Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 25 nr. 217
aprile 1995


Rivista Anarchica Online

Living Judith
a cura di Cristina Valenti

Sta per uscire il volume Conversazioni con Judith Malina. L'arte, l'anarchia, il Living Theatre edito da Elèuthera. Ne è autrice Cristina Valenti, che ha raccolto, trascritto e organizzato, nel corso di due anni di lavoro, venticinque ore di intervista con l'attrice e regista anarchica fondatrice nel 1947, insieme a Julian Beck, del Living Theatre. In queste conversazioni Judith Malina racconta la sua vita, i suoi ideali politici e artistici a partire dall'infanzia, quando emigra con la famiglia a New York, fino all'incontro con Julian Beck e al sodalizio artistico, politico e umano che ne nasce e che continuerà fino alla morte di Beck nel 1985. Un quarantennio di comune ricerca che li vede impegnati a trasformare i propri principi libertari in strumenti e tecniche per il lavoro creativo, e che Judith Malina continua ancora oggi, affiancata da Hanon Reznikov, suo compagno e codirettore del Living Theatre. Anticipiamo in queste pagine alcuni stralci del libro, in cui Judith Malina fa la storia di Paradise Now, lo spettacolo «leggendario» divenuto per molti l'emblema del '68 teatrale. (Le parti in corsivo sono di Cristina Valenti, quelle in tondo di Judith Malina).

Paradise Now: la trama

Siamo arrivati al '68. L'anno di Paradise Now.
Alla fine di gennaio concludeste la tournée in Svizzera e partiste alla volta di Cefalù, dove avreste avuto a disposizione per tre mesi il Villaggio Magico del Club Méditerranée allo scopo di creare collettivamente lo spettacolo in vista del festival di Avignone. Si legge che l'idea da cui partiste fu quella di una mappa da fornire al pubblico, che illustrasse la via per il Paradiso. Le discussioni iniziali, nella compagnia, riguardarono quindi il concetto di Paradiso nel tentativo di definirne in qualche modo i contorni. Il risultato fu l'unione delle due concezioni maggiormente presenti nel gruppo: quella metafisica e quella politica. Come arrivaste a questa rappresentazione così complessa della mappa e dei suoi gradini?

La forma di Paradise Now è quella di un lavoro ascensionale, che si sviluppa lungo un percorso verticale fatto di gradini. E' stato Martin Buber a mettere in relazione i detti degli Hasidim con il concetto dei gradini: la vita, secondo il pensiero hasidico, è vissuta sui gradini di una scala che congiunge la terra al cielo. La sua dissertazione sui dieci gradini per il Paradiso ha avuto una grande influenza su di noi, ed è stata una fonte delle citazioni che abbiamo usato come guida per i gradini di Paradise Now.
Il nostro primo intento è stato quello di creare un viaggio ascendente verso la rivoluzione. Così abbiamo raffigurato il percorso dell'uomo dall'oscurità all'illuminazione: da una condizione di incomprensione sul significato della sua esistenza e in generale della vita e del mondo, all'illuminazione sulla sua realtà e le sue radici, per arrivare ad un controllo trascendentale e gioioso del suo mondo. E quello che cerchiamo di dimostrare senza riferirci necessariamente alla storia - è l'universalità di questa realtà, il fatto che il significato di questa ascensione dalle tenebre dell'ignoranza alla libertà della conoscenza è sempre stato presente in ogni cultura. Per far questo, abbiamo scelto le due culture che rappresentano - credo - le correnti fondanti della visione del mondo contemporanea, e le abbiamo raffigurate attraverso gli emblemi della tradizione ebraica e di quella induista, in entrambi i quali la dimensione universale che ci comprende, la realtà cosmica di cui è parte il nostro pianeta, è rappresentata sotto la specie di un essere umano: una superfigura dell'umanità, l'aspetto divino dell'umanità; il che significa che la vita cosmica nel suo complesso è fatta ad immagine del genere umano e il genere umano ad immagine del cosmo. E questo è un concetto molto antico, che gli ebrei raffigurano nell'immagine di Adamo Cadmo, che incarna i dieci Attributi (Sefiroth) del Santo Uno, e gli induisti raffigurano nell'immagine dei Chakra, i centri di forza fisica e metafisica che risiedono nelle varie parti del corpo umano, dai piedi fino alla testa e oltre, proprio come nella tradizione ebraica, dove l'ascesi procede dal basso all'alto verso l'Infinito (Ayn Soph), collocato al di sopra dei dieci Santi Attributi.
Così abbiamo disegnato una mappa che rappresenta una scala rivoluzionaria: la rivoluzione delle culture, della rivelazione, delle forze aggregate, la rivoluzione sessuale, la rivoluzione dell'azione, della trasformazione, dell'essere, fino alla rivoluzione permanente: vari stadi che possono presentarsi o meno esattamente in quest'ordine, l'importante è che sia rispettato lo schema dell'azione rivoluzionaria, che prevede dapprima lo studio del problema, poi la trasmissione della conoscenza e infine il conseguimento della solidarietà. E quindi mostravamo il percorso ascendente verso la forza liberatrice sia nei Chakra induisti sia nell'Adamo Cadmo ebraico: a significare che tale scala rivoluzionaria è presente da sempre, in realtà, nella nostra mitologia, nella nostra coscienza, nel nostro inconscio collettivo, nella nostra letteratura e nel comune sapere degli uomini. Abbiamo voluto mostrare l'universalità di questo modello. [ ... ]
Noi non sappiamo quando sia iniziato questo mito dell'ascesa verticale e abbiamo voluto mostrare che non siamo stati noi a inventarIo: il viaggio rivoluzionario dalla schiavitù alla libertà, dal buio alla luce, dalla confusione all'illuminazione ha sempre fatto parte della nostra tradizione, e noi lo riproponiamo per mostrare che stiamo percorrendo un sentiero tracciato dalla storia antica. [ ... ]

Si tratta di un'enorme complessità di riferimenti.
La stessa mappa di cui hai parlato, e che davate effettivamente al pubblico prima di ogni rappresentazione, è piuttosto criptica, quasi iniziatica. Cosa credi che arrivasse di tutto questo agli spettatori? Non c'era il rischio che un tale rigore compositivo e un tale spessore politico e filosofico si perdessero nella fluidità di un happening collettivo? Che delle libere forme dello spettacolo non si comprendessero le radici più profonde di pensiero?


[...] Quando facevamo Paradise Now generalmente avevamo un pubblico di studenti e di persone relativamente acculturate, abituate a frequentare il teatro: questo è vero. Inoltre a quel tempo venivano a vederci moltissimi studenti rivoluzionari, e la situazione era molto viva, perché c'erano molti gruppi nel movimento studentesco, ognuno dei quali metteva direttamente in scena i propri contenuti e i propri argomenti all'interno dello spettacolo: anarchici, maoisti, trotzkisti, Lotta Continua, e tutte le varie tendenze. E anche se la maggior parte delle cose che dicevano non solo non mi trovavano d'accordo, ma mi facevano addirittura orrore, eravamo comunque contenti che il nostro teatro fosse il luogo per dirle.
All'ingresso davamo agli spettatori questa grande mappa tutta piegata, raffigurante l'ascesa rivoluzionaria, la strada verso la rivoluzione. E in calce al diagramma si legge la frase «La trama è la rivoluzione», che contiene un gioco di parole con il termine inglese plot: dove per trama dello spettacolo si intende l'argomento, come si sa: la madre di Amleto ha sposato l'assassino di suo padre e il principe torna a casa ... questa è la trama, l'argomento, ma per trama rivoluzionaria si intende, come posso spiegarlo ...

Un complotto, una strategia d'azione...

... esattamente: un piano deciso a tavolino: noi occupiamo il ponte la mattina e voi procedete e prendete la stazione ferroviaria nel pomeriggio ... questa è una trama rivoluzionaria.
Così noi davamo il disegno a tutti gli spettatori.
Come puoi vedere è molto bello: ci sono le due figure giustapposte, Adamo Cadmo e il corpo cosmico dell'albero dei Chakra. E poi tanti elementi: l'I Ching, il tema dei colori, il tema sociale, digressioni poetiche, concetti filosofici, ogni cosa è rappresentata graficamente in questo grande diagramma, che ognuno può guardare e comprendere a vari livelli. Se uno conosce bene Eric Gutkind e la sua teoria della rivoluzione biblica, tanto meglio, ma la carta è molto interessante anche in caso contrario, perché è possibile leggere queste parole e recepirne certi contenuti, mentre il resto lo si può godere come poesia pura, di cui magari non si possiede ancora la chiave, ma che potrebbe essere la carta stessa a fornirla. Uno potrebbe dire: «Ah, questo è Shelley, forse farei bene a leggerlo». Oppure la si può considerare semplicemente bella da guardare: ho visto persone che l'avevano appesa alla parete. La si può guardare di tanto in tanto, in un momento di raccoglimento, e trovarvi qualcosa di interessante, che può illuminare la propria meditazione.
Per conto mio, ritengo che dovremmo entrare con leggerezza nel livello intellettuale del nostro urlo perché credo che la tendenza a giudicare quello che la gente comprende o meno sia sbagliata e abbia, in un certo senso, incapsulato la nostra cultura. [ ... ]

Paradise Now debuttò al Festival di Avignone il 23 luglio 1968, dopo una lunga preparazione: quasi tre mesi a Cefalù e circa altrettanti ad Avignone, presso il vecchio Lycée Mistral, trasformato in una sorta di «comune» aperta, dove confluirono centinaia di studenti, artisti, hippies, giovani del movimento rivoluzionario. In mezzo c'era stata la vostra partecipazione al maggio parigino con la decisione di non far teatro sulle barricate in quanto l'attualità della «rappresentazione» di strada superava ogni finzione spettacolare. Ma quelle giornate avevano impresso una svolta nella creazione dello spettacolo. «Ciò che si è visto a Parigi, anche con l'occupazione dell'Odéon - ha scritto Julian Beck il 17 maggio 1968 ad Avignone - era l'inizio di uno spirito rivoluzionario, ed è proprio questo il lavoro di Paradise Now. Ma il lavoro di Paradise Now deve accordarsi con quel che accade a Parigi e in effetti in tutta la Francia. Si deve riprendere la piéce, la sua struttura, le tappe rivoluzionarie». Questa necessità del teatro di «accordarsi» con la realtà segnava un ulteriore passo avanti nel processo di superamento della divisione fra arte e vita che avevate intrapreso fin dai vostri primi spettacoli. A un teatro che celebrava l'unione rituale dell'attore con lo spettatore seguiva il teatro dell'azione; la struttura di Paradise Now procedeva infatti, ciclicamente, dal rito alla visione all'azione, e a quest'ultimo livello lo spettacolo si alimentava dell'apporto concreto degli spettatori, i quali ne determinavano gli sviluppi attraverso il contributo della loro cultura e dei loro comportamenti ...

Noi abbiamo creato Paradise Now quando Martin Luther King e Robert Kennedy sono stati assassinati, quando le Black Panthers si stavano organizzando e la lotta armata era molto calda, quando sembrava che la possibilità della rivoluzione fosse vicina: Doveva esserci una rivoluzione? Che tipo di rivoluzione avrebbe potuto o dovuto esserci? Grossissime domande! Si fa presto a dirlo, ma la difficoltà era enorme, perché c'era un movimento in grande espansione ma disomogeneo e privo di solidarietà. Quando abbiamo creato Paradise Now lo facemmo in quell'atmosfera. Era anche il periodo in cui c'erano quei drammatici bagni di sangue in Bolivia - oggi parleremmo della Bosnia o di piazza Tienanmen, che è passata da un po' ma non sarà mai passata, o della Somalia o del Kuwait - e da tutte queste situazioni incandescenti si levava un appello: Vogliamo che lo rappresentiate! Fatelo! Rappresentatelo per noi!
La struttura di Paradise Now era molto complicata. Consisteva di questi dieci gradini della scala e ogni gradino aveva tre sezioni: rito, visione e azione, in cui invitavamo il pubblico a rappresentare qualcosa, se lo voleva, con le tecniche e le forme che avevamo suggerito nelle due sezioni precedenti. Loro erano comunque liberi di usare la forma che volevano, l'unico limite che ponevamo era rispetto alla violenza, perché solo essendo non violenti è possibile prendere qualunque direzione pensabile e fare straordinari esperimenti. Questo è quanto abbiamo dimostrato con Paradise Now; e avemmo la fortuna di farlo in grandi teatri, davanti a pubblici molto vasti, in posti meravigliosi dove siamo riusciti, nel corso delle dieci scene (attraverso i dieci riti, le dieci visioni e le dieci sezioni di teatro libero), ad andare molto lontano nella direzione del rivoluzionario spirito paradisiaco.

La partecipazione degli spettatori a Paradise Now ha conosciuto episodi particolarmente significativi, fin dalle prime rappresentazioni avignonesi (non a caso interrotte dopo sole tre repliche), con il pubblico dei non paganti che premeva fuori dai cancelli per entrare e, all'interno del Cloître des Carmes, gli spettatori che invadevano gradualmente la scena unendosi agli attori. Me ne vuoi parlare?

Lo spettacolo iniziava con un pezzo chiamato «Fuori i cancelli del Paradiso», in cui ognuno di noi andava fra il pubblico e parlava con gli spettatori. Se ci parlavano a loro volta, noi non rispondevamo, ci limitavamo a ripetere la stessa frase. Ci lamentavamo con gli spettatori della miseria del mondo e delle nostre vite a partire dalle questioni più generali: «Non so come fermare le guerre», per arrivare a quelle riguardanti la libertà individuale: «Non ho il diritto di fumare hascisc», «Non ho il diritto di togliermi i vestiti di dosso». Ci rivolgevamo a ogni spettatore in modo molto personale e diretto, spostandoci in mezzo a loro per il teatro. A ogni ripetizione esprimevamo più passione e più frustrazione rispetto all'abuso che ci era imposto, il volume della voce si alzava, la temperatura cresceva, finché finivamo con un urlo collettivo. Alla
fine dell'urlo, silenzio. Poi iniziavamo con un'altra frase. Trenta attori andavano per il pubblico dicendo: «Non si può vivere senza denaro! [crescendo:] Non si può vivere senza denaro! [sempre più forte:] Non si può vivere senza denaro!. [urlando:] Non si può vivere senza denaro!!!» e poi «Aaaah!!!»: l'urlo. E quindi il silenzio. Gli spettatori a volte ci parlavano, noi non rispondevamo. A volte dicevano cose molto sgradevoli o molto stupide, a volte invece molto brillanti e interessanti. Ma, ogni volta che uno spettatore ci parlava e noi ci voltavamo senza rispondergli, diventava un nostro obbligo tentare di portarlo in Paradiso, nelle cinque o sei ore seguenti. Questo era il nostro scopo. Se dicevo a qualcuno «Non ho il diritto di togliermi i vestiti di dosso» e questo era un tale che voleva fare il macho e mi diceva: «Vieni a casa mia baby, lì ti puoi togliere i vestiti!», io me lo sarei ricordato, sarei ritornata da lui e lo avrei condotto in Paradiso, ma non nel modo che lui pensava. Lui diventava il mio oggetto e io sarei stata il traghetto che lo avrebbe portato nella traversata.
Ad ogni gradino lo spettacolo rompeva sempre più la situazione formale finché, alla fine, toglievamo via le sedie degli spettatori, le mettevamo sul palcoscenico (a volte questo richiedeva un certo lavoro che scontentava moltissimo i direttori dei teatri) e tentavamo di portare questo gruppo di persone in un viaggio durante il quale, una dopo l'altra, le nostre resistenze alla possibilità del paradiso si sarebbero infrante. Oh, a volte era estremamente difficile! Abbiamo anche incontrato comportamenti violenti, che abbiamo aggirato con un lavoro molto deciso perché non era assolutamente quello che volevamo. Ci è capitato ogni genere di assalto sessuale.
Era il periodo della liberazione sessuale ed erano molte le persone nel gruppo disposte a fare realmente l'amore con gli spettatori. Alcuni di noi l'hanno fatto, altri no; alcuni si toglievano i vestiti di dosso, altri no. Non avevamo programmato che questo avvenisse, ma gli spettatori potevano farlo comunque, e molto spesso lo facevano. Così, all'interno dello spazio chiuso del teatro, era possibile sperimentare tutte le interrelazioni possibili, allo scopo di favorire il confronto rivoluzionario degli uni con gli altri, che deve necessariamente fondarsi sul coraggio di non mentire, di mostrare la propria vulnerabilità (di cui la nudità è l'immagine più eloquente) e di scardinare tutti i tabù per proclamare: «Diamo inizio al Paradiso. Siamo pronti per il Paradiso adesso! Non aspettiamo centinaia di anni, non aspettiamo di arrivarci in cinquant'anni o dopo la rivoluzione ... Adesso! Questo è il nostro momento rivoluzionario! Cosa facciamo tutti insieme? Cosa programmiamo?».

Il teatro è nella strada!

E alla fine Julian gridava: «Il teatro è nella strada!». E uscivamo in strada con queste idee e queste teorie e questi abiti o mancanza di abiti ... e lì incontravamo la polizia che ci arrestava. E allora dicevamo al poliziotto: «Questo è l'atto finale del nostro spettacolo, e tu stai recitando la parte dell'agente che ci arresta!» e il poliziotto arrabbiatissimo: «Questo mai! Non faccio parte del vostro spettacolo!» e noi: «Sì invece, e non puoi fare altrimenti, perché tu sei un attore e io un'attrice e stiamo recitando insieme la vita vera: tu ed io, la vita vera, l'arresto del Living Theatre nel Paradiso ritrovato, lo spettacolo Paradise Now della vita vera! Che ne dici?» Grrrr! Questo era davvero sconvolgente per i poliziotti: essere inclusi da noi nel nostro spettacolo proprio mentre ci stavano arrestando o intendevano intimidirci.
Tutto ciò è stato anche l'inizio della nostra indagine sul sadomasochismo. Loro volevano che noi provassimo l'umiliazione della prigione e noi facevamo sentir loro l'umiliazione sempre presente dell'attore. Era come dire: se non vuoi renderti ridicolo non devi fare l'attore; devi essere disposto a mostrarti assurdo, vulnerabile, ridicolo, oppure non puoi recitare. E questo è vero anche per i più grandi attori da premio Oscar, te lo potrebbero dire tutti nella storia del teatro, ne sono sicura, tutti gli attori: è ovvio che devo essere disposto ad essere ridicolo fino in fondo per essere un attore fino in fondo. E l'invenzione di questo ruolo dell'agente che esegue l'arresto, la creazione del collega attore era sconvolgente e anche molto illuminante, perché non è che li insultassimo: loro pensavano che stessimo recitando una scena dello spettacolo, e non potevano accusare nessuno per questo. Era il modo di farli riflettere sulla relazione fra noi e loro. Naturalmente loro rifiutavano tutto ciò, ma capitava anche che accettassero e allora dicevano: «Bene, recito anch'io come te». Abbiamo incontrato poliziotti di vario tipo. Alcuni di loro capivano che in questo modo potevano persino riconquistare la loro predominanza, che se si dimostravano disponibili a recitare il loro ruolo potevano recuperare la loro superiorità, mentre se non facevano altro che protestare si trovavano nella condizione di resistere a noi, gli arrestati, mentre noi non stavamo resistendo a loro che ci arrestavano: una strana posizione.
Ma il problema fondamentale di Paradise Now (che emerge anche da questi episodi con la polizia) era come cambiare la natura della relazione fra gli individui e quindi con gli spettatori. Era il '68-'69 e la domanda fondamentale da porci era: chi siamo gli uni per gli altri? Paradise Now poteva durare dalle tre alle sei ore, noi lasciavamo che andasse avanti, eravamo soliti dire: «Ci si mette il tempo che ci si mette a raggiungere il Paradiso». Lasciavamo che si realizzasse quella che Julian chiamava «confusione creatrice», una situazione molto difficile per me, ma molto gratificante per lui, al quale sembrava bellissimo lasciare che l'intero spazio diventasse un totale blah blah di gente urlante, salmodiante, in un crescendo emotivo, anche di rabbia, lasciare che tutto si perdesse nel frastuono per poi ricondurlo a uno dei nostri rituali. Era una cosa molto bella anche teatralmente, uscire da questa confusione per entrare nel rituale successivo. Ogni gradino aveva la sua propria sensibilità, il proprio colore, la propria poesia, e differivano l'uno dall'altro in una spirale ascendente. E c'era gente che lasciava il teatro solo alla fine e gente che se ne andava prima della fine. Ma tutti sentivano realmente di essere in viaggio verso il Paradiso. La gente che restava fino alla fine usciva in strada con noi. Se oggi riguardo quelle immagini rimango stupefatta: l'incandescente gioia paradisiaca con cui uscivamo dal teatro! Eravamo realmente pronti per una gioiosa, estatica frenesia rivoluzionaria, e la gente ha paura della frenesia. Ma si può essere frenetici quanto si vuole se non si è violenti. Solo nelle persone violente la frenesia è pericolosa.

Sarebbe ancora possibile Paradise Now oggi?

Allora, quando lasciavamo il teatro, avevamo l'impressione di uscire da un'esperienza catodica e nutritiva: catodica non solo nel senso di mandare in fumo il vecchio mondo, ma di essere realmente pronti a entrare nel nuovo. A questo concorrevano certamente la struttura pacifica dello spettacolo, il tempo storico in cui ci trovavamo e la sensazione che quello che facevamo era importante in relazione a quanto stava succedendo nella storia. Tantissime persone sono ancora influenzate da quella esperienza. Io certamente lo sono stata come attrice. Ci capita spesso di incontrare persone che ricordano ancora l'esperienza di quella notte, che è stata forse un po' simile a quella di chi andava ai misteri Eleusini e ne usciva in qualche modo illuminato dalla luna, così noi uscivamo fuori dal teatro preparati ad affrontare diversamente le difficoltà del mondo, diversamente conformati: e questo era lo scopo dello spettacolo, che era molto ambizioso, molto rivoluzionario e molto temerario. Mi piacerebbe poter tornare indietro, al momento in cui eravamo pronti per una tale esperienza. Noi, nel Living Theatre, ci sentiamo pronti, ma Paradise Now è stato possibile perché era il 1968 e a rappresentarlo come un puro rituale nel 1999 forse non succederebbe niente, crediamo ... o forse dovremmo provare.
Il fatto è che lo spirito delle persone in questa fase si trova sotto zero, e non credo che potremmo risollevarlo se non artificialmente, cosa che non mi interessa.
Per avere un avanzamento rivoluzionario senza rivoluzione bisogna che ci sia un processo molto forte e profondo. Un lampo veloce non può produrre un avanzamento rivoluzionario: sarebbe qualcosa di irrilevante, capisci. Ognuno di noi potrebbe correre per strada urlando qualunque cosa, col solo risultato che la gente direbbe: «Quello è pazzo!» e non ci penserebbe più. Ma noi dobbiamo far sentire attraverso la nostra arte che quello che urliamo è così bello, pieno di verità ed estatico che non ci si può non credere.

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Storia del Living Theatre: teatro, idealità, esistenza


Il Living Theatre è nato a New York nel 1947 dal grande sogno di due giovani artisti: Julian Beck, promettente pittore della cerchia degli espressionisti astratti e Judith Malina, attrice e regista allieva di Erwin Piscator. Il teatro ha rappresentato fin da subito, per loro, il mezzo per realizzare ideali artistici ed esistenziali non comuni. Il teatro come la sinagoga - scriverà Julian Beck - un luogo "non per venerare ma per scoprire la via della salvezza [...], trovare l'esperienza della vita [...], spiccare il volo e levitare". Fin dagli anni americani, il Living Theatre ha lavorato al di fuori del sistema commerciale, in condizioni di estrema difficoltà e di continua emergenza. Ogni allestimento di successo era un momento di svolta e imponeva nuovi orientamenti alla ricerca. L'impegno morale per un teatro che fosse "degno della vita di ogni spettatore" incalzava ogni traguardo e metteva in guardia contro i facili consensi.
Nel 1963, The Brig (di Kenneth Brown), la ricostruzione iperrealistica di una giornata in una prigione americana per marines, segnò il rifiuto (di segno artaudiano) di ogni illusione, inganno, o seduzione teatrale e spostò la ricerca sulle fonti più autentiche della comunicazione, sul lavoro dell'attore, "grande eroe", in grado di "creare, produrre la vita sulla scena [...] facendo qualunque cosa al limite della possibilità". Poi, con l'ultima rappresentazione newyorkese dello spettacolo, nel teatro sigillato dagli agenti del fisco, si aprì una fase di ulteriori e più radicali infrazioni dei confini teatrali, che si realizzarono negli anni dell'"esilio" europeo (scelto da Julian Beck e Judith Malina a partire dal 1964), fra azioni di strada e free theatre, improvvisazione e sit-in davanti a carceri o tribunali.
Il Living si trasformò, negli anni itineranti attraverso l'Europa e in America Latina, in microsocietà alternativa: "concetto di una compagnia teatrale, un gruppo di lavoro, come comune anarchica". Le parole di Julian Beck descrivono l'utopia di un teatro che infrange il proprio involucro estetico per farsi esperienza esistenziale, come ha notato Eugenio Barba. In questa utopia risiede l'esperienza precorritrice di un intero versante della ricerca teatrale degli anni Settanta. Agli spettacoli "leggendari" di questo periodo, Mysteries and smaller pieces (1964), Frankenstein (1965), Antigone (1967), Paradise Now (1968) devono essere ricondotti infatti i principi ispiratori dei cambiamenti avvenuti nel successivo ventennio di innovazioni teatrali: l'autonomia creativa dell'attore, la ribellione alla preminenza registica, l'uso del corpo contro il primato della parola, la necessità della motivazione personale dell'interprete, l'improvvisazione e la creazione collettiva.
All'inizio degli anni '70, la sovversione ideologica e formale del Living si radicalizzò con la scelta della strada, e quindi con gli spettacoli raccolti nel ciclo dell'Eredità di Caino, che si è protratto dal 1975 al 1985. Alla progressiva dissoluzione del teatro nel sociale corrispondeva la scelta del gruppo di non essere teatro "maggiore", neppure alternativo, l'abbandono di ogni residuo di convenzione scenica, la negazione stessa del teatro e, ancora, la pratica itinerante del nomadismo.
Dal 1980 è nata una nuova produzione di spettacoli (Masse Mensch nel 1980, The yellow Methuselah nel 1982, The archeology of sleep nel 1983). La straordinaria interpretazione di That time di Beckett, per il gruppo La Mama di New York, è stata l'ultima interpretazione di Julian Beck, che è morto il 14 settembre 1985. Alle pagine del Theandric il grande visionario del teatro ha continuato ad affidare, fino alla fine, il senso della necessità etica, ormai dolorosa, ma irriducibile del suo lavoro: "Faccio il mio teatro perché questa è la bellezza che offro in risposta alla distruzione nel mondo. Lo faccio perché devo farlo".
Nessun ripiegamento su produzioni di maggiore vendibilità e di più facile accettazione da parte del mercato teatrale, ma piuttosto il continuo interrogarsi sull'"azione positiva" del teatro e dell'artista in tempi di emergenza accompagna ancora l'attività del Living Theatre. Judith Malina ha aperto un nuovo teatro a New York, che ha diretto con Hanon Reznikov dal 1989 al 1993, quando è stato chiuso per motivi di agibilità. Ma continua, fra ospitalità in vari teatri newyorkesi e tournées all'estero, la produzione di nuovi spettacoli del gruppo, ancora fortemente sperimentali e tesi ad indagare le leggi profonde e misteriose del teatro: il confine tra finzione e realtà, il rapporto fra l'attore e lo spettatore, la natura della comunicazione teatrale, le sue leggi e la sua grammatica.
Il Living Theatre sarà di nuovo in Italia a partire dall'aprile prossimo, per presentare due spettacoli: Mysteries and smaller pieces (riallestimento in occasione del trentennale della prima) e Anarchia (l'ultima creazione del gruppo).