Rivista Anarchica Online
Scrittore per caso
di Francesco Berti e Marzia Rubega
Un appuntamento alla stazione ferroviaria di Monterosso, nelle Cinqueterre, una domenica pomeriggio invernale,
sotto un cielo terso. E una lunga chiacchierata su letteratura, esistenzialismi, anarchia, filosofia, ecc. con Maurizio
Maggiani, scrittore diventato improvvisamente famoso grazie al romanzo "Il coraggio del pettirosso"
Come hai pensato di voler diventare uno scrittore? C'è stato
un episodio significativo oppure è stato il
punto di approdo di un tuo percorso culturale? Non ho percorsi culturali nella mia vita. Non
sono mai stato capace di avere un percorso, ho vissuto a zig-zag.
Il giorno prima di scrivere il mio primo racconto tutto pensavo meno che mi sarei messo a scrivere un
racconto.
Qundi è stato "casuale"... Si. Sai, bisorrebbe pensare una cosa. Quanti
anni avete? Meno di trenta? Bene, non potete immaginare che c'è
stato un momento nella storia di questo paese di merda in cui vivere era un po' diverso da come lo è oggi.
Ti parlo
del periodo compreso tra il '65 al '78, perché il '78 è stato l'anno che ha spazzato via qualsiasi
speranza. Sono
stati 15 anni, della mia prima giovinezza in cui quello che si chiama "il regime", e che allora era chiamato "il
governo", era arrivato alla sua maturità, e giunto alla sua maturità era in grado di sopportare
qualsiasi cosa. Era
in grado di sopportare delle divergenze di carattere esistenziale, prima che politico-ideologiche. C'è stato
un
momento in cui ho potuto vivere liberamente. Io sono figlio di una famiglia di miserabili, sono stato io stesso fino
a due anni fa un miserabile: oggi mi permetto il lusso di una casa in affitto al mare. Pur essendo partito molto
basso in graduatoria, e qundi avendo dovuto sempre lavorare, (ho cominciato a lavorare a 17 anni: cosa
incredibile per te, per esempio, è che io da 17 anni ho potuto sempre lavorare; una cosa che tu ignori
perché non
puoi farlo), non solo ho potuto lavorare sempre, ma ho potuto cambiare lavori, cambiare città, ho potuto
scegliere
le mie esperienze. Io non so se si riesce a capire l'enorme differenza tra il 1970 e il 1997. La possibilità
anche per
un miserabile di proporsi delle esperienze in qualche modo libere. Come dire, il sistema era talmente maturo che
ciascuno poteva alloggiare in una infinità di interstizi; noi siamo vissuti egregiamente come tanti topolini;
vissuti
egregiamente significa vissuti felicemente: io ho avuto una vita felice guadagnando nel 1969 30 mila lire al mese.
Era una vita felice perché si combatteva quella che pensavo fosse una guerra, e tutt'ora penso sia stata
in qualche
misura una guerra, contro quel sistema che era talmente maturo o talmente potente da permettersi di sopportare
il peso di una guerra interna. Poi possiamo ragionare su cosa fosse quella guerra, ma sul fatto che sia stata una
guerra non ci possono essere dubbi: era una guerra di pensiero, era una guerra di azione. Ho fatto pochissimi
giorni di carcere, e ho fatto il carcere non perché esprimevo opinioni divergenti ma perché
tiravo le bombe molotov, tanto per spiegarci. Io credo che in uno di quei paesi che comunemente vengono definiti
di civiltà avanzata, avrei fatto 10 anni di galera, mica 10 giorni: il sistema, ripeto, era talmente maturo
che
nessuno perdeva mai davvero. Questa è stata la grande intuizione andreottiana, il suo colpo di genio: non
far mai
perdere tutto a tutti... Il mio percorso è stato un percorso zigzagante perché mi sono permesso
una quantità di esperienze: volevo fare
il fotografo, ho fatto il fotografo. Volevo fare il maestro rivoluzionario, ho fatto il maestro rivoluzionario, attestato
dai documenti. Non solo ho vinto un concorso a cattedra per insegnare ma ho esercitato le mie idee
profondamente rivoluzionarie da un punto di vista pedagogico insieme ad un gruppo di persone che lavoravano
con me. Ho voluto cambiare città, e ho cambiato città: ho vissuto a Firenze, a Pisa, a Genova. Ho
visssuto
pienamente, ho avuto due famiglie, sono stato molto amato, ho molto amato in questa mia vita cosà
zigzagante.
Oggi, invece, ho la percezione che ci sia uno stato di frustrazione, di tristezza, e la frustrazione e la tristezza
rendono schiavi sempre. La solitudine è oggi una condizione sociologica, mentre non era così
per i giovani della
mia generazione: non ci apparteneva. Ad un certo punto, banalmente, ho cambiato ancora: siamo alla fine degli
anni '80 e io mi sono preso paura, perché ho avuto un incidente fisico molto grave e sono stato più
di due anni
a letto immobilizzato. Pensavo di essere "immortale" e invece ho scoperto di potermi consumare ed essere
consumato in qualsiasi momento. Questo implica una quantità di riflessioni enormi: questo stato di
debacle fisica
mi ha fatto scoprire i limiti di quella che ritenevo una cosa potentissima, addirittura onnipotente...la parola parlata.
Io non sono un non-violento, la non-violenza non fa parte del mio bagaglio spirituale. Sono per "la pace tra gli
oppressi / la guerra agli oppressor", come recita la nota canzone anarchica, però ho sempre creduto che
la parola
avesse una enorme potenza demiugica, potesse davvero cambiare il mondo. Il mio primo libro non è stato
un
romanzo, ma un saggio di psicanalisi, sulla potenza della parola nei bambini in età pre-scolastica. Per una
banale
esperienza di vita scoprii che anche la parola non aveva caratteri di onnipotenza. Lo scoprii quando non riuscii
ad entrare nell'animo di una ragazza con le parole: questa mi aveva ceduto il suo corpo, ma io non volevo il suo
corpo semplicemente, volevo la sua anima, volevo essere posseduto e possedere la sua anima tramite la
parola. Così ad un certo punto ho provato con l'ultima risorsa che ha la parola: la scrittura. Ho scritto
una lettera che è
stato poi il mio primo racconto; in modo un po' fedrifago un mio amico mandò questa lettera
all'Espresso, che
aveva indetto un concorso per narratori sconosciuti. Parteciparono oltre 10 mila scrittori, e io vinsi il
concorso: da allora ho cambiato mestiere, da allora gli editori
mi hanno chiesto di scrivere per loro dei romanzi. Da questo punto di vista ho avuto una fortuna sfacciata,
enorme: io non ho un foglio di carta inedita, non ho mai scritto per me. Io ho scritto sempre perché mi
è stato
detto: "Vuoi scrivere per noi una storia? Bene fallo".
Anche "Il coraggio del pettirosso è nato così?" Sì,
anche in quel caso avevo l'editore prima di avere scritto alcunché. Avevo solo una idea, nel '90, buttata
giù
in un foglietto, in treno. Se non fosse perché è il mio lavoro, io non scriverei nulla perché
sono assolutamente
convinto che la scrittura non sia un piano ulteriore, superiore rispetto alla parola parlata. Io so fare una cosa, so
di saperla fare: so raccontare storie; mi piace raccontare storie, mi serve raccontare storie. Per quale ragione
devono essere storie scritte? Io la maggior parte delle mie storie mica le scrivo, le racconto. Se il mio editore fosse
un padrone, che ne so, americano piuttosto che italiano, io potrei permettermi forse di finanziarmi un progetto:
andare in giro nelle biblioteche, nei teatri a raccontare un romanzo orale. Ora forse questa possibilità si
realizzerà:
un mio amico scrittore, Pino Cacucci, con cui avevo parlato di questo progetto, mi ha telefonato e mi ha detto:
"Vuoi fare questa cosa? Bene, c'è il teatro di San Lazzaro, nei pressi di Bologna, che viene riinaugurato
a
dicenbre". Bene, a dicembre andrò lì a raccontare un romanzo parlato. La mia vita non è
scrivere romanzi: la mia
vita è amare la mia compagna, crescere i bambini, nuotare, camminare...la mia vita è essere felice
e produrre
felicità, produrre giosità...
Tra i romanzi pubblicati c'è un autore, un libro che ti ha particolarmente
colpito? Leggo raramente per piacere in questi ultimi tempi perché devo leggere
moltissimo per lavoro. Inoltre, non amo
particolarmente gli autori italiani contemporanei, li leggo pochissimo. C'è però un autore italiano
che mi è
piaciuto tantissimo, che avrà venduto 50 copie, se le ha vendute. Poteva essere l'uomo del grande romanzo
di
lingua italiana; si chiamava Monteleone, un signore che ha pubblicato il suo primo libro a 74 anni e il suo secondo
a 75. Una bestia controvento. Ecco, lui è per me un grande romanziere, ignorato da tutti, naturalmente.
Per dire, quello che adesso si chiama splatter, che io leggo da vent'anni e che è un tipo di letteratura
tipicamente
americana, esclusivamente americana perché la tragedia del dolore senza riparazione, tragedia per cui
nessuno
è buono, nessuno si salva è la tragedia americana, ora c'è anche in Italia. Ma è
un assurdo. La maggior parte degli
autori splatter italiani sono emiliani, chissà perché proprio emiliani. Se c'è un luogo dove
la tragedia non può
essere nemmeno concepita è l'Emilia. A Rimini puoi concepire la farsa della tragedia, come ha fatto
Fellini.
Bergman non avrebbe potuto essere emiliano. Ci sono delle ragioni storiche, delle ragioni culturali, etniche. Se
un pigmeo sa cantare, unico tra tutte le etnie invece che espirando, inspirando, è perché ci sono
delle ragioni che
sono legate a uno sviluppo culturale , storico. I miei autori preferiti contemporanei sono autori dickensiani,
a parte Vonnegut, l'unico, tra i moderni, che mi
piace veramente, che non è figlio di nessuno. Sono un lettore dei romanzi di Dickens, dei romanzi morali,
delle
storie morali. Per prepararmi al romanzo che sto scrivendo in questo momento mi sono riletto quello che è
il
capolavoro di Dickens, "Casa desolata". Sono convinto di non avere il coraggio di scrivere un romanzo come
quello, di non potermi permettere oggi di scrivere un romanzo così esplicitamente di rivolta e di protesta,
contro
la massima istituzione dello stato cui appartengo, cioè la giustizia. "Casa desolata" è un
romanzo di rivolta contro il sistema giudiziario inglese, scritto su un giornale che ha qualcosa
di meno o di più di Novella 2000, a puntate, per la gente che a malapena sapeva leggere,
150 anni fa. Kurth Vonneguth, Norman Mailer, John Irving, Stephen King sono i miei autori contemporanei
preferiti, e, strano
caso, vivono tutti in un fazzoletto di territorio americano, il Nord Shire. Sono di gusti molto volgari, molto
popolari, anche se ho letto tutto, come fanno tutti gli autodidatti, che leggono
quello che gli capita tra le mani.
Come ti poni rispetto alla scrittura alle soglie del terzo millennio? La ricerca di una forma
espressiva si
accompagna ad un intento comunicativo imprescindibile oppure ritieni questi due aspetti poco integrabili?
In buona sostanza, ti ritieni un autore "impegnato" e se sì qual è il tipo di impegno al quale
desideri
"adempiere"? Non mi sento uno scrittore impegnato, non so neanche cosa voglia dire. Io sono,
credo, spero, un uomo impegnato
in qualche cosa. Il mio impegno di oggi è pulire dove ho sporcato prima di andarmene, lasciare come ho
trovato.
Ho vissuto gran parte della mia vita pensando di lasciare meglio di come avevo trovato: adesso comincio a
pensare che intanto è meglio pulire dove ho sporcato. Pulendo dove sporco, il mio impegno è in
qualche modo
quello di produrre felicità, di rendere giustizia alla vita. In qualche modo, di essere fecondo. Questo
è il mio
impegno umano. Poi io scrivo storie perché è il mio mestiere e le storie che scrivo, credo, spero,
le scrivo perché
hanno una ragione; e il mio impegno è di scrivere in una lingua bella delle belle storie che abbiano una
bella
ragione. Come un artigiano, concepisco il mio lavoro come l'aprire una bottega tutte le mattine e sviluppare un
lavoro a partire da un'idea. Un falegname che apre la bottega e deve costruire un armadio parte da un'idea di
armadio, "il suo armadio interiore". Poi però il suo armadio interiore si traduce in un lavoro sistematico
di pialla,
tutte le mattine è là a piallare: frin fron, frin fron, frin frera, frin frera, zin zin, zin... se no non ne
viene fuori. Io
di idee ne ho 5000 al giorno; il problema è tradurle in pratica. Quando ho finito di scrivere non ho male
al
cervello, ha male alle mani, agli occhi.
Il tuo romanzo, "Il coraggio del pettirosso", ha incontrato un notevole successo. In che misura
questa
notorietà ha influenzato il tuo essere scrittore e uomo? La senti in contraddizione rispetto alle tue tensioni
etiche? No, perché? Ho avuto fortuna..mi sono turbato, stupito, anche angosciato ad un
certo momento perché non
riuscivo a capire come mai potesse essere successa questa cosa. Poi mi sono dato delle risposte. Sai cos'è
invece?
Il mio libro ha venduto una quantità enorme di copie rispetto a quelle che avrebbe dovuto vendere. Di
questa
quantità enorme di lettori, sono quasi certo che almeno un quarto è composto da persone che mi
sono in qualche
modo fraterne, e questa è una grande gioia. Gli altri tre quarti l'hanno letto casualmente...Ti dirò
una cosa, che
forse ti può scandalizzare. Io credo che se ha avuto successo è perché è trapelato
il fatto che fosse un romanzo
anarchico, anche se non è un romanzo anarchico...io ho un'idea dell'anarchia simile a quella di certi vecchi
compagni di Carrara, che si rifiutano di parlarne perché è indicibile, quindi ti mandano a cagare
se gli chiedi di
parlarne. Il grande dramma dell'anarchia è che oggi appare inoffensiva, e quindi è appetibile. Un
modo
inoffensivo di sentirsi estranei a quello che è il trogolo dove infili il muso tutti i giorni. Questo è
il dramma di
quello che rimane del pensiero anarchico; il fatto che dicano: "Ah, un anarchico? Brava gente, brav'uomo. Pinelli?
Troppo buono..". Era buono davvero Pinelli, ma certo che era buono, ma cosa vuol dire? Anch'io penso di
essere un uomo buono.
Ma io non sono inoffensivo, Pinelli non era inoffensivo. Sei tu che che mi hai ridotto inoffensivo... io ho solo
soggiaciuto al tuo trucco schifoso, non so se mi spiego.
Tu hai ambientato il tuo romanzo in Lunigiana, una regione in cui, sin dalla fine dell'800
all'avvento del
fascismo si è sviluppato un forte movimento anarchico, molto radicato nel territorio, che ha influenzato
non solo le idee, ma anche il modo di vivere, gli immaginari di una parte consistente delle classi oppresse
e diseredate. La presenza anarchica organizzata, ancora forte negli anni '50, si è via via ridotta e lo stesso
impulso libertario degli anni '60 e '70 ha prodotto una generazione di libertari molto diversa dalla
precedente. Secondo te rimane qualcosa di quelle lotte, di quegli ideali? Si possono notare delle tracce di
anarchismo nel quotidiano oggi? Io non voglio parlare a nome e per conto dell'anarchia,
perché sono convinto che l'anarchia non sia una ideologia,
non è mai stata e non potrà mai essere ridotta alla struttura scientifica di una ideologia. L'anarchia
è per me un
modo del pensiero che condiziona irreparabilmente, geneticamente la gente delle mie parti. Se vai a Carrara, oggi,
magari non trovi molti anarchici: questa però è una percezione assolutamente superficiale e poi
fuorviante. Il
comportamento anarchico è un comportamento di massa, ancora, in certe zone. Lo si può
percepire dal tipo di
atteggiamento che c'è all'interno del gruppo di lavoro. La gente che lavora alla cava è «costretta»,
dal tipo di
lavoro, da quello che ha saputo, che gli è stato insegnato, dal costume, ad organizzarsi in modo anarchico:
la
responsabilità di tutti per ognuno e di ognuno per tutti; questo è, credo, un modo di lavorare
anarchico e questo
modo di lavorare è ancora, per certi aspetti, di massa. Lo stesso atteggiamento nei confronti della politica,
della
cronaca, il fatto che ci sia sempre, tra questa gente, il rifiuto dell'oggi come destino, testimonia la presenza di un
radicato costume anarchico, anche se poi magari gli anarchici militanti sono pochi.
Ne "Il coraggio del pettirosso" dai un'immagine abbastanza oleografica del movimento anarchico.
Saverio,
il protagonista, definisce la comunità anarchica alessandrina «il presepe libertario di mio padre». D'altro
canto, il lungo viaggio di Saverio alla ricerca della propria identità si conclude con una riscoperta etica
dell'anarchismo. Pensi che questo possa avere elementi di analogia con l'oggi? Ritieni che l'anarchismo
sia attuale solo come tensione etica individuale oppure credi che abbia ancora senso l'esistenza di un
movimento anarchico organizzato che si propone la trasformazione della società? Non
lo so, perché non sono a conoscenza di un movimento anarchico attuale. Per quello che ne so, il
movimento
anarchico così come l'ho conosciuto negli anni '60 è morto e sepolto. Mi piacerebbe che ci fosse?
Questa è la
domanda che mi pongo, ogni tanto. Mi piacerebbe che ci fosse un movimento anarchico «politico», dedito alla
prassi, e non solo culturale, come è oggi? Non lo so, perché la mia paura è di potermici
adeguare. Il mio ricordo
del movimento anarchico è legato alla mia militanza nella Fai, in un gruppo composto da bravissimi
nonni, così
buoni, dolci, ma totalmente distanti dalla cronaca. Sono terrorizzato dall'idea di non riuscire ad aderire ad un
eventuale movimento anarchico politico perché oggi sono incapace di valutare le mie risorse pratiche. Ho
paura
di non avere più le risorse pratiche per fare il militante politico. Posso avere delle scusanti, posso dire che
queste
risorse mi sono state rubate, mi sono state demolite distrutte consumate. In parte è vero. Questa è
l'epoca in cui
c'è stato un continuo, intelligente, costruttivo lavoro di demolizione delle energie in qualche modo
eversive, in
qualche modo difformi. Però se ho delle scusanti ho anche delle responsabilità: la
responsabilità di essermi
invecchiato, attempato, senza pensare di conservare delle energie rivoluzionarie pratiche.
In una recente intervista al settimanale "Avvenimenti" hai detto: "Solo l'anarchia e Dio mi danno
la
possibilità di vivere speranzoso, quindi felice". Puoi spiegarci meglio questo concetto? É
possibile, secondo
te, una conciliazione armonica tra l'idea di Dio e l'anarchismo? Cos'è per me l'anarchia,
cos'è per me Dio? Sono le domande. L'anarchia chiede, l'anarchia interroga l'uomo.
Dio - il Dio dei giudei e dei cristiani - altrettanto chiede, domanda, interroga. Per inverso, le ideologie sono
interrogate. E' l'uomo che interroga il comunismo chiedendogli di trovargli la Soluzione della società
perfetta;
è l'uomo che interroga il capitalismo, il liberismo. "Liberismo, dammi la ricetta della felicità".
"Comunismo: chi
sono io?". L'anarchia invece chiede all'uomo: "Chi sei tu?" "Ce l'hai finalmente la ricetta per essere altro da
quello che
sei?". Per me il punto è questo: l'anarchia chiede all'uomo di essere altro da quello che è,
perché così com'è
l'uomo, così com'è l'umanità non basta né a se stessa, né alle altre specie,
per un progetto di felicità. Non basta
per giustificare se stessa l'umanità così come è oggi. Perché si chiama
"Umanità Nova" il settimanale degli
anarchici? Perché una parte del pensiero anarchico sottintendeva che questa umanità non basta
a se stessa. Che
l'umanità debba essere nuova per un progetto creativo. Gli ideali anarchici non sono realizzati da questa
umanità. Dio chiede la stessa cosa. Iddio chiede all'uomo di avere la forza di redimersi, di ricostruire
se stesso. Iddio
continua a chiedere all'uomo di essere diverso da quello che è. Allora se tu sei interrogato, se ascolti la
domanda,
non puoi essere che speranzoso perché se no non sei giustificato. Sei morto. Se invece tu interroghi, sei
giustificato per il solo fatto di interrogare. Questo è il grande errore. Interrogare le ideologie è
la cosa più stupida
che si sia pensata in epoca moderna, anche perché le ideologie sono state costituite perché fossero
permeabili alle
interrogazioni, fossero in grado di assorbirle tutte. Assumere in sé tutte le possibili domande. Le ideologie
giustificano, deresponsabilizzano, mentre di fronte all'anarchia sei tu che ti devi giustificare, e siccome l'anarchia,
come Dio, li ho fatti io, sono io che devo giustificarmi di fronte a me stesso. La responsabilità mi rimane
sempre.
C'è poi un'altro fatto. Quando dicono che le ideologie sono morte, chi lo dice sono i parlamentari
dell'ideologia
vincente. Non è vero che le ideologie muoiono: ne vince una e se ne sconfigge un'altra. Il sistema
ideologico sa
mentire alle domande dell'uomo, sa mentire a tal punto che si sente in grado di convincere l'uomo che non
esistono più le ideologie. Qual è la tecnica di dominio dell'ideologia vincente, oggi? É
quella di negarsi in quanto
ideologia.
In questi ultimi due anni c'è stata una piccola esplosione di editoria libertaria: sono usciti
molti libri di e
su anarchici, pubblicati da case editrici non di movimento. Molti di questi testi sono romanzi, che hanno
come protagonisti anarchici, vissuti realmente oppure solo immaginati. A cosa credi sia dovuto questo
fenomeno? Credo sia dovuto alla necessità di "venirsene via senza pagare il dazio".
É il discorso che facevo prima: il dramma
dell'anarchia è che ad una analisi superficiale risulta un modo indolore di sentirsi in qualche modo
eversivi,
estranei ai valori - o ai non valori - di questa epoca. Questa è una necessità che sentono in tanti.
Quelli più furbi,
più attenti, più ricettivi si sono detti: "Vediamo un pò 'sti anarchici; non rompono i
coglioni a nessuno, muoiono
tutti, non fanno male a nessuno e hanno in mano la ricetta per essere chiamati fuori." Posso anche immaginare
che vi sia però un'altra risposta possibile a questa domanda. Poiché non è morta nessuna
ideologia, ma ce n'è una vincente ed altre sconfitte, chi non ha avuto il coraggio di passare all'ideologia
vincente
sta cercando forse una cosa che non fosse morta, che non fosse sconfitta. Un modo del pensiero non si può
annientare e l'anarchismo è un modo del pensiero, non una ideologia.
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