Rivista Anarchica Online
La diversità riscoperta
di R. Brosio
Le minoranze etniche "nazioni proibite" rivendicano la loro identità - Contro la
disuguaglianza, per la diversità - L'emergere di forze centrifughe negli stati e nei
super-stati
Uno dei fenomeni più tipici, anche se per molti versi imprevisto,
della nostra epoca, è rappresentato dal rifiorire
in tutto il mondo industriale dei sentimenti nazionalistici, che sembravano ormai seppelliti nel patrimonio
socio-culturale del secolo scorso. In effetti questo nazionalismo moderno, o neo-nazionalismo,
presenta caratteristiche sue proprie, affatto diverse
da quelle di cent'anni fa, anche se ne riecheggia, per forza di cose, alcune manifestazioni. Non nasce
tra gli Stati,
ma dentro di essi, e prende l'aspetto più di una rivendicazione nazionale portata
avanti da "minoranze oppresse"
che non quello di una tendenza all'egemonia cioè del nazionalismo volgarmente inteso. In altri
termini, mentre
la distensione (o ciò che per essa viene fatto passare) sembra condurre gli Stati a scoprire fra
sé sempre maggiori
punti di contatto, all'interno di essi sorgono, con una frequenza che testimonia l'importanza del
fenomeno,
comunità sub-nazionali che improvvisamente scoprono, o riscoprono, le proprie differenze dal
resto della
popolazione, e con esse il desiderio di una autonomia che di tali differenze fa il proprio cardine. Gli
Irlandesi
dell'IRA si battono in quanto minoranza cattolica in un paese di tradizioni protestanti. I Canadesi del FLQ
in
quanto minoranza francofona in un paese di lingua e tradizioni prevalentemente britanniche. I baschi
dell'ETA
vedono nel separatismo l'unico mezzo perché il proprio patrimonio linguistico e culturale sia
rispettato e
mantenuto vivo. Nemmeno l'ordinato mondo dell'Est sembra immune da questa "infezione": i croati in
Jugoslavia,
i tartari, gli ukraini, i lituani nell'U.R.S.S....
Minoranze oppresse
Questi sono solo gli esempi più noti, gli aspetti più macroscopici della questione. Ma
non sono i soli. Basterà
ricordare ancora il caso del Sud Tirolo in Italia, o le mai sopite tendenze separatiste delle nostre isole;
i movimenti
che vanno sorgendo numerosi in Francia (Bretagna, Occitania, ecc.); l'orgoglio regionale della Scozia
e del Galles
in Inghilterra; le rivendicazioni dei pellerossa negli Stati Uniti e almeno una parte della rivolta negra. Il
tutto
concorre a dare la sensazione di un fenomeno che non è né marginale né limitato
né destinato ad esaurirsi nel giro
di qualche anno: in tutto il mondo c'è oggi qualcuno che si scopre "diverso" e lotta per
restarlo. Nonostante l'apparente eterogeneità delle motivazioni, dell'intensità
conflittuale e della stessa consapevolezza
dei movimenti neo-nazionalistici, essi hanno un aspetto comune fondamentale nella loro base etnica.
Nella
totalità dei casi precedentemente presi in esame la "minoranza oppressa" è una
minoranza etnica e il nazionalismo
la bandiera della propria presa di coscienza come tale, il sintomo di una identità riconquistata.
L'effetto di ciò
è, da una parte, la rivalutazione del proprio patrimonio culturale, del bagaglio di tradizioni,
atteggiamenti,
abitudini, ricorrenze, atti, che il gruppo etnico possiede, dall'altra, il rifiuto a riconoscersi in quello che
di tale
bagaglio non fa parte, e quindi la tendenza all'autonomia, al conflitto contro il potere centrale che questa
autonomia non vuole ammettere. La asprezza della lotta può essere diversa, da caso a caso,
variando dal
terrorismo alla rivendicazione platonica, dall'azione illegale all'accettazione dei canali istituzionali di
protesta.
Ma la lotta c'è sempre: lo scoprirsi (o il riscoprirsi) come minoranza etnica porta inevitabilmente,
a quanto
sembra, a scoprire anche di essere oppressi, vilipesi, snaturati dall'autorità centrale, a riconoscere
nello "Stato
nazionale" l'antagonista della comunità sub-nazionale.
L'uniformità imposta
Tutto ciò può far sorridere l'osservatore superficiale, che trova "fuori moda", nel
1974, una questione posta in
termini di nazionalità. Se mai, obietterà, c'è una classe che ne opprime un'altra,
e con una nazionalità che toglie
ad un'altra nazionalità il diritto all'esistenza. Ma la vastità del fenomeno è tale
da non permettere giudizi
affrettati, anche a rischio di rivedere una vera o supposta "ortodossia" teorica. Perché, come
si vedrà, le cose non sono così semplici. In realtà, la tanto declamata
omogeneità degli stati nazionali, la loro supposta differenza dagli imperi
multinazionali di un secolo fa, è, ad un esame attento, una pura menzogna. All'interno di essi i
gruppi etnici sono
molto più numerosi di quanto si sia abituati a pensare, nell'Europa Occidentale come in quella
Orientale e come,
del resto, anche nelle Americhe e in tutto il mondo. La Francia, tanto per fare qualche esempio, è
un mosaico di
popoli: bretoni, baschi, corsi, alsaziani-lorenesi, fiamminghi, catalani, occitani. In Italia ci sono ben
cinque regioni
a statuto speciale (Sardegna, Sicilia, Val d'Aosta, Trentino e Friuli) istituite per prevenire rivendicazioni
etniche
fortemente separatiste, oltre a numerosissime altre minoranze misconosciute: albanesi, provenzani,
grecanici, ecc.
L'elenco potrebbe continuare a lungo. Nonostante questa varietà etnografica, ogni Stato si
presenta come un
tutt'uno, con un'unica lingua, un'unica cultura, un'unica storia. Ed è indubitabile che ciò
sia vero, ma solo se
si pensa ad una lingua, ad una cultura, ad una storia dominante. Il che significa che il
processo di unificazione
nazionale degli Stati moderni, o di separazione dagli imperi del secolo scorso, non è consistito
solo nella "presa
d'atto" di una situazione di uniformità totale, ma è avvenuto sacrificando alle esigenze
sociali, politiche, culturali
di un gruppo etnico dominante la miriade di raggruppamenti minori che compongono lo stato. Creando
cioè una
uniformità artificiale (imposta) là dove esisteva una differenziazione naturale. Si pensi
all'unificazione forzata
dell'Italia risorgimentale, o, sempre per restare in famiglia, ai simboli del genio italico piantati da
Mussolini ai
crocevia del Sud Tirolo. Si pensi a lingue come il friulano, o il sardo, relegate a livello di
dialetti, si pensi al
tentativo sistematico di sradicare ogni cultura regionale autonoma per sostituirla con quella
"italiana". Per diverso tempo, la tensione che, anche in epoche pacifiche, è esistita nei
rapporti tra gli stati nazionali, ha, per
così dire, facilitato l'opera di straniamento delle varie minoranze etniche, fornendone il pretesto
ideologico e
l'occasione per incanalare verso un nazionalismo più generale (più ampio) le frustrazioni
derivanti dalla perdita
della propria identità socio-culturale. In seguito, quando il sospetto e le gelosie internazionali si
sono affievoliti,
nel quadro di una maggiore collaborazione tra le classi dirigenti dei singoli stati, l'esigenza "dialettica" del
nazionalismo, inteso come arma psicologica per difendere l'integrità delle frontiere, è
venuta a mancare. Al
contrario, gli stati hanno scoperto che è più utile mettere in evidenza le simiglianze,
piuttosto che le diversità, di
cultura e patrimonio ideale, cosa, questa, resa più facile dalla presunta omogeneità etnica
di ciascuna nazione.
E' a questo punto che sorge il neo-nazionalismo delle minoranze etniche, quasi che la scomparsa degli
antagonismi delle grandi potenze all'interno dei blocchi, abbia consentito la liberazione delle energia
sub-nazionali fino ad allora represse dallo "stato di necessità" della "patria in pericolo". Il
nazionalismo moderno è,
tutto sommato, figlio (o quanto meno nipote) di quello antico. Questa è, a grandi linee, la
genesi storica della rivendicazione etnica dei nostri giorni e, come tale, è
fondamentalmente la medesima, con poche sfumature di differenza, in tutti i paesi. Si accennava
all'inizio,
ciononostante, alla grande varietà di motivazioni con cui, nelle diverse situazioni, tale
rivendicazione ama
presentarsi e giustificarsi. Esse, nella realtà, non sono altro che "vestiti", forme esteriori che
ricoprono un
problema sempre uguale, ma sarà bene prenderle in considerazione ugualmente, perché
possono costituire un
tramite per giungere al riconoscimento delle motivazioni reali. In altri termini, una volta chiarito
come le
rivendicazioni etniche sono nate, resta ora da vedere il perché.
Lingua come nazione
Di tutte le motivazioni che sembrano muovere i movimenti neo-nazionalisti, quello che più
frequentemente si
propone alla nostra attenzione è certamente la lingua. La lingua di un popolo non è solo
un repertorio di segni
convenzionali, uno strumento tecnico di comunicazione, ma una vera e propria "concezione del mondo":
la
maggior parte degli studiosi concorda nel ritenerla una sorta di indice sintetico della "etnia" della nazione,
un
condensato di tutto il patrimonio culturale di un gruppo. E' logico quindi che il problema linguistico sia
particolarmente sentito dalle popolazioni minoritarie, tanto più quanto più differente da
quella "ufficiale" è la
propria lingua. In essa, la gente riconosce se stessa come gruppo etnico, mentre nell'impossibilità
di usarla vede
il simbolo del proprio straniamento, il diritto a vivere non in quanto a se stessi ma in quanto capaci di
"mascherarsi da qualcun altro". A questo proposito, è quasi obbligatorio citare i baschi, ma
è bene ricordare che
esistono altre comunità minoritarie che sperimentano, giornalmente, una rinuncia alla propria
identità più
lacerante: è il caso degli italiani, dei turchi, dei greci che lavorano all'estero, costretti a diventare,
in poco tempo,
tedeschi o svizzeri, per essere accettati. Accanto alla lingua, la religione rappresenta un'altra
motivazione frequente nei conflitti etnici, e anch'essa
funziona, in genere, da "indice sintetico" dell'etnia. La liturgia, le manifestazioni esteriori del culto, anche
le più
sciocche (vedasi la marea di santi, santini, madonne e simili che addobbano le case dei cattolici irlandesi,
specie
se simpatizzanti dell'IRA) non sono altro che la concretizzazione di una determinata religiosità,
cioè, in ultima
analisi, il riconoscimento di un certo atteggiamento mentale come tipico del gruppo. Proprio per questo,
le
minoranze etniche sono portate, spesso, ad essere particolarmente osservanti in materia di fede: anche
il
bigottismo può essere un mezzo per riacquistare la propria identità. Questa tendenza
a motivare la propria rivolta con elementi capaci di racchiudere in sé, sinteticamente, tutto un
patrimonio socio-culturale, a rappresentarsi cioè privilegiando come fondamentale
una delle numerose
caratteristiche della comunità etnica, si ritrova anche nelle motivazioni minori, o subordinate, dei
conflitti neo-nazionalisti. Ad esempio, anche quando si prende in considerazione la posizione socialmente
inferiore di un certo
gruppo, è sull'aspetto etnico della questione che si pone l'accento: lo sfruttamento non è
un problema di per sé,
ma solo nella misura in cui è tipico del gruppo, solo in quanto può diventare anch'esso
un indice sintetico
dell'etnia.
Le radici socio-economiche
Dicevamo poc'anzi che queste, comunque, non sono da ritenere le cause vere dei
conflitti neo-nazionalisti. In
effetti, il loro carattere sovrastrutturale (specie nel caso della religione) appare chiaro a chiunque voglia
guardare
le cose senza preconcetti. Pur senza negare l'importanza psicologica che l'uso della propria lingua
può avere per
gli individui, resta da spiegare perché queto venga impedito, perché cioè una
comunità etnica sia costretta a subire
una dominazione di un'altra, fino a perdere la propria identità. Si può notare, a questo
proposito, come molte
minoranze vivano in condizioni di sottosviluppo notevole, al confronto del resto del paese: oltre ai casi
di vero
e proprio sfruttamento economico, sono numerosi quelli, più semplicemente, di emarginazione,
di segregazione,
e di esclusione dai centri del potere decisionale. Fin'ora abbiamo accettato di trattare il problema nei
termini in cui lo pongono i gruppi neo-nazionalisti, ma non
bisogna dimenticare l'aspetto socio-economico di esso, le sue radici nella situazione produttiva in cui si
presenta.
Il processo di omogeneizzazione forzata delle varie comunità etniche, avvenuto con la
formazione degli stati
nazionali, non è, tutto sommato, che uno degli aspetti dell'avvento al potere di una nuova classe
di sfruttatori,
in semplice sostituzione di vecchi sfruttatori di altra nazionalità, o al seguito dell'instaurazione
parallela di un
nuovo modo di sfruttamento. Una cultura imposta, cioè, perché nata da un nuovo
sfruttamento imposto. Sbaglierebbe però, chi volesse interpretare il problema solo da
quest'unica angolazione. Se è vero che molte
rivendicazioni etniche sono anche ribellioni di sfruttati contro i propri sfruttatori, questo
non è vero sempre. La
Catalogna, ad esempio, le cui tendenze separatiste sono note e vivissime da secoli, è forse la parte
più ricca della
Spagna, quella che gode dei maggiori privilegi economici connessi con l'elevato sviluppo industriale. La
regione
basca medesima, è ben lontana dall'essere la regione più arretrata di Spagna. Lo stesso
dicasi della Croazia,
precedentemente citata, che si trova anzi in posizione di predominio rispetto alle altre provincie da cui
vuole
staccarsi. Al contrario, si può notare come la rivendicazione sociale e la lotta contro lo
sfruttamento siano spesso
con effetto del separatismo etnico (cioè una sua evoluzione) e non una causa di
esso. Tipico il caso della
Catalogna, in cui l'odio radicato per il potere centrale ha permesso (e continua a permettere) un rigoglioso
attecchimento delle idee libertarie e un rigoroso sviluppo dei conflitti sociali. Anche i patrioti baschi, pur
agendo
in nome del nazionalismo, sognano per il proprio paese un tipo di organizzazione che si dichiara
socialista. E non
dimentichiamo l'Ukraina, dove il separatismo ha contribuito a produrre il gigantesco sforzo della
rivoluzione
machnovista.
Contro il potere centrale
D'altra parte, sono anche frequenti i casi in cui la rivendicazione etnica prende aspetti decisamente
reazionari,
o comunque conservatori, strapaesani, di un provincialismo miope ed egoista: ne sono esempi la gestione
militar-fascista della rivolta irlandese da parte dell'IRA, certi movimenti linguistici francesi, gli "ustascia"
croati e, per
alcuni versi, la ribellione "boia-chi-molla" per Reggio capoluogo. Eppure, anche in questi casi, che ad
un'analisi
prettamente politica non lasciano intravvedere nulla di veramente positivo, si nota la presenza di una
carica umana
non disprezzabile: il senso della comunità "fatta a misura d'uomo", dell'affratellamento che si
nutre di rapporti
diretti fra gli individui, della dignità di chi si sente (o vuole sentirsi) protagonista e non
comprimario, padrone di
sé e non marionetta. Forse qui è da ricercare la causa vera del rinascente problema delle
minoranze etniche:
nell'opposizione spontanea, inconciliabile, che esiste (ed esisterà) tra potere centrale e periferia
senza potere,
nella resistenza, quasi automatica, degli uomini che rifiutano di lasciarsi plasmare, senza poter intervenire,
da
un'autorità non riconosciuta. E' una forza centrifuga che spinge gli individui ad
allontanarsi dal centro in cui
si prendono le decisioni, con intensità sempre maggiore quanto più distante esso si trova:
allontanarsi per sfuggire
all'influenza di una autorità che è tanto più "nemica" quanto più
è lontana. In conclusione, da un punto di vista strettamente anarchico, le rivendicazioni
etniche sono, in sé, un fenomeno
né positivo né negativo. Sono positive quando riescono ad evolversi in direzioni
egualitarie, perché possono
formare una base per lotte ben più avanzate; sono negative quando, involvendosi invece che
evolvendosi,
prendono una colorazione reazionaria o comunque non libertaria. Sarà compito dei militanti
anarchici impedire,
ove possibile, quest'ultimo tipo di sviluppo e favorire invece il primo. Ma, al di là dei problemi
immediati di
strategia rivoluzionaria, esse portano alla ribalta una problematica sociologica che non può essere
elusa da chi
voglia vedere l'organizzazione sociale in termini diversi da quelli della semplice efficienza del potere.
Uguaglianza nella diversità
Con la riscoperta del proprio "diritto di essere diversi" le minoranze etniche testimoniano l'esigenza
universale
degli individui a trovare in se stessi le caratteristiche della propria identità, cioè a cercare
liberamente la parte
che ciascuno vuole e può recitare sulla scena del mondo. E' un problema che va al di là
dell'etnia. Come gli
imperi nazionali moderni spersonalizzano i popoli, la megalopoli, la fabbrica, così la delega di
potere
spersonalizza gli individui: ognuno svolge una funzione che non ha scelto, in un ambito di cui non vede
i confini,
accanto a uomini che non conosce. E come riscoprire la propria etnia significa riscoprire il gusto di vivere
in un
orizzonte più naturale, così anche nella megalopoli, anche nella fabbrica, si assiste alla
nascita di sub-comunità,
nelle quali l'individuo ritrova se stesso perché ritrova un contatto diretto con gli altri:
sub-comunità religiose,
culturali, sessuali, circoli e collettivi, cui si aderisce sperando di trovarvi quell'identità che
l'ambiente interno
disconosce. Quest'esigenza alla propria identità, oltre che naturale, è sana e feconda.
Si accorda e si intreccia con il desiderio
di vivere in un ambiente che non ci sfugga, di essere cioè arbitri del proprio destino: prendere
le decisioni e agire
di conseguenza, non subire, non limitarsi ad eseguire. Un ambiente relativamente ristretto,
quindi, popolato di
persone conosciute o conoscibili, non da una folla anonima. Essere se stessi, infatti, vuol dire essere
conosciuti
e conoscere gli altri. E d'altronde, solo così si può dare una dimensione concreta
all'uguaglianza, alla parità con
gli altri, perché solo così l'uguaglianza diventa un'esperienza vissuta e non un atto di fede.
Ma "conoscere"
significa distinguere, notare le differenze, e dunque accettare la diversità come
elemento fondamentale
dell'esistenza: essere diverso non significa necessariamente essere "di più" o "di meno", ed essere
uguali non
significa essere uniformi. Tale duplice esigenza all'uguaglianza e alla diversità,
apparentemente incoerente eppure così logica nella sua
spontaneità, è destinata ad essere costantemente delusa dall'organizzazione sociale
gerarchica autoritaria.
Nonostante, per motivi di efficienza, il sistema ami talvolta decentrarsi un poco, lasciando alla periferia
qualche
decisione, questo avviene sempre nel quadro di principi informatori stabiliti ai vertici della piramide: ai
diretti,
i direttori lasciano al massimo la libertà di attuare le scelte, mai di farle. E questo porta, a livello
etnico come a
livello individuale, l'obbligo di uniformarsi, di adeguarsi, di diventare quello che, in alto, si è
stabilito. Gli anarchici vedono nell'organizzazione federativa della società l'unico mezzo per
sfuggire a questa trappola.
Solo una federazione di gruppi sociali diversi (formati da individui che si associano liberamente, sulla
base delle
proprie esigenze liberamente espresse) una federazione di comunità, di regioni, di etnie, una vera
federazione
(non le false federazioni nominali degli stati e dei super-stati) potrà garantire, all'interno di
ciascun gruppo, una
convivenza egualitaria e naturale, e tra i gruppi, quel pluralismo di scelte (quella
diversità) senza la quale non
c'è né libertà, né equilibrio. In caso contrario, saremo sempre costretti
ad assistere all'atroce uguaglianza di folle
senza consapevolezza, all'atroce diversità di servi e di padroni.
R. Brosio.
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