Rivista Anarchica Online
Fuori la testa
di Marc de' Pasquali
Quando s'incontra qualcuno, magari spiacevole, è raro che ci capiti di
chiedere: può uccidermi? Potrebbe. Farlo
è nelle capacità di tutti. Quest'associazione mi riporta a La Medusa, dipinta e
scolpita. Ce ne sono tante. Due sono
a poca distanza di anni, una del Caravaggio, l'altra di Rubens, a cavallo del Seicento. La prima è un
autoritratto
sfatto su uno scudo di legno commissionato da un cardinale e celebrato in madrigali, visibile a Firenze nella
ricomposta - dopo le bombe assassine della mafia - Galleria degli Uffizi. La seconda, barocchissima, è
a Vienna,
Kusthistorisches Museum Gemaeldegalerie. Sono dipinti simili che, un po' retorici e melodrammatici, svelano
l'ineluttabilità della violenza, estrinsecano i meandri delle fobie, del panico, della patologia, sono
assolutamente
privi di pietas. La loro non sorpresa e ululante postura è oscena; la materializzazione della morte
è talmente disperante che
ubriaca le reazioni, si fatica a resistere davanti a quell'insana crudezza... Per fortuna c'è anche la
primavera, fuori, e verrà l'estate, un bicchiere di vino fresco. Almeno si spera... L'intreccio d'alloro
sui capelli è un aggruppamento di rettili ripugnante che ballonzola attorno alla faccia recisa
alla gola, caracollante, che zampilla liquami vermigliosi e biliosi, grumosi. Il fuggi fuggi delle serpi schizza
dentuto e linguettante dal cranio, dal dolore intontito, rompe il livore delle carni raggelanti, da rosicchiare - in un
secondo tempo. La decollazione (il taglio della parte pensante della Gorgone trucidata da Perseo per inganno)
Caravaggio l'ha
circoscritta, Rubens l'ha posta sul deserto di un mare zitto. Queste due opere sono per me la reificazione
dell'agonia. Il dramma è la non lucidità dello sguardo sbarrato, rigettato giù (come nei
peggiori horror), che si
estrinseca negli occhi globosi, bovini, fissi nel vuoto, e tenendo conto che il tronco manca, sprofondano nel
regno assassino del niente, dell'autoinganno. Come le espressioni dannate colte dietro i fili spinati, i lager,
i forni crematori, durante gli esperimenti di
sopravvivenza o durante gli stupri, nei lampi delle atomiche, nelle macellazioni, nelle fucilazioni, nelle camere
a gas, sui patiboli, sotto le ghigliottine... «Chiunque abbia avuto occasione di riflettere sulla storia e sulla
politica, non può non essere consapevole
dell'enorme ruolo che la violenza ha sempre svolto negli affari umani». Questa frase della Arendt è nel
saggio
Sulla violenza (Guanda), una scorciatoia dall'origine oscura. «C'è prima di tutto il semplice
fatto che il futuro
dell'umanità non ha niente da offrire alla vita individuale, il cui unico futuro certo è la
morte». Un libro, sebbene poco vacanziero e rilassante, molto illuminante (il buio sopraggiunge anche nel
solleone). Un'ostinata convinzione usa le proprie energie, il proprio sapere, la propria duttilità, non
per rendere questo soffio
di vita degno d'essere vissuto, ma per imprigionarlo nella più estrema passività. La
quantità di persone che si fa in quattro per assomigliare, e contemporaneamente per escludere, imponendo
o
subendo l'abbassamento dell'esistenza, ha dell'incredibile, anche nel ginepraio omosessuale - trasgressivo per
indole. "Inversamente, una forte tendenza al rifiuto di obbedire è spesso accompagnata da una
tendenza altrettanto forte
al rifiuto di dominare e di comandare." Ragionare è distinguere, direbbe Croce, però la
maggior parte delle persone assimila ciecamente, non recepisce
che il vincitore è tale per aver alimentato inganni servili e reverenziali, da sostenere... Il nutrimento
è il voto, un
obbligo, dicono, un dovere-diritto, ripetono con ossessivo convincimento (biglietti treno nave aereo agevolati,
certificati recapitati a domicilio come per nient'altro - credo). Invece, e l'ascetico Ceronetti alle ultime elezioni
(su La Stampa) è stato l'unico a scriverlo: non essere
collaborazionisti è l'estremo rifiuto che un'aristocratica razza anarchica deve compiere. La parte buona
non vincerà mai. «È il sostegno del popolo che dà potere alle istituzioni», scrive la
Arendt,
un'intellettuale poco diffusa (non esiste nell'enciclopedia Garzanti di Filosofia, né nella ridotta Universale,
forse
perché si definiva pensatrice non filosofa). Al contrario, Martin Heidegger («la volpe», come lei lo
descrisse), che aderì al partito nazionalsocialista sino al
'45 e che dalla Arendt si fece sistemare ogni lavoro (senza riconoscenza né durante né dopo),
riempie colonne
in ogni dove. Strani i destini. Vediamo. Lui d'aspetto poco ariano, tozzo, bassotto, baffetti da contadino bruno
verdastro simile
a Hitler, diviene rettore all'università di Friburgo (dove si è laureato), sostituendo Husserl (suo
maestro e
protettore cacciato perché ebreo) al quale aveva dedicato Essere e tempo «con ammirazione
e amicizia». L'iscrizione nelle ristampe viene depennata, e ai funerali di Husserl, il rampante filosofo non si
farà vedere.
Eppure amò «il magnifico Höderlin» (Nietzsche) e fu amato dalla diciottenne Arendt. Di nascosto.
Il bavarese
era sposato con un'antisemita, due figli, trentacinquenne. Lei, dopo sei anni di relazione segreta, all'adesione
nazista di lui ('33), lo lascia. Ma non romperanno mai i contatti epistolari, l'editing amoroso che lei gli
coordina, e sino all'ultimo (muoiono a pochi mesi di distanza), gli è
essenziale. Un'altra signora innamorata e sacrificata, nata nel 1906. Laureata con Jasper (il filosofo psichiatra
attualmente
riscoperto) con il quale intreccia il Carteggio 1926- 1969. Filosofia e politica (Feltrinelli
'88). Ebrea tedesca, ispirata, quindi bella (e lo dimostra la foto più diffusa a tre quarti: pizzetto al collo
e alle maniche,
sguardo malinconioso, minuta, capelli crespi e lunghi, pigramente raccolti), sfugge alla Shoà (come
Adorno e
Horkheimer). Dall'esilio francese si trasferisce a New York, adotta lingua e nazionalità. Due matrimoni,
il primo
con Günther Stern (allievo di Heidegger), il secondo con lo scrittore comunista Heinrich Blücher
(conosciuto nel
'36 a Parigi, da Benjamin). La scrittrice Mary McCarthy che manifesta contro il maccartismo e la guerra del
Vietnam, diventa sua amica. Nel '51 L'origine del totalitarismo (rieditato da Bompiani nell'82), fa
saltare i nervi
a destra e a manca. Seguono La disobbedienza civile, Vita activa, Politica e
menzogna, postumo Teoria del
giudizio politico. Da tre anni a Dresda funziona l'Hannah-Arendt-Institut für
Totalitarismusforschung. A
vent'anni dall'infarto del 14 dicembre 1975, lo scorso dicembre, la rivista Micro Mega, le ha
dedicato a Roma
un convegno internazionale e degli inediti su Marx. Il New Yorker che gli commissionò
un reportage, divenne La banalità del male sottotitolo Eichmann a
Gerusalemme (Feltrinelli '64): cronaca del processo a un aguzzino che altri non è che un burocrate
ordinario
(come il boia delle Fosse Ardeatine che dovendone stendere 330, ne ha aggiunti altri 5, e via). Tanti esecutori
fidati e scrupolosi, capaci di uccidere, alacremente, pulitamente, con il loro canarino cinguettante nella gabbietta
linda, la barba al mattino, il bacio alla moglie... Questo non può non colpire, non
ossessionare. Hannah Arendt che in televisione si faceva riprendere solo di spalle, è perciò
una persona straordinaria, parallela
a un'altra personalità poco divulgata: Simone Weil. Entrambe raffinate e isolate, capaci di riflessioni
libertarie
che scavalcano forme e contenuti. Due geni che nobilitano il patrimonio del nostro pianeta facendoci sentire
meno soli. Dovrebbero circolare in ogni
casa a protezione dei nostri talenti. Tornando alla Arendt: se un atto è banale, sarà reiterato
all'infinito, come il male, il lavoro ("un'attività senza la
benché minima dignità"), la morte - le paure più segrete dell'uomo. O si è schiavi,
o creativi (avulsi da ogni
potere), o dominatori, comunque conniventi in un ansiogeno agire da tempo prefissato («oggi accettiamo come
ovvio che chi non lavora non ha nemmeno il diritto di vivere», per esempio). La politica che scaturisce per
convivere nello spazio pubblico, per il rispetto reciproco, in contrapposizione al governo verticale che mantiene
le persone fuori dal contesto (magari con muta violenza «sempre necessaria per applicare la legge»), si trasforma
in antipolitica, nell'artifico umano. E se la finzione filtra, e lo fa costantemente, se non trova opposizione, se
ignora i codici non scritti, se non partecipa alla vita della mente dove tutto è autentico, se degenera
nell'imprevedibilità (connaturata alla nostra esistenza), nella corporeità (custode di un miracolo),
se la finzione
coltiva il lamento, l'attesa, essa mortificherà la nostra unicità divina, la nostra novità,
sprofondandoci nella più
fonda delle sconfitte umane. La decapitazione. «Piombare nel tempo, ossia nascere, significa cominciare ad
essere se stessi, ad essere in proprio.»
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