Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 4 nr. 27
marzo 1974


Rivista Anarchica Online

La diversità riscoperta
di R. Brosio

Le minoranze etniche "nazioni proibite" rivendicano la loro identità - Contro la disuguaglianza, per la diversità - L'emergere di forze centrifughe negli stati e nei super-stati

Uno dei fenomeni più tipici, anche se per molti versi imprevisto, della nostra epoca, è rappresentato dal rifiorire in tutto il mondo industriale dei sentimenti nazionalistici, che sembravano ormai seppelliti nel patrimonio socio-culturale del secolo scorso.
In effetti questo nazionalismo moderno, o neo-nazionalismo, presenta caratteristiche sue proprie, affatto diverse da quelle di cent'anni fa, anche se ne riecheggia, per forza di cose, alcune manifestazioni. Non nasce tra gli Stati, ma dentro di essi, e prende l'aspetto più di una rivendicazione nazionale portata avanti da "minoranze oppresse" che non quello di una tendenza all'egemonia cioè del nazionalismo volgarmente inteso. In altri termini, mentre la distensione (o ciò che per essa viene fatto passare) sembra condurre gli Stati a scoprire fra sé sempre maggiori punti di contatto, all'interno di essi sorgono, con una frequenza che testimonia l'importanza del fenomeno, comunità sub-nazionali che improvvisamente scoprono, o riscoprono, le proprie differenze dal resto della popolazione, e con esse il desiderio di una autonomia che di tali differenze fa il proprio cardine. Gli Irlandesi dell'IRA si battono in quanto minoranza cattolica in un paese di tradizioni protestanti. I Canadesi del FLQ in quanto minoranza francofona in un paese di lingua e tradizioni prevalentemente britanniche. I baschi dell'ETA vedono nel separatismo l'unico mezzo perché il proprio patrimonio linguistico e culturale sia rispettato e mantenuto vivo. Nemmeno l'ordinato mondo dell'Est sembra immune da questa "infezione": i croati in Jugoslavia, i tartari, gli ukraini, i lituani nell'U.R.S.S....

Minoranze oppresse

Questi sono solo gli esempi più noti, gli aspetti più macroscopici della questione. Ma non sono i soli. Basterà ricordare ancora il caso del Sud Tirolo in Italia, o le mai sopite tendenze separatiste delle nostre isole; i movimenti che vanno sorgendo numerosi in Francia (Bretagna, Occitania, ecc.); l'orgoglio regionale della Scozia e del Galles in Inghilterra; le rivendicazioni dei pellerossa negli Stati Uniti e almeno una parte della rivolta negra. Il tutto concorre a dare la sensazione di un fenomeno che non è né marginale né limitato né destinato ad esaurirsi nel giro di qualche anno: in tutto il mondo c'è oggi qualcuno che si scopre "diverso" e lotta per restarlo.
Nonostante l'apparente eterogeneità delle motivazioni, dell'intensità conflittuale e della stessa consapevolezza dei movimenti neo-nazionalistici, essi hanno un aspetto comune fondamentale nella loro base etnica. Nella totalità dei casi precedentemente presi in esame la "minoranza oppressa" è una minoranza etnica e il nazionalismo la bandiera della propria presa di coscienza come tale, il sintomo di una identità riconquistata. L'effetto di ciò è, da una parte, la rivalutazione del proprio patrimonio culturale, del bagaglio di tradizioni, atteggiamenti, abitudini, ricorrenze, atti, che il gruppo etnico possiede, dall'altra, il rifiuto a riconoscersi in quello che di tale bagaglio non fa parte, e quindi la tendenza all'autonomia, al conflitto contro il potere centrale che questa autonomia non vuole ammettere. La asprezza della lotta può essere diversa, da caso a caso, variando dal terrorismo alla rivendicazione platonica, dall'azione illegale all'accettazione dei canali istituzionali di protesta. Ma la lotta c'è sempre: lo scoprirsi (o il riscoprirsi) come minoranza etnica porta inevitabilmente, a quanto sembra, a scoprire anche di essere oppressi, vilipesi, snaturati dall'autorità centrale, a riconoscere nello "Stato nazionale" l'antagonista della comunità sub-nazionale.

L'uniformità imposta

Tutto ciò può far sorridere l'osservatore superficiale, che trova "fuori moda", nel 1974, una questione posta in termini di nazionalità. Se mai, obietterà, c'è una classe che ne opprime un'altra, e con una nazionalità che toglie ad un'altra nazionalità il diritto all'esistenza. Ma la vastità del fenomeno è tale da non permettere giudizi affrettati, anche a rischio di rivedere una vera o supposta "ortodossia" teorica.
Perché, come si vedrà, le cose non sono così semplici.
In realtà, la tanto declamata omogeneità degli stati nazionali, la loro supposta differenza dagli imperi multinazionali di un secolo fa, è, ad un esame attento, una pura menzogna. All'interno di essi i gruppi etnici sono molto più numerosi di quanto si sia abituati a pensare, nell'Europa Occidentale come in quella Orientale e come, del resto, anche nelle Americhe e in tutto il mondo. La Francia, tanto per fare qualche esempio, è un mosaico di popoli: bretoni, baschi, corsi, alsaziani-lorenesi, fiamminghi, catalani, occitani. In Italia ci sono ben cinque regioni a statuto speciale (Sardegna, Sicilia, Val d'Aosta, Trentino e Friuli) istituite per prevenire rivendicazioni etniche fortemente separatiste, oltre a numerosissime altre minoranze misconosciute: albanesi, provenzani, grecanici, ecc. L'elenco potrebbe continuare a lungo. Nonostante questa varietà etnografica, ogni Stato si presenta come un tutt'uno, con un'unica lingua, un'unica cultura, un'unica storia. Ed è indubitabile che ciò sia vero, ma solo se si pensa ad una lingua, ad una cultura, ad una storia dominante. Il che significa che il processo di unificazione nazionale degli Stati moderni, o di separazione dagli imperi del secolo scorso, non è consistito solo nella "presa d'atto" di una situazione di uniformità totale, ma è avvenuto sacrificando alle esigenze sociali, politiche, culturali di un gruppo etnico dominante la miriade di raggruppamenti minori che compongono lo stato. Creando cioè una uniformità artificiale (imposta) là dove esisteva una differenziazione naturale. Si pensi all'unificazione forzata dell'Italia risorgimentale, o, sempre per restare in famiglia, ai simboli del genio italico piantati da Mussolini ai crocevia del Sud Tirolo. Si pensi a lingue come il friulano, o il sardo, relegate a livello di dialetti, si pensi al tentativo sistematico di sradicare ogni cultura regionale autonoma per sostituirla con quella "italiana".
Per diverso tempo, la tensione che, anche in epoche pacifiche, è esistita nei rapporti tra gli stati nazionali, ha, per così dire, facilitato l'opera di straniamento delle varie minoranze etniche, fornendone il pretesto ideologico e l'occasione per incanalare verso un nazionalismo più generale (più ampio) le frustrazioni derivanti dalla perdita della propria identità socio-culturale. In seguito, quando il sospetto e le gelosie internazionali si sono affievoliti, nel quadro di una maggiore collaborazione tra le classi dirigenti dei singoli stati, l'esigenza "dialettica" del nazionalismo, inteso come arma psicologica per difendere l'integrità delle frontiere, è venuta a mancare. Al contrario, gli stati hanno scoperto che è più utile mettere in evidenza le simiglianze, piuttosto che le diversità, di cultura e patrimonio ideale, cosa, questa, resa più facile dalla presunta omogeneità etnica di ciascuna nazione. E' a questo punto che sorge il neo-nazionalismo delle minoranze etniche, quasi che la scomparsa degli antagonismi delle grandi potenze all'interno dei blocchi, abbia consentito la liberazione delle energia sub-nazionali fino ad allora represse dallo "stato di necessità" della "patria in pericolo". Il nazionalismo moderno è, tutto sommato, figlio (o quanto meno nipote) di quello antico.
Questa è, a grandi linee, la genesi storica della rivendicazione etnica dei nostri giorni e, come tale, è fondamentalmente la medesima, con poche sfumature di differenza, in tutti i paesi. Si accennava all'inizio, ciononostante, alla grande varietà di motivazioni con cui, nelle diverse situazioni, tale rivendicazione ama presentarsi e giustificarsi. Esse, nella realtà, non sono altro che "vestiti", forme esteriori che ricoprono un problema sempre uguale, ma sarà bene prenderle in considerazione ugualmente, perché possono costituire un tramite per giungere al riconoscimento delle motivazioni reali. In altri termini, una volta chiarito come le rivendicazioni etniche sono nate, resta ora da vedere il perché.

Lingua come nazione

Di tutte le motivazioni che sembrano muovere i movimenti neo-nazionalisti, quello che più frequentemente si propone alla nostra attenzione è certamente la lingua. La lingua di un popolo non è solo un repertorio di segni convenzionali, uno strumento tecnico di comunicazione, ma una vera e propria "concezione del mondo": la maggior parte degli studiosi concorda nel ritenerla una sorta di indice sintetico della "etnia" della nazione, un condensato di tutto il patrimonio culturale di un gruppo. E' logico quindi che il problema linguistico sia particolarmente sentito dalle popolazioni minoritarie, tanto più quanto più differente da quella "ufficiale" è la propria lingua. In essa, la gente riconosce se stessa come gruppo etnico, mentre nell'impossibilità di usarla vede il simbolo del proprio straniamento, il diritto a vivere non in quanto a se stessi ma in quanto capaci di "mascherarsi da qualcun altro". A questo proposito, è quasi obbligatorio citare i baschi, ma è bene ricordare che esistono altre comunità minoritarie che sperimentano, giornalmente, una rinuncia alla propria identità più lacerante: è il caso degli italiani, dei turchi, dei greci che lavorano all'estero, costretti a diventare, in poco tempo, tedeschi o svizzeri, per essere accettati.
Accanto alla lingua, la religione rappresenta un'altra motivazione frequente nei conflitti etnici, e anch'essa funziona, in genere, da "indice sintetico" dell'etnia. La liturgia, le manifestazioni esteriori del culto, anche le più sciocche (vedasi la marea di santi, santini, madonne e simili che addobbano le case dei cattolici irlandesi, specie se simpatizzanti dell'IRA) non sono altro che la concretizzazione di una determinata religiosità, cioè, in ultima analisi, il riconoscimento di un certo atteggiamento mentale come tipico del gruppo. Proprio per questo, le minoranze etniche sono portate, spesso, ad essere particolarmente osservanti in materia di fede: anche il bigottismo può essere un mezzo per riacquistare la propria identità.
Questa tendenza a motivare la propria rivolta con elementi capaci di racchiudere in sé, sinteticamente, tutto un patrimonio socio-culturale, a rappresentarsi cioè privilegiando come fondamentale una delle numerose caratteristiche della comunità etnica, si ritrova anche nelle motivazioni minori, o subordinate, dei conflitti neo-nazionalisti. Ad esempio, anche quando si prende in considerazione la posizione socialmente inferiore di un certo gruppo, è sull'aspetto etnico della questione che si pone l'accento: lo sfruttamento non è un problema di per sé, ma solo nella misura in cui è tipico del gruppo, solo in quanto può diventare anch'esso un indice sintetico dell'etnia.

Le radici socio-economiche

Dicevamo poc'anzi che queste, comunque, non sono da ritenere le cause vere dei conflitti neo-nazionalisti. In effetti, il loro carattere sovrastrutturale (specie nel caso della religione) appare chiaro a chiunque voglia guardare le cose senza preconcetti. Pur senza negare l'importanza psicologica che l'uso della propria lingua può avere per gli individui, resta da spiegare perché queto venga impedito, perché cioè una comunità etnica sia costretta a subire una dominazione di un'altra, fino a perdere la propria identità. Si può notare, a questo proposito, come molte minoranze vivano in condizioni di sottosviluppo notevole, al confronto del resto del paese: oltre ai casi di vero e proprio sfruttamento economico, sono numerosi quelli, più semplicemente, di emarginazione, di segregazione, e di esclusione dai centri del potere decisionale.
Fin'ora abbiamo accettato di trattare il problema nei termini in cui lo pongono i gruppi neo-nazionalisti, ma non bisogna dimenticare l'aspetto socio-economico di esso, le sue radici nella situazione produttiva in cui si presenta. Il processo di omogeneizzazione forzata delle varie comunità etniche, avvenuto con la formazione degli stati nazionali, non è, tutto sommato, che uno degli aspetti dell'avvento al potere di una nuova classe di sfruttatori, in semplice sostituzione di vecchi sfruttatori di altra nazionalità, o al seguito dell'instaurazione parallela di un nuovo modo di sfruttamento. Una cultura imposta, cioè, perché nata da un nuovo sfruttamento imposto.
Sbaglierebbe però, chi volesse interpretare il problema solo da quest'unica angolazione. Se è vero che molte rivendicazioni etniche sono anche ribellioni di sfruttati contro i propri sfruttatori, questo non è vero sempre. La Catalogna, ad esempio, le cui tendenze separatiste sono note e vivissime da secoli, è forse la parte più ricca della Spagna, quella che gode dei maggiori privilegi economici connessi con l'elevato sviluppo industriale. La regione basca medesima, è ben lontana dall'essere la regione più arretrata di Spagna. Lo stesso dicasi della Croazia, precedentemente citata, che si trova anzi in posizione di predominio rispetto alle altre provincie da cui vuole staccarsi. Al contrario, si può notare come la rivendicazione sociale e la lotta contro lo sfruttamento siano spesso con effetto del separatismo etnico (cioè una sua evoluzione) e non una causa di esso. Tipico il caso della Catalogna, in cui l'odio radicato per il potere centrale ha permesso (e continua a permettere) un rigoglioso attecchimento delle idee libertarie e un rigoroso sviluppo dei conflitti sociali. Anche i patrioti baschi, pur agendo in nome del nazionalismo, sognano per il proprio paese un tipo di organizzazione che si dichiara socialista. E non dimentichiamo l'Ukraina, dove il separatismo ha contribuito a produrre il gigantesco sforzo della rivoluzione machnovista.

Contro il potere centrale

D'altra parte, sono anche frequenti i casi in cui la rivendicazione etnica prende aspetti decisamente reazionari, o comunque conservatori, strapaesani, di un provincialismo miope ed egoista: ne sono esempi la gestione militar-fascista della rivolta irlandese da parte dell'IRA, certi movimenti linguistici francesi, gli "ustascia" croati e, per alcuni versi, la ribellione "boia-chi-molla" per Reggio capoluogo. Eppure, anche in questi casi, che ad un'analisi prettamente politica non lasciano intravvedere nulla di veramente positivo, si nota la presenza di una carica umana non disprezzabile: il senso della comunità "fatta a misura d'uomo", dell'affratellamento che si nutre di rapporti diretti fra gli individui, della dignità di chi si sente (o vuole sentirsi) protagonista e non comprimario, padrone di sé e non marionetta. Forse qui è da ricercare la causa vera del rinascente problema delle minoranze etniche: nell'opposizione spontanea, inconciliabile, che esiste (ed esisterà) tra potere centrale e periferia senza potere, nella resistenza, quasi automatica, degli uomini che rifiutano di lasciarsi plasmare, senza poter intervenire, da un'autorità non riconosciuta. E' una forza centrifuga che spinge gli individui ad allontanarsi dal centro in cui si prendono le decisioni, con intensità sempre maggiore quanto più distante esso si trova: allontanarsi per sfuggire all'influenza di una autorità che è tanto più "nemica" quanto più è lontana.
In conclusione, da un punto di vista strettamente anarchico, le rivendicazioni etniche sono, in sé, un fenomeno né positivo né negativo. Sono positive quando riescono ad evolversi in direzioni egualitarie, perché possono formare una base per lotte ben più avanzate; sono negative quando, involvendosi invece che evolvendosi, prendono una colorazione reazionaria o comunque non libertaria. Sarà compito dei militanti anarchici impedire, ove possibile, quest'ultimo tipo di sviluppo e favorire invece il primo. Ma, al di là dei problemi immediati di strategia rivoluzionaria, esse portano alla ribalta una problematica sociologica che non può essere elusa da chi voglia vedere l'organizzazione sociale in termini diversi da quelli della semplice efficienza del potere.

Uguaglianza nella diversità

Con la riscoperta del proprio "diritto di essere diversi" le minoranze etniche testimoniano l'esigenza universale degli individui a trovare in se stessi le caratteristiche della propria identità, cioè a cercare liberamente la parte che ciascuno vuole e può recitare sulla scena del mondo. E' un problema che va al di là dell'etnia. Come gli imperi nazionali moderni spersonalizzano i popoli, la megalopoli, la fabbrica, così la delega di potere spersonalizza gli individui: ognuno svolge una funzione che non ha scelto, in un ambito di cui non vede i confini, accanto a uomini che non conosce. E come riscoprire la propria etnia significa riscoprire il gusto di vivere in un orizzonte più naturale, così anche nella megalopoli, anche nella fabbrica, si assiste alla nascita di sub-comunità, nelle quali l'individuo ritrova se stesso perché ritrova un contatto diretto con gli altri: sub-comunità religiose, culturali, sessuali, circoli e collettivi, cui si aderisce sperando di trovarvi quell'identità che l'ambiente interno disconosce.
Quest'esigenza alla propria identità, oltre che naturale, è sana e feconda. Si accorda e si intreccia con il desiderio di vivere in un ambiente che non ci sfugga, di essere cioè arbitri del proprio destino: prendere le decisioni e agire di conseguenza, non subire, non limitarsi ad eseguire. Un ambiente relativamente ristretto, quindi, popolato di persone conosciute o conoscibili, non da una folla anonima. Essere se stessi, infatti, vuol dire essere conosciuti e conoscere gli altri. E d'altronde, solo così si può dare una dimensione concreta all'uguaglianza, alla parità con gli altri, perché solo così l'uguaglianza diventa un'esperienza vissuta e non un atto di fede. Ma "conoscere" significa distinguere, notare le differenze, e dunque accettare la diversità come elemento fondamentale dell'esistenza: essere diverso non significa necessariamente essere "di più" o "di meno", ed essere uguali non significa essere uniformi.
Tale duplice esigenza all'uguaglianza e alla diversità, apparentemente incoerente eppure così logica nella sua spontaneità, è destinata ad essere costantemente delusa dall'organizzazione sociale gerarchica autoritaria. Nonostante, per motivi di efficienza, il sistema ami talvolta decentrarsi un poco, lasciando alla periferia qualche decisione, questo avviene sempre nel quadro di principi informatori stabiliti ai vertici della piramide: ai diretti, i direttori lasciano al massimo la libertà di attuare le scelte, mai di farle. E questo porta, a livello etnico come a livello individuale, l'obbligo di uniformarsi, di adeguarsi, di diventare quello che, in alto, si è stabilito.
Gli anarchici vedono nell'organizzazione federativa della società l'unico mezzo per sfuggire a questa trappola. Solo una federazione di gruppi sociali diversi (formati da individui che si associano liberamente, sulla base delle proprie esigenze liberamente espresse) una federazione di comunità, di regioni, di etnie, una vera federazione (non le false federazioni nominali degli stati e dei super-stati) potrà garantire, all'interno di ciascun gruppo, una convivenza egualitaria e naturale, e tra i gruppi, quel pluralismo di scelte (quella diversità) senza la quale non c'è né libertà, né equilibrio. In caso contrario, saremo sempre costretti ad assistere all'atroce uguaglianza di folle senza consapevolezza, all'atroce diversità di servi e di padroni.

R. Brosio.