una precisazione. All'interno dell'a.a. vi era una decina di compagni libertari, alcuni dei quali hanno abbandonato l'anarchismo ritenendo che il discorso dell'autonomia operaia fosse un passo avanti, un superamento dell'anarchismo stesso. Oggi questi ex-libertari continuano a far parte dell'a.a. e rifiutano la tematica anarchica.
PAOLO - Nel complesso qual è la vostra opinione sull'esperienza dell'a.a.? Si può a buon diritto considerarla una Assemblea autonoma, almeno in una fase della sua esistenza, o piuttosto pensate che sia stata un'esperienza fin dall'inizio condizionata pesantemente da P.O.?
LEVIS - L'a.a. è stata e resta autonoma per quella misura in cui rifiuta un qualsiasi rapporto organico con qualsiasi organizzazione specifica esterna. In questo senso i marxisti che hanno partecipato all'a.a. hanno fatto un salto qualitativo rispetto alla tradizionale impostazione marxista del legame diretto fra organizzazione interna ed esterna alla fabbrica. E' proprio su questo terreno dell'autonomia operaia che ci siamo trovati a collaborare con i militanti di P.O. nell'a.a.
PAOLO - Nella loro critica a tutti i movimenti "esterni" l'a.a. di Porto Marghera ha coinvolto anche il movimento anarchico, senza cogliere la abissale differenza che passa tra le organizzazioni avanguardistiche e centralizzatrici dei vari gruppi marxisti-leninisti da una parte ed un movimento basato sulla federazione di gruppi ed il rispetto dell'autonomia come quello anarchico. Che cosa pensate in proposito?
CORRADO - Voglio sottolineare gli aspetti positivi espressi dall'a.a.: il rifiuto della centralizzazione, la generalizzazione della lotta, la convivenza al suo interno di diverse tendenze rivoluzionarie. Da quando sono uscito, poi, dall'a.a. ho continuato la mia attività politica in fabbrica e nel quartiere. Oggi faccio parte di un "Comitato per l'autoriduzione" che è stato creato per trattare il problema degli aumenti delle tariffe dell'E.N.E.L., dei trasporti, dell'acqua, ecc.
PAOLO - A questo punto vorrei chiedere ai compagni di Marghera quali sono stati i rapporti fra l'a.a. ed il c.d.f. e come quest'ultimo sia strutturato. In particolare vorrei che fosse chiarito se il c.d.f. è un'appendice pura e semplice del sindacato o se riesce ad interpretare (e forse a ingabbiare) le spinte provenienti dalla base.
LEVIS - Innanzitutto va detto che l'a.a. ha voluto dimostrare anche che il c.d.f. non è l'unica forma possibile per l'organizzazione dei lavoratori in fabbrica. Infatti, dopo una prima spinta iniziale dovuta alla contestazione operaia del 1968-'69, i c.d.f. sono stati progressivamente recuperati e sono divenuto espressione del sindacato. Almeno per quanto concerne la situazione di Porto Marghera i c.d.f. sono un'espressione diretta del sindacato e non un organo dei lavoratori. Vi è un patto federativo, concordato nel 1971 fra le organizzazioni sindacali, che già da tempo ha dettato le regole-base sulle quali il sindacato cerca di strutturare i c.d.f., garantendosi così di una loro rispondenza ai voleri del sindacato su scala nazionale e controllando di fatto la vita dei c.d.f. anche quando formalmente tutto si svolge democraticamente. Da noi il c.d.f. è stato un organismo che ha cercato di reprimere le lotte portate avanti dall'a.a.
CORRADO - Proprio di fronte all'involuzione del c.d.f., al Petrolchimico abbiamo costituito una specie di "comitato di lotta", che per ora serve a mantenere i contatti fra i lavoratori rivoluzionari dell'azienda. Si tratta di un'esigenza sentita fra i lavoratori, che è stata finora realizzata in alcuni reparti, anzi proprio in quelli dove l'esecutivo del c.d.f. si è scontrato apertamente con le esigenze di lotta dei lavoratori. Il tentativo di generalizzare a tutta la fabbrica l'esperienza partita da quei pochi reparti è in corso proprio in queste settimane.
GIORGIO - Dall'intervento di Levis riguardo al patto federativo dei sindacati per regolamentare i c.d.f. risulta evidente il motivo della suddivisione rigida dei membri dell'esecutivo del c.d.f. della "Michelin" che prima c'è stata descritta dal compagno di Torino.
MAURO - D'accordo, però vorrei mettere in guardia di fronte al pericolo di un'interpretazione troppo schematica del patto federativo, che avrà certo validità generale sul territorio nazionale, ma che di fatto può essere applicato in modi differenti nelle singole realtà di fabbrica. La stessa divisione dei seggi dell'esecutivo del c.d.f. è variabile da fabbrica a fabbrica. Concordo con i compagni che comunque la situazione di fondo è comune e che soprattutto l'importante per il sindacato è di avere nell'esecutivo del c.d.f. un fedele strumento, che sia sotto il suo diretto controllo.
GIORGIO - Vorrei dire quattro parole sulla mia esperienza alla Rizzoli, premettendo che comunque lavoro da quando avevo dodici anni e che non ho mai smesso. Sono entrato alla Rizzoli nel 1970 come operaio di 2a categoria; allora non avevo ancora alcuna coscienza politica, potevo essere definito un "qualunquista", anche se in effetti già da allora sentivo un confuso interesse a chiarirmi le idee, a cercare una mia posizione. Subito alcuni colleghi di lavoro mi consigliarono di prendere la tessera sindacale, spiegandomi che così sarei stato più garantito di fronte alla repressione padronale. Così presi la tessera della UIL. Nel contempo cominciai a interessarmi di politica, e appena conobbi le idee anarchiche capii di aver trovato ciò che mi soddisfaceva. Quando dalla commissione interna si passo all'organismo del c.d.f. vi furono le prime elezioni; i delegati del mio reparto si trovarono a scontrarsi con le scelte dell'esecutivo del c.d.f. che gli stessi operai del mio reparto ritenevano che avessero addirittura peggiorato la situazione del nostro reparto. Si giunse al punto che l'accordo stipulato fra l'esecutivo del c.d.f. e la direzione dell'azienda non fu sottoscritto dai delegati del mio reparto. Quando poi vi furono le seconde elezioni per il c.d.f. io mi presentai e fui aletto. Alla prima riunione del nuovo c.d.f. ci fu presentata una lista di candidati per l'esecutivo (presentata dal sindacato); la cosa suscitò la meraviglia e le proteste mie e di un altro compagno anarchico (Massimo P.) che era stato eletto anche lui nel c.d.f.
MAURO - Scusa se ti interrompo, ma c'è un fatto che mi sembra importante chiarire subito. Il fatto che vari delegati dei reparto on seno al c.d.f. abbiano accettato o meno la lista per l'esecutivo presentata dai sindacati, e comunque che abbiano votato per questo o per quel delegato da mandare nell'esecutivo, è stato fatto sulla base del preciso mandato del reparto che li ha votati oppure hanno agito di loro spontanea iniziativa, senza nemmeno consultare il loro reparto?
GIORGIO - All'interno del c.d.f. ci sono come dei clan; per esempio ci sono vento delegati della C.G.I.L. che si riuniscono prima, stabiliscono fra loro la linea da seguire o i candidati da eleggere, e portano poi in blocco le loro decisioni all'interno del c.d.f.: non le decisioni dei loro reparti, ma quelle della organizzazione sindacale cui appartengono. Un altro aspetto della questione è il fatto che la maggioranza dei delegati presenti alle riunioni del c.d.f. non ha mai preso la parola. L'esperienza acquisita nel mio reparto mi ha poi fatto vedere che i delegati di reparto vengono poi scelti dai loro colleghi in base a motivazioni tipo "quello sa parlare bene", "quell'altro mi è simpatico", ecc. La tessera sindacale o la sigla non hanno molta importanza, almeno nel mio reparto. Va comunque chiarito che quando sono stato eletto delegato di reparto io avevo già dato le dimissioni dalla UIL ed ero sindacalmente autonomo.
Appena eletto nel c.d.f. mi fu sottoposto l'accordo che l'esecutivo del c.d.f. aveva stipulato con la direzione e che i precedenti delegati del mio reparto avevano rifiutato di sottoscrivere; volevano che io firmassi. Mi rifiutai e proposi delle assemblee da tenersi con i lavoratori del mio reparto per discutere l'intera questione, ma l'esecutivo rifiutò. Tornai più volte a discutere la "vertenza" insieme con l'esecutivo del c.d.f., ma l'atteggiamento dei suoi componenti fu inaccettabile: una volta non mi stavano nemmeno a sentire, la successiva mi davano del pirla, poi ancora non mi ascoltavano nemmeno, finché giunsero a darmi del fascista. Allora mi decisi ad organizzare da solo un'assemblea del mio reparto, che fu tenuta a cavallo fra due turni e che non poté che durare una mezz'ora. In quella sede ho spigato la situazione ed ho notato che solo una parte dei presenti intervenne, poiché la maggioranza aveva paura, dal momento che la mia azione era diretta anche contro i sindacati. Il giorno successivo fu convocata una riunione apposita del c.d.f. dedicata al "mio" caso, cioè al fatto che avevo organizzato l'assemblea autonoma di cui ho appena parlato. In pratica venivo accasato di aver scavalcato il c.d.f., di spontaneismo, ecc.
L'andamento dell'assemblea ve lo lascio immaginare: basterà dire che eravamo due o tre contro ottanta. Andarono a tirar fuori questioni personali, a volte false, comunque irrilevanti, tanto per poter poi emettere un comunicato diffuso nell'azienda in cui venivo tacciato di essere un "servo del padrone" (nel corso dell'assemblea, poi, mi avevano accusato di essere fascista). In seguito ad altre questioni relative al funzionamento del c.d.f. ed anche in vista della riapertura delle lotte per il contratto si decise di indire nuove elezioni per il c.d.f.. Io entrai a far parte della commissione elettorale, incaricata di preparare delle nuove elezioni. Nel contempo la C.G.I.L. propose di ridurre il numero dei delegati di reparto, suscitando l'opposizione della C.I.S.L. (nella quale, alla Rizzoli, militanti gli esponenti del "Manifesto" e di altri gruppi).
GIANNI - Secondo te, quale significato può avere la richiesta avanzata dalla C.G.I.L. per la riduzione dei componenti del c.d.f.?
GIORGIO - Si tratta di una proposta di valore politico, anche se mascherata dalla giustificazione che - secondo loro - in pochi si lavora meglio.
GIANNI - Quindi attraverso la diminuzione del numero dei delegati si reparto si voleva arrivare ad un maggior controllo sull'attività sindacale all'interno dell'azienda.
GIORGIO - Sono d'accordo con te. Terminando l'esposizione della mia esperienza nel c.d.f. della Rizzoli, voglio ricordare che, una volta rieletto nel c.d.f., mi sono ritrovato davanti la medesima lista di candidati all'esecutivo preparata dai sindacati, così come la volta precedente.
Secondo i sindacati non si trattava di una scelta di fatto antidemocratica, così come avevo denunciato; dissero infatti che la loro lista si poteva considerare approvata nel caso che nessuno volesse autocandidarsi, poiché solo in quel caso si sarebbero rese necessarie le elezioni per l'esecutivo del c.d.f. A quel punto io presentai la mia candidatura, non perché volessi davvero entrare nell'esecutivo, ma per costringerli a fare comunque le elezioni. La loro risposta fu la messa ai voti da parte del c.d.f. dell'accettazione della mia candidatura, che, dato il contesto, fu evidentemente respinta; mi fu cioè impedito di presentare la mia candidatura e la lista sindacale fu approvata in blocco senza votazione. Fu allora che decisi di dimettermi dal c.d.f., comunicandone la decisione ai lavoratori mediante un volantino in cui spiegavo che non me la sentivo di cooperare con un organismo come quel consiglio di fabbrica della Rizzoli, nel quale venivano solo ratificate decisioni già prese in altre sedi. Alle ultime elezioni per il c.d.f. non ci siamo presentati né io né l'altro compagno anarchico cui ho accennato in precedenza.
PAOLO - Dopo le esposizioni dei compagni del Petrolchimico e dell'Allumetal di Marghera, della Michelin di Torino-Dora e della Rizzoli di Milano, prima di iniziare un po' di dibattito confrontando le varie esperienze, sarebbe utile che Gianni C., impiegato alla S.E.A. di Milano-Linate, ci facesse una breve relazione della sua attività.
GIANNI - Sono entrato nel 1970 a lavorare alla S.E.A., che è la società che gestisce gli aeroporti milanesi, nella sede di Linate. Fin dall'inizio ho fatto attività sindacale senza però iscrivermi ad alcun sindacato. Insieme con molti altri lavoratori ho fatto pressione perché anche alla S.E.A. fosse istituito un c.d.f., che difatti iniziò a funzionare nel '73. Ho partecipato al lavoro di stesura dello statuto dei delegati di reparto, cercando di renderlo il più libertario possibile. Va sottolineato che quando sono stato eletto dal mio reparto come delegato nel c.d.f. ero già conosciuto come anarchico, avendo già svolto attività specificatamente anarchica in precedenza (diffusione della stampa e di volantini, discussioni, ecc.). Dopo alcuni mesi di attività nel c.d.f., mesi caratterizzati da scontri e polemiche continui con i burocrati sindacali, ne uscii con una dichiarazione diffusa fra tutti i lavoratori (mediante un volantino firmato) e successivamente pubblicato dal settimanale anarchico Umanità Nova.
Credo che a questo punto della nostra tavola rotonda possa essere positivo che io vi legga qualche stralcio della mia dichiarazione di dimissioni, perché in essa ho cercato di concentrare il succo della mia esperienza e degli insegnamenti che ne ho fatto.
"E' bene precisare subito un fatto molto importante: non mi ero fatto nessuna illusione sulle concrete possibilità, per noi lavoratori, di inserimento in quello spazio che per poco si era aperto nella "piramide sindacale". Nonostante ciò, come anarchico, come rivoluzionario ho sentito il dovere di far si che, per lo meno in teoria attraverso lo statuto (che ho contribuito ad elaborare) fosse garantita ai lavoratori la possibilità di partecipare direttamente alla gestione della propria emancipazione. Questo non si è poi verificato nella realtà per due motivi fondamentali e concatenati fra di loro. Da una parte c'è il lavoratore che, dalla scomparsa del sindacalismo rivoluzionario e libertario, è abituato a delegare ai propri sindacalisti i propri interessi, vittima del senso di inferiorità e frustrazione (dono dell'ideologia e dell'educazione della società basata sullo sfruttamento); dall'altra c'è il sindacato che, consapevole dei limiti nel quale il lavoratore è costretto ad agire, a vivere, invece che aiutarlo ad emanciparsi, ad autogestire la propria vita, i propri interessi, gli chiede l'avvallo alla politica sindacale determinata dai vertici. (...) La conseguenza logica di tutto questo è che la politica sindacale non viene determinata e discussa dai lavoratori nelle assemblee di reparto (quasi inesistenti) di cui i delegati, portavoce della base, amalgamerebbero e sintetizzerebbero le istanze nel Consiglio d'Azienda, riportandone le proposte nelle assemblee per discuterle ed approvarle; ma, come è sempre avvenuto, è il sindacato che porta la sua linea all'interno del Consiglio d'Azienda attraverso i suoi uomini che, come ho detto, hanno la duplice funzione di membri del direttivo (sindacale) e di delegati di reparto. A questo punto è sempre più chiara la linea di tendenza che caratterizza la politica sindacale e il Consiglio d'Azienda, ridotto ad una branca, ad uno strumento burocratico periferico del sindacato, invece che essere uno strumento dei lavoratori. (...)".
In definitiva, almeno nell'azienda dove lavoro, la creazione del Consiglio d'Azienda è stata voluta dal sindacato con il preciso scopo di recuperare tutte quelle frange di lavoratori che si stavano allontanando dal sindacato e per accontentare quei pochi che chiedevano nuove strutture. Questo ha voluto denunciare la mia lettera di dimissioni, che ha suscitato grandissimo scalpore da parte dei sindacati. Si è giunti al punto di proporre la mia radiazione dal Consiglio d'Azienda prima che fossero discusse le mie dimissioni ma la proposta non è stata accettata ed invece sono state approvate "solo" ... le mie dimissioni.
PAOLO - Ora che ciascuno di voi cinque ha parlato della propria esperienza, credo sia giunto il momento di passare ad un bilancio complessivo delle esperienze fatte. Entriamo così nel vivo del problema che questa tavola rotonda vuole affrontare e cioè la validità o meno dei Consigli di Fabbrica oggi in Italia, lo spazio che al loro interno può trovare un lavoratore rivoluzionario senza scendere a compromessi con il riformismo, il rapporto fra l'esperienza dei c.d.f. e quella dell'assemblea autonoma (e, più in generale, della tematica dell'autonomia operaia), ecc. Senza avere la pretesa di dire una parola definitiva in proposito, è interessante conoscere l'opinione di chi come voi ha vissuto dall'interno i temi che sono in discussione.
GIANNI - A mio avviso bisogna tenere sempre presente il tentativo (purtroppo quasi ovunque riuscito) da parte dello stato e dei padroni di recuperare ed ingabbiare le spinte autonome che i lavoratori hanno espresso con particolare vigore a partire dal 1968-69. Questo tentativo si è infatti prodotto a tutti i livelli della vita sociale: alla creazione dei c.d.f. nelle aziende corrisponde, per esempio, il varo dei "decreti delegati" nella scuola. A questo ingabbiamento delle spinte autonome e libertarie il sindacato partecipa da protagonista, di fatto d'accordo con le altre istituzioni dello stato. Il problema del "che fare?" in questa situazione non è certo di facile soluzione. Credo che bisogni innanzitutto tenere ben presenti le differenze che intercorrono fra una situazione e l'altra. Vi sono delle aziende dove, per esempio, il c.d.f. può ancora offrire la possibilità di un utile lavoro fra la base, mentre altrove ciò è decisamente impossibile. Se è possibile restare a volte come delegati di reparto nei c.d.f., escluderei comunque sempre la validità di un'iscrizione al sindacato: se vogliamo (almeno in prospettiva) costruire qualcosa di autonomo, allora dobbiamo fare in modo che già da oggi i lavoratori ci identifichino come individui ben distinti dalle attuali strutture burocratiche sindacali. E' comunque sul posto di lavoro che si potrà verificare la possibilità di creare strutture alternative al sindacato (inizialmente, collettivi, comitati di lotta, ecc.): questa è anche la proposta pratica che intendo fare ai lavoratori del mio reparto che hanno espresso l'intenzione di rieleggermi come delegato di reparto nel c.d.f.
Credo che sarebbe più positivo riuscire a riunire i lavoratori che si sono mostrati più sensibili al nostro discorso e dibattere con loro (per ora solo nel reparto, dopo anche in tutta l'azienda) la via migliore da seguire al di fuori del sindacato.
MAURO - Concordo con quanto ha affermato Gianni sul recupero attuato dalle istituzioni (sindacati compresi) per stroncare le spinte autonome dei lavoratori, ma ci tengo a sottolineare che a mio avviso vi è molto spazio per un nuovo intervento in fabbrica, per aumentare la nostra credibilità, per essere autonomamente presenti nelle lotte di lavoratori. Alla "Michelin" noi abbiamo presentato delle proposte concrete per la ristrutturazione del c.d.f.: dopo la presentazione di queste nostre proposte ho notato che gli interventi da me fatti nel corso delle assemblee dei lavoratori sono seguiti con molta maggiore attenzione e certi sindacalisti ci pensano due volte prima di accusarmi di essere un "provocatore". A condizione che vengano costantemente ribaditi alcuni punti essenziali (rotazione dei delegati, limitazione precisa dei compiti dell'esecutivo del c.d.f. ecc.) la nostra presenza nei c.d.f. può essere decisamente positiva. L'importante è che nelle fabbriche il c.d.f. resti espressione diretta della volontà dei lavoratori, perché in caso contrario saranno le centrali sindacali a manovrarli dall'alto: l'autonomia del c.d.f. dalle burocrazie sindacali va verificata in pratica, non bastano le belle affermazioni di principio negli statuti, se poi questi restano lettera morta.
GIORGIO - La mia esperienza mi ha mostrato un pericolo: quello di essere strumentalizzato dal sindacato. Le difficoltà che a volte ho incontrato nell'esprimermi mi hanno reso a volte impossibile la partecipazione attiva al dibattito, che viene generalmente gestito da chi - come i burocrati sindacali - ha la parlantina facile. Mi è capitato a volte di trovarmi "utilizzato" da un sindacato nella sua polemica contro un altro (per esempio dalla C.G.I.L. contro la U.I.L.). E' quindi necessario che ai c.d.f. partecipino compagni preparati, capaci di ribattere sempre le affermazioni dei sindacalisti: altrimenti, come ho detto, si rischia di fornire solo una copertura al sindacato. Per quanto riguarda il problema dell'iscrizione o meno a un sindacato, concordo con quanto affermato da Gianni: io non sono iscritto a nessun sindacato e credo che l'esserlo sia un fatto negativo.
CORRADO - La nostra esperienza a Porto Marghera è certamente molto diversa da quella descritta dagli altri compagni qui presenti. Tanto per fare un esempio, è quasi impossibile pensare ad un recupero positivo del c.d.f. a livello di organizzazione di base. Non parliamo poi dell'esecutivo, che è praticamente parte integrante del sindacato.
L'alternativa che a mio avviso bisognerebbe cominciare a costruire si dovrebbe basare sui collegamenti diretti fra i vari reparti, al di fuori dell'attuale c.d.f. ed anzi con l'intento di scalzarlo.
MAURO - Se ho ben capito la vostra proposta sarebbe quella di ricostruire i c.d.f. che non abbiano le carenze degli attuali. E' questo insomma il succo della vostra esperienza nell'assemblea autonoma?
CORRADO - Un attimo. Bisogna distinguere fra quello che può essere un intervento (anche valido) in sede di c.d.f., dove tanto passerà comunque la linea del sindacato, e quella che è la nostra proposta di coordinamento di base fra i vari reparti assolutamente al di fuori ed in polemica con la politica e le strutture organizzative sindacali. La nostra proposta permette di non avvallare le scelte dell'esecutivo del c.d.f. (cioè del sindacato) e di cercare di organizzarsi autonomamente per portare avanti le nostre lotte, decise e discusse direttamente alla base.
GIANNI - Vorrei sottolineare un aspetto che non può essere trascurato e precisamente il fatto che spesso noi, singoli lavoratori anarchici in realtà diverse, siamo l'unico punto di riferimento per un certo tipo di discorso rivoluzionario, anti-burocratico, all'interno delle nostre aziende. Nel contempo non dobbiamo dimenticare che anche i burocrati sindacali hanno sempre ben chiaro davanti ai loro occhi il loro programma, il programma del loro sindacato; per cui se i nostri interventi nel c.d.f. non possono che suscitare, nella migliore delle ipotesi, un certo interesse e rispetto, alla fine sarà sempre la linea del sindacato a prevalere e la nostra ad essere accantonata. Questo non tanto perché (e qui replico a Giorgio) spesso noi non si sia in gradi di parlare bene come i burocrati sindacali, quanto perché questi ultimi esprimono una linea che è antitetica rispetto alla nostra. Anzi si può dire che ci muoviamo su due piani diversi, tra i quali non è possibile comunicare: noi puntiamo allo sviluppo della coscienza rivoluzionaria ed egualitaria fra i lavoratori, loro non pensano che a risolvere qualsiasi vertenza sedendosi allo stesso tavolino con i padroni. Oggi come oggi il sindacato fa lo stesso discorso che faceva prima della creazione dei c.d.f., la sua linea politica non è certo cambiata. Sotto molti aspetti il c.d.f. può rivelarsi una "trappola" contro la crescita in senso rivoluzionario della coscienza degli sfruttati.