Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 3 nr. 24
ottobre 1973


Rivista Anarchica Online

Prigioniero di Franco
di R. Brosio

Il vecchio autobus sferragliava per le strade di Barcellona, seguendo il suo abituale percorso. Al piano superiore, Miguel Garcia cercava di dissimulare l'ansia che lo attanagliava. Poco prima, a casa del compagno José Corral Martin, era riuscito per un pelo ad evitare di essere arrestato. L'abitazione era piena di poliziotti, ma l'espressione sconvolta del suo amico l'aveva messo in guardia. Era fuggito senza entrare, prima che potessero agguantarlo. Ora si domandava cosa fosse successo e non sapeva che fare.
Improvvisamente, davanti alla Prefettura di Polizia, l'autobus si fermò. Garcia allungò il collo per guardare dal finestrino, ma qualcuno dietro di lui disse secco: "Non muoverti o sei morto!". Una pistola gli premeva la nuca. Vide i passeggeri rattrappirsi spaventati sui sedili, mentre quattro agenti in borghese lo circondavano con le armi spianate. Cinque minuti dopo, le porte della Prefettura si chiudevano alle sue spalle.
Era il 21 ottobre 1949, e scene come quella si stavano ripetendo a decine, con poche varianti, in tutta la città. Un giovane militante, arrestato quasi per caso, non era riuscito a sopportare le torture e aveva parlato. Dalle sue informazioni, la polizia politica era riuscita a ricostruire buona parte della rete organizzativa della Resistenza libertaria al franchismo. Ora, stava procedendo con spietata efficienza al suo smantellamento. Vennero operati più di duecento fermi di cui cinquantatre tramutati poi in arresto. Dieci anarchici furono uccisi in scontri a fuoco, alcuni assassinati freddamente dopo la cattura. Undici, che erano riusciti a non farsi prendere, vennero catturati il giorno dopo. Pochissimi si salvarono, e dovettero attendere parecchio tempo, prima di poter riprendere la lotta.
Incatenato ad un termosifone, dentro la Prefettura, Miguel Garcia assistette impotente ai vari atti della tragedia, mentre aspettava, semi-dimenticato nella confusione, il suo turno per l'interrogatorio. Vide tutti i compagni più cari trascinati in cella, udì le loro grida sotto la tortura, ascoltò l'oscena soddisfazione degli sbirri che si congratulavano reciprocamente per le uccisioni.

torture e massacri

Il movimento della Resistenza, di cui quel giorno tremendo sembrava segnare la morte definitiva, era sorto quasi spontaneamente dopo la disfatta, come logica continuazione dello spirito rivoluzionario della guerra civile, e come risposta ai massacri con cui il nuovo regime stava travolgendo la Spagna per stabilizzarsi al potere. Garcia ne fu uno dei primissimi animatori, insieme ad altri personaggi che sarebbero poi divenuti leggendari: i fratelli Sabater, Luis Facerias, Josè Culebra, eccetera.
All'inizio, non fu cosa facile. Il Movimento Anarchico era uscito dissanguato dalla guerra e non aveva certo la forza di iniziare subito la lotta clandestina contro Franco e i suoi accoliti. Garcia, come quasi tutti i militanti libertari che ebbero la fortuna di non venire subito passati per le armi, finì in prigione, reo di aver partecipato attivamente alla difesa di Madrid. Il luogo era veramente allucinante, un ex-magazzino di 250 metri quadrati, in cui si stipavano, in condizioni igieniche spaventose, quasi 500 prigionieri, mal nutriti e trattati come animali. Qui Garcia passò ventidue mesi.
Una volta libero, di nuovo nella sua Barcellona, fu contattato da "El Pepè", il maggiore dei fratelli Sabater, e iniziò con lui a lavorare per la riorganizzazione del movimento. Si era nel 1941, e nonostante le condizioni durissime in cui dovevano operare, per le poche forze disponibili e la morsa di ferro del regime, gli anarchici guardavano al futuro con un certo ottimismo. Era opinione di molti, infatti, che i falangisti avrebbero trascinato il paese nella guerra mondiale, a fianco dei loro cugini italiani e tedeschi, e che, di conseguenza, sarebbero stati travolti nel medesimo, prevedibile, disastro. Questo lasciava sperare in una nuova occasione rivoluzionaria, a scadenza sufficientemente ravvicinata.
Per motivi ovviamente diversi, anche le "democrazie antifasciste" avevano tutto da guadagnare dalla caduta di Franco e vedevano quindi con cinico favore lo svilupparsi di un movimento antifranchista. Ciò spinse l'Intelligence Service britannico a offrire denaro agli anarchici che, come Garcia, si davano da fare per la continuazione clandestina della lotta. L'offerta non venne accolta col medesimo entusiasmo da tutti i militanti, ché molti (a ragione) vi vedevano il pericolo di venire strumentalizzati per fini che nulla avevano a che fare con l'emancipazione dallo sfruttamento. D'altro canto essa poteva significare una ripresa quasi immediata della lotta libertaria e, nelle condizioni del momento, non era forse il caso di guardare troppo per il sottile. Sta di fatto che i primi gruppi guerriglieri, operanti nei Pirenei, furono organizzati anche grazie all'aiuto britannico.
Al di là delle polemiche tattico-dottrinarie, i contatti con l'Intelligence Service ebbero per Garcia un effetto importante: gli diedero un mestiere, seppur illegale e pericoloso. Un agente inglese, infatti, gli insegnò l'arte della falsificazione, trovando un allievo attento, abile e interessato, tanto da superare, in breve tempo, lo stesso maestro. Garcia diventò così il falsificatore ufficiale (o quasi) del movimento anarchico: suoi ferri del mestiere non furono più la dinamite o il mitra, ma inchiostri, acidi, torchi da stampa. Con essi, in quasi dieci anni di attività clandestina, inondò il paese di una serie interminabile di licenze, ordini, visti, perdoni, carte d'identità, eccetera, secondo un piano preciso di lavoro, che aveva per scopo non solo l'uso strumentale dei documenti falsificati, ma anche la svalutazione degli originali e l'indebolimento quindi delle strutture "legali" del nuovo regime.
Questa feconda attività "editoriale" venne bruscamente interrotta, come si disse all'inizio, dal grande porgrom del 21 ottobre 1949. Con esso Miguel Garcia sparì dal cospetto del consesso umano, per diventare un prigioniero politico inghiottito dal sistema carcerario spagnolo. E nella concezione di tale sistema, "i prigionieri politici non stanno in galera per essere redenti, ma per essere spezzati". L'esperienza sarebbe durata vent'anni.

condannato a morte

Dapprima, le prospettive erano sembrate, se possibile, ancora peggiori. Quando, dopo due anni e mezzo di istruttoria, arrivò finalmente il giorno del processo, il tribunale comminò nove condanne a morte mediante fucilazione, per aver preparato e fomentato la ribellione armata contro il governo. Garcia era uno dei nove. Con i suoi compagni di idea e di sventura, venne rinchiuso nel braccio della morte. Vi restò ventotto giorni, ventotto giorni di attesa logorante ognuno vissuto come l'ultimo della sua vita. La legge spagnola non prevede che la sentenza fissi anche la data dell'esecuzione, e ogni momento, quindi, poteva essere quello buono per l'ultimo viaggio. Alla fine, il 13 marzo 1952, giunse la notizia che, insieme ad altri tre, la pena gli era stata commutata in 30 anni di galera. I restanti cinque furono portati al plotone di esecuzione quella notte stessa. Gli scampati udirono, dalle loro celle, i passi dei guardiani che prelevavano i condannati, udirono i loro nomi scanditi con agghiacciante formalismo dal direttore del carcere, udirono il grido degli uomini che andavano a morire: "Viva la F.A.I.! Viva la Resistenza!". Pochi giorni dopo iniziarono i trasferimenti dei prigionieri, ognuno verso la prigione dove avrebbero dovuto scontare la pena che aveva loro salvato la vita. Garcia fu destinato a Valencia, nella prigione di S. Miguel de los Reyes. Ma non aveva alcuna intenzione di arrivarvi. Il lungo viaggio in treno si preannunciava come un'ottima occasione per tentare la fuga, unica alternativa alla lunga detenzione che lo aspettava. Con uno stratagemma, poco prima di partire, riuscì a far avvisare un compagno di Tarragona, fabbro di professione, che avrebbe dovuto fabbricare una chiave capace di aprire la serratura delle manette. L'idea era di ricevere la chiave appunto a Tarragona, dove il treno avrebbe fatto una lunga sosta, liberarsi e scappare via in qualche modo. I prigionieri, a quel tempo, non viaggiavano su convogli speciali, ma su treni di linea, insieme, se pur sotto scorta, ai normali passeggeri, quasi che il regime volesse di proposito offrire lo spettacolo degli uomini incatenati agli spagnoli, per ricordare loro di essere stati vinti e conquistati. Questo, nel caso specifico, favoriva la possibilità di una fuga. Le cose andarono come previsto, facilitate dal fatto che gli sbirri di scorta si erano addormentati profondamente. Già Garcia, ricevuta la chiave, stava aprendosi le manette, quando il prigioniero che gli stava accanto lo afferrò per un braccio, spaventato, dicendo "No, no, non farlo!". Garcia cercò di continuare la sua opera, ma il piccolo trambusto svegliò uno dei poliziotti, che chiese cosa stesse succedendo. "Mi fan male le manette!" disse Miguel, nascondendo la chiave. Lo sbirro si considerò soddisfatto della risposta, ma ormai era sveglio. L'occasione era andata in fumo.
Questo non fu l'unico tentativo di fuga di Garcia. Per tutto il periodo in cui restò seppellito nelle galere spagnole, egli non volle mai rassegnarsi alla sua condizione, non smise mai di lottare. Si considerava una sorta di prigioniero di guerra, catturato dal nemico in una operazione sfortunata. E il dovere di un prigioniero di guerra è, come si sa, di scappare. La cosa appare tanto più valida, tanto più degna d'ammirazione se si pensa che, ad ogni insuccesso, le punizioni fioccavano senza pietà, in una spirale continua di repressione. Cella di isolamento subito, condita da una razione di maltrattamenti, dispetti e privazioni superiore al consueto. Poi l'istruttoria inquisitrice, il processo e, come conseguenza, gli aggravi di pena. E ancora, trasferimenti a carceri più duri, dove arrivava seguito dalla sua fama di ribelle incorreggibile, e trovava ad attenderlo il rinnovato impegno delle autorità per "piegarlo".

l'ammutinamento

Miguel Garcia restò a S. Miguel de los Reyes fino al 1959. Durante questo periodo si prese altri 10 anni di prigione, da scontare al termine dei 30, per aver ricevuto una pistola nel carcere, celata nel doppio fondo di una valigia di indumenti speditagli da fuori. La durezza della condanna sta ad indicare l'impressione che fece l'episodio, che gli valse reputazione e rispetto da parte dei compagni di pena. Inoltre fu condannato a 5 mesi e 10 giorni per aver partecipato ad una rivolta di detenuti. Quest'ultima era nata per motivi futili, anche se comprensibili: i prigionieri erano stufi della ossessionante propaganda religiosa che veniva loro ammannita attraverso le proiezioni cinematografiche, che, oltre a tutto, pagavano di tasca propria con i magri guadagni dei lavori che svolgevano in carcere. Chiedevano belle donne e cow-boys, invece che le edificanti storie di preti e suore del peggior cinema spagnolo. Una prima protesta venne repressa con la consueta "delicatezza", col risultato di accendere ancor di più gli animi. Tutte le angherie, le vessazioni, i taglieggiamenti cui i detenuti erano sottoposti dai sorveglianti violenti, dagli amministratori disonesti, si incanalavano in quelle richieste banali, ed esplosero in un furibondo quanto spontaneo scontro con le guardie accorse per sedare la sommossa. Lo stesso direttore della prigione rischiò di essere bastonato energicamente, mentre gli sbirri, colti di sorpresa, si ritiravano. La calma ritornò dopo che il direttore ebbe dato assicurazione del suo interessamento a Garcia (che fungeva da rappresentante degli ammutinati), riconoscendo la validità delle richieste, e promettendo che non ci sarebbero state punizioni. Al processo che, nonostante ciò, si tenne qualche tempo più tardi, Garcia colse l'occasione per denunciare la massa di irregolarità, contro gli stessi codici franchisti, che accadevano a S. Miguel de los Reyes, e per dimostrare che esse erano il vero motivo della rivolta. Forse per questo, le condanne furono relativamente miti.
Per punizione, comunque, Garcia venne trasferito a Teruel, dove le condizioni di vita erano pessime, e di lì, poco dopo, ad Alicante. Lì restò fino al 1966, anno in cui dovette nuovamente mettersi in viaggio, manette ai polsi e sbirri a fianco, per raggiungere il carcere di Soria. Era l'ultima pensata del governo spagnolo, che aveva deciso di concentrare tutti i prigionieri politici in un unico luogo, per tenerli maggiormente sotto controllo e, soprattutto, per segregarli dal contatto con i delinquenti comuni. La presenza dei "politici" in tutte le galere iberiche, infatti, era la testimonianza vivente della repressione su cui il regime basava la sua sopravvivenza, e Franco cominciava ormai a desiderare di presentarsi al mondo con una faccia più tollerante e meno autoritaria. Inoltre, la tenacia e il coraggio dei politici si erano rivelati un pericoloso veicolo di infezione ideologica per gli altri detenuti, che imparavano a conoscere, da loro, quelle idee rivoluzionarie che il dittatore sperava di sradicare completamente dalla testa degli spagnoli.

Stuart Christie

Nel viaggio di trasferimento Garcia si ammalò. Era vecchio, ormai segnato profondamente dai guasti che la vita di prigione aveva prodotto nel suo fisico. Dovette sostare per qualche tempo nell'infermeria del carcere di Carabanchel. Qui conobbe Stuart Christie, il giovane anarchico scozzese che aveva portato, con la sua vicenda, il problema spagnolo sulle prime pagine di tutti i giornali dei paesi "democratici". Christie era entrato in Spagna con l'aria del turista innocente che gira il mondo in autostop, ma aveva lo zaino pieno di esplosivo e un progetto per giustiziare il Caudillo. Era stato scoperto, arrestato, e condannato a vent'anni. Il caso aveva sollevato in Inghilterra un notevole movimento di opinione a favore di quel giovanotto, ponendo in serio imbarazzo le autorità franchiste. Di colpo, il regime aveva visto dissolversi la nuvola di disinteresse che lo proteggeva agli occhi del mondo, e si era sentito sotto accusa per la violenza, la repressione, con cui governava il paese.
Christie e Garcia simpatizzarono subito e decisero di restare in contatto, quando (e se) fossero usciti di prigione. Lo scozzese rappresentava per Garcia la nuova generazione di libertari, il simbolo della lotta che non muore, che non si arresta. E, in effetti, una nuova generazione di oppositori del franchismo andava prendendo consistenza, dopo il silenzio degli ultimi anni, ed i suoi rappresentanti cominciavano ad affollare il carcere di Soria. Era triste vederli arrivare in quel luogo di pena, ma era anche il sintomo che la guerra contro l'oppressione non era finita. Giungevano i nuovi nazionalisti baschi dell'E.T.A., i militanti delle comisiones obreras, gli studenti di sinistra. Giungevano i compagni del risorgente anarchismo iberico, i Conill, i Luis Edo, e con loro l'eco delle agitazioni, delle rivolte che le idee libertarie erano nuovamente capaci di ispirare.
Il concentrare a Soria tutti i prigionieri politici, era stato un errore per il regime. Nel carcere si sviluppò un movimento per la riduzione delle condanne e l'applicazione delle leggi sulla libertà condizionata, cui Garcia aderì subito con impegno, nonostante la salute malandata. Era uno dei veicoli attraverso cui l'anarchismo poteva arrivare a suscitare l'interesse di un tempo e, ironia della sorte, prendeva origine e trovava di che rafforzarsi proprio là dove Franco era convinto di averlo seppellito per sempre, nelle galere. In questo periodo, Garcia scrisse un'infinità di lettere e di articoli sui prigionieri politici spagnoli, facendoli uscire clandestinamente all'esterno, dove potevano essere adoperati come utile materiale di propaganda.
Nel 1969, Miguel Garcia ottenne la libertà condizionata, e uscì di prigione. La Spagna gli apparve strana, diversa, morta. Se fuori di essa il movimento rivoluzionario andava riprendendo vigore, lì la gente sembrava preoccupata soprattutto di una cosa, dimenticare. Ma Garcia, dopo la guerra civile, dopo la Resistenza, dopo 20 anni di carcere, non poteva dimenticare. Come sempre, non avrebbe accettato di piegarsi, non avrebbe accettato il silenzio, il disimpegno, la sottomissione che il regime gli domandava, ora, in pagamento della sua libertà. Stuart Christie, che nel frattempo era stato anch'egli rilasciato, gli scrisse dall'Inghilterra, invitandolo. Garcia accettò. Sulla nave che lo portava a Londra, gli capitò di stupirsi di essere sopravvissuto.

R. Brosio