Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 27 nr. 235
aprile 1997


Rivista Anarchica Online

A nous la libertè
diario a cura di Felice Accame

La protagonista cui è stata tolta la parola

Racconta Oliver Sacks - in quel suo splendido libro, Vedere voci (Milano, 1989) - che "prima del 1750 la stragrande maggioranza, si può dire il 99,9 per cento delle persone sorde dalla nascita, non aveva la minima speranza di imparare anche solo a leggere e a scrivere". Non solo: anche i sordi nati in famiglie ricche e potenti venivano sottoposti a faticose pratiche addestrative affinché riuscissero a pronunciare qualche parola, perché al muto, neppure riconosciuto come persona a tutti gli effetti, era impedito di ereditare beni e titoli. Tanto pesava quella concezione intollerante del "parlare" che, nell'eventuale "difetto", voleva coinvolta l'intera persona umana - intellettivamente e giuridicamente. Postumi, peraltro, li possiamo constatare a tuttoggi. Fra proselitismo religioso (come potrebbero i muti confessarsi dei propri peccati? Come salvare le loro anime?) e ubbie universalistiche, Charles Michel abate de l'Epée, nel 1755, apre a Parigi la prima scuola per sordomuti in cui viene insegnata la lingua dei segni che, nel 1791, diventa l'Istituto Nazionale dei Sordomuti, diretto dal grammatico Roch-Ambroise Sicard. Nel 1776, l'abbé de l'Epée aveva pubblicato il suo libro, Institution des sourd et mouets, par la voie méthodique: ouvrage qui contiens le projet d'une langue universelle, immettendosi, di certo senza volerlo, in quella strada che, in clima illuministico, era stata inaugurata da Diderot, che, già nel 1751 - appena uscito dalle patrie galere -, aveva scritto una Lettre sur les sourds et muets - così come si cita oggi, secondo i canoni del francese moderno. Con ciò, comunque, l'abate ed il suo libro si sono guadagnati una citazione in Marianna Ucrìa di Roberto Faenza, film dedicato con sincero affetto alla sordomuta figlia di nobili palermitani, che, nel 1743, appena tredicenne, subendo una di quelle tragiche svolte imposte dal decoro familiare, va in sposa allo zio. Già romanzata, la vicenda - fra bellissimi interni barocchi e delicati scorci della poca natura che si può ancora trovare - si snoda sugli sforzi di Marianna per costruirsi un mondo abitabile e per rivelarsi il trauma che gliel'ha reso inabitabile. Il tentativo è quello di caricare la protagonista di stigmi che vadano al di là del caso individuale e che, invece, investano di sé l'intera storia sociale della donna: il "difetto di parola" - in una piccola martire che
dipinge, che legge, che mette al mondo figli, che si ribella alla subalternità che le viene imposta, che lotta per cambiare quel mondo che gli sta addosso immobile - diventa l'elemento capace di far emergere le contraddizioni dei linguaggi altrui. Che, poi, questo tentativo si avvalga di modalità selettive e narrative connesse a opzioni ideologiche di attualità è quasi scontato. Così, nel racconto, si reperiscono schemi psicoanalitici alla Hitchcock (Io ti salverò, Marnie), supportati da sonorità instauranti tensione - come fossimo in tutt'altro genere di film -, o facili predispositivi naturalistici all'evento rilevante - come in casi di morti, violenze o liberatorie donazioni di sé.
Nella configurazione in positivo di Marianna - nella scelta della sua giovane esistenza come paradigma di una rivoluzione - spicca la rappresentazione del processo della sua crescita professionale. Vi confluisce la "novità" dell'apprendimento del linguaggio dei segni - perchè ogni rivoluzione che si rispetti si semina prima, e si raccoglie poi, nella rottura e nella ricomposizione dei moduli linguistici - , lo studio del pensiero di Hume - che fra il 1739 e il 1740 pubblicava il suo Trattato - e la curiosa frequentazione di quella scienza che, sembrando infrangere le certezze del sapere acquisito, alimenta il mito della propria eresia. Marianna nasce e vive in ambienti di stretto cattolicesimo, dove, per dire dello scandalo che aleggia intorno alla sua persona, è ancora sufficiente dire che non disdegna le opinioni di Newton, di Cartesio e di Galilei. La "maldicenza", sussurata da un prete nella seconda metà del settecento, è significativa - colora bene, ma forse con eccessiva vivacità non priva di tempestività sospetta. Non sempre la miglior contestualizzazione, insomma, è garantita dalla dottrina. Passi per Galilei perché i suoi guai con il Sant'Uffizio sono noti -, ma non passi, senza ombre di sani dubbi, per gli altri due. Newton, a dire il vero, era un perfetto rappresentante del potere costituito: deputato conservatore al Parlamento, alto funzionario della Stato, ispettore della Zecca Reale, non ha mai scisso le sue ricerche scientifiche dalla teologia. Forse, l'unica seccatura per un cattolico poteva essere costituita dal fatto che fosse protestante. Cartesio - o, come dovremmo chiamarlo oggi, Descartes - fu allievo dei gesuiti e, nonostante sradichi una concezione cosmologica già malferma, mai si stancò di accumulare prove dell'esistenza di Dio. In una lettera del 15 settembre 1645 - ricordata da Koyré nella terza e ultima delle sue Lezioni su Cartesio (Tranchida editori, Milano 1990) -, alla principessa Elisabetta, dice che "La prima e la principale fra le idee innate (...) è che vi è un Dio dal quale dipendono tutte le cose, la cui perfezione è infinita, il cui potere è immenso, i cui decreti sono infallibili". Soltanto forzando l'ignoranza di chi ne parla, dunque, è ammissibile nella cerchia dei "cattivi soggetti". Ma si sa che far parlare al loro presente gente del passato - specie se remoto - non è esercizio da poco. A maggior ragione se si vuol concedere qualcosa alla superficialità - requisito che parrebbe determinante per portare al pubblico checchessìa e, dunque, anche qualcosa su cui riflettere seriamente.

P. S.: Le speranze universalistiche dell'abate de l'Epée, ovviamente, erano mal riposte. Sacks ricorda che Van Cleve, in Gallaudet Encyclopedia of Deaf People and Deafness (New York, 1987), ha descritto più di cinquanta lingue dei segni, rinvenute in uso presso altrettante popolazioni e completamente indipendenti dalle rispettive lingue parlate. L'idea dell'uniformità e dell'universalità di questo linguaggio è "del tutto sbagliata". Come è sbagliata - e spesso non solo sbagliata ma anche truffaldina - l'idea di uniformità e di universalità di qualsiasi linguaggio - quello del cinema incluso.