Rivista Anarchica Online
Living Judith
a cura di Cristina Valenti
Sta per uscire il volume Conversazioni con Judith Malina. L'arte, l'anarchia, il Living
Theatre
edito da Elèuthera. Ne è autrice Cristina Valenti, che ha raccolto,
trascritto e organizzato, nel
corso di due anni di lavoro, venticinque ore di intervista con l'attrice e regista anarchica
fondatrice nel 1947, insieme a Julian Beck, del Living Theatre. In queste conversazioni
Judith Malina racconta la sua vita, i suoi ideali politici e artistici a partire
dall'infanzia, quando emigra con la famiglia a New York, fino all'incontro con Julian Beck e
al
sodalizio artistico, politico e umano che ne nasce e che continuerà fino alla morte di
Beck nel
1985. Un quarantennio di comune ricerca che li vede impegnati a trasformare i propri
principi
libertari in strumenti e tecniche per il lavoro creativo, e che Judith Malina continua ancora
oggi,
affiancata da Hanon Reznikov, suo compagno e codirettore del Living Theatre. Anticipiamo
in
queste pagine alcuni stralci del libro, in cui Judith Malina fa la storia di Paradise Now,
lo
spettacolo «leggendario» divenuto per molti l'emblema del '68 teatrale. (Le parti in corsivo
sono di Cristina Valenti, quelle in tondo di Judith Malina).
Paradise Now: la
trama
Siamo arrivati al '68. L'anno di Paradise Now. Alla fine di
gennaio concludeste la tournée in Svizzera e partiste alla volta di Cefalù,
dove
avreste avuto a disposizione per tre mesi il Villaggio Magico del Club
Méditerranée allo scopo
di creare collettivamente lo spettacolo in vista del festival di Avignone. Si legge che l'idea da
cui
partiste fu quella di una mappa da fornire al pubblico, che illustrasse la via per il Paradiso. Le
discussioni iniziali, nella compagnia, riguardarono quindi il concetto di Paradiso nel tentativo
di definirne in qualche modo i contorni. Il risultato fu l'unione delle due concezioni
maggiormente presenti nel gruppo: quella metafisica e quella politica. Come arrivaste a
questa
rappresentazione così complessa della mappa e dei suoi gradini?
La forma di Paradise Now è quella di un
lavoro ascensionale, che si sviluppa lungo un percorso
verticale fatto di gradini. E' stato Martin Buber a mettere in relazione i detti degli Hasidim
con
il concetto dei gradini: la vita, secondo il pensiero hasidico, è vissuta sui gradini di
una scala che
congiunge la terra al cielo. La sua dissertazione sui dieci gradini per il Paradiso ha avuto una
grande influenza su di noi, ed è stata una fonte delle citazioni che abbiamo usato
come guida per
i gradini di Paradise Now. Il nostro primo intento è stato quello di
creare un viaggio ascendente verso la rivoluzione. Così
abbiamo raffigurato il percorso dell'uomo dall'oscurità all'illuminazione: da una
condizione di
incomprensione sul significato della sua esistenza e in generale della vita e del mondo,
all'illuminazione sulla sua realtà e le sue radici, per arrivare ad un controllo
trascendentale e
gioioso del suo mondo. E quello che cerchiamo di dimostrare senza riferirci necessariamente
alla
storia - è l'universalità di questa realtà, il fatto che il significato di
questa ascensione dalle
tenebre dell'ignoranza alla libertà della conoscenza è sempre stato presente in
ogni cultura. Per
far questo, abbiamo scelto le due culture che rappresentano - credo - le correnti fondanti della
visione del mondo contemporanea, e le abbiamo raffigurate attraverso gli emblemi della
tradizione ebraica e di quella induista, in entrambi i quali la dimensione universale che ci
comprende, la realtà cosmica di cui è parte il nostro pianeta, è
rappresentata sotto la specie di un
essere umano: una superfigura dell'umanità, l'aspetto divino dell'umanità; il
che significa che la
vita cosmica nel suo complesso è fatta ad immagine del genere umano e il genere
umano ad
immagine del cosmo. E questo è un concetto molto antico, che gli ebrei raffigurano
nell'immagine di Adamo Cadmo, che incarna i dieci Attributi (Sefiroth) del
Santo Uno, e gli
induisti raffigurano nell'immagine dei Chakra, i centri di forza fisica e metafisica che
risiedono
nelle varie parti del corpo umano, dai piedi fino alla testa e oltre, proprio come nella
tradizione
ebraica, dove l'ascesi procede dal basso all'alto verso l'Infinito (Ayn Soph),
collocato al di sopra
dei dieci Santi Attributi. Così abbiamo disegnato una mappa che rappresenta
una scala rivoluzionaria: la rivoluzione delle
culture, della rivelazione, delle forze aggregate, la rivoluzione sessuale, la rivoluzione
dell'azione, della trasformazione, dell'essere, fino alla rivoluzione permanente: vari stadi che
possono presentarsi o meno esattamente in quest'ordine, l'importante è che sia
rispettato lo
schema dell'azione rivoluzionaria, che prevede dapprima lo studio del problema, poi la
trasmissione della conoscenza e infine il conseguimento della solidarietà. E quindi
mostravamo
il percorso ascendente verso la forza liberatrice sia nei Chakra induisti sia nell'Adamo Cadmo
ebraico: a significare che tale scala rivoluzionaria è presente da sempre, in
realtà, nella nostra
mitologia, nella nostra coscienza, nel nostro inconscio collettivo, nella nostra letteratura e nel
comune sapere degli uomini. Abbiamo voluto mostrare l'universalità di questo
modello. [ ... ] Noi non sappiamo quando sia iniziato questo mito dell'ascesa verticale e
abbiamo voluto
mostrare che non siamo stati noi a inventarIo: il viaggio rivoluzionario dalla
schiavitù alla
libertà, dal buio alla luce, dalla confusione all'illuminazione ha sempre fatto parte
della nostra
tradizione, e noi lo riproponiamo per mostrare che stiamo percorrendo un sentiero tracciato
dalla
storia antica. [ ... ]
Si tratta di un'enorme complessità di riferimenti. La stessa mappa di
cui hai parlato, e che davate effettivamente al pubblico prima di ogni
rappresentazione, è piuttosto criptica, quasi iniziatica. Cosa credi che arrivasse di
tutto questo
agli spettatori? Non c'era il rischio che un tale rigore compositivo e un tale spessore politico
e filosofico si perdessero nella fluidità di un happening collettivo? Che delle libere
forme dello
spettacolo non si comprendessero le radici più profonde di pensiero?
[...] Quando facevamo Paradise Now generalmente avevamo
un pubblico di studenti e di persone
relativamente acculturate, abituate a frequentare il teatro: questo è vero. Inoltre a
quel tempo
venivano a vederci moltissimi studenti rivoluzionari, e la situazione era molto viva,
perché
c'erano molti gruppi nel movimento studentesco, ognuno dei quali metteva direttamente in
scena
i propri contenuti e i propri argomenti all'interno dello spettacolo: anarchici, maoisti,
trotzkisti,
Lotta Continua, e tutte le varie tendenze. E anche se la maggior parte delle cose che dicevano
non solo non mi trovavano d'accordo, ma mi facevano addirittura orrore, eravamo comunque
contenti che il nostro teatro fosse il luogo per dirle. All'ingresso davamo agli spettatori
questa grande mappa tutta piegata, raffigurante l'ascesa
rivoluzionaria, la strada verso la rivoluzione. E in calce al diagramma si legge la frase «La
trama
è la rivoluzione», che contiene un gioco di parole con il termine inglese plot:
dove per trama
dello spettacolo si intende l'argomento, come si sa: la madre di Amleto ha sposato l'assassino
di
suo padre e il principe torna a casa ... questa è la trama, l'argomento, ma per trama
rivoluzionaria
si intende, come posso spiegarlo ...
Un complotto, una strategia d'azione...
... esattamente: un piano deciso a tavolino: noi occupiamo il ponte la mattina e voi
procedete e
prendete la stazione ferroviaria nel pomeriggio ... questa è una trama rivoluzionaria.
Così noi davamo il disegno a tutti gli spettatori. Come puoi vedere
è molto bello: ci sono le due figure giustapposte, Adamo Cadmo e il corpo
cosmico dell'albero dei Chakra. E poi tanti elementi: l'I Ching, il tema dei
colori, il tema sociale,
digressioni poetiche, concetti filosofici, ogni cosa è rappresentata graficamente in
questo grande
diagramma, che ognuno può guardare e comprendere a vari livelli. Se uno conosce
bene Eric
Gutkind e la sua teoria della rivoluzione biblica, tanto meglio, ma la carta è molto
interessante
anche in caso contrario, perché è possibile leggere queste parole e recepirne
certi contenuti,
mentre il resto lo si può godere come poesia pura, di cui magari non si possiede
ancora la chiave,
ma che potrebbe essere la carta stessa a fornirla. Uno potrebbe dire: «Ah, questo è
Shelley, forse
farei bene a leggerlo». Oppure la si può considerare semplicemente bella da guardare:
ho visto
persone che l'avevano appesa alla parete. La si può guardare di tanto in tanto, in un
momento di
raccoglimento, e trovarvi qualcosa di interessante, che può illuminare la propria
meditazione. Per conto mio, ritengo che dovremmo entrare con leggerezza nel livello
intellettuale del nostro
urlo perché credo che la tendenza a giudicare quello che la gente comprende o meno
sia sbagliata
e abbia, in un certo senso, incapsulato la nostra cultura. [ ... ]
Paradise Now debuttò al Festival di Avignone il 23 luglio 1968, dopo una
lunga preparazione:
quasi tre mesi a Cefalù e circa altrettanti ad Avignone, presso il vecchio
Lycée Mistral,
trasformato in una sorta di «comune» aperta, dove confluirono centinaia di studenti, artisti,
hippies, giovani del movimento rivoluzionario. In mezzo c'era stata la vostra partecipazione
al
maggio parigino con la decisione di non far teatro sulle barricate in quanto l'attualità
della
«rappresentazione» di strada superava ogni finzione spettacolare. Ma quelle giornate
avevano
impresso una svolta nella creazione dello spettacolo. «Ciò che si è visto a
Parigi, anche con
l'occupazione dell'Odéon - ha scritto Julian Beck il 17 maggio
1968 ad Avignone - era l'inizio
di uno spirito rivoluzionario, ed è proprio questo il lavoro di Paradise Now.
Ma il lavoro di
Paradise Now deve accordarsi con quel che accade a Parigi e in effetti in tutta
la Francia. Si
deve riprendere la piéce, la sua struttura, le tappe rivoluzionarie». Questa
necessità del teatro
di «accordarsi» con la realtà segnava un ulteriore passo avanti nel processo di
superamento
della divisione fra arte e vita che avevate intrapreso fin dai vostri primi spettacoli. A un teatro
che celebrava l'unione rituale dell'attore con lo spettatore seguiva il teatro dell'azione; la
struttura di Paradise Now procedeva infatti, ciclicamente, dal rito alla visione
all'azione, e a
quest'ultimo livello lo spettacolo si alimentava dell'apporto concreto degli spettatori, i quali
ne
determinavano gli sviluppi attraverso il contributo della loro cultura e dei loro comportamenti
...
Noi abbiamo creato Paradise Now quando Martin Luther King e Robert
Kennedy sono stati
assassinati, quando le Black Panthers si stavano organizzando e la lotta armata era molto
calda,
quando sembrava che la possibilità della rivoluzione fosse vicina: Doveva esserci
una
rivoluzione? Che tipo di rivoluzione avrebbe potuto o dovuto esserci? Grossissime domande!
Si
fa presto a dirlo, ma la difficoltà era enorme, perché c'era un movimento in
grande espansione
ma disomogeneo e privo di solidarietà. Quando abbiamo creato Paradise Now
lo facemmo in
quell'atmosfera. Era anche il periodo in cui c'erano quei drammatici bagni di sangue in
Bolivia -
oggi parleremmo della Bosnia o di piazza Tienanmen, che è passata da un po' ma non
sarà mai
passata, o della Somalia o del Kuwait - e da tutte queste situazioni incandescenti si levava un
appello: Vogliamo che lo rappresentiate! Fatelo! Rappresentatelo per noi! La struttura di
Paradise Now era molto complicata. Consisteva di questi dieci gradini della
scala
e ogni gradino aveva tre sezioni: rito, visione e azione, in cui invitavamo il pubblico a
rappresentare qualcosa, se lo voleva, con le tecniche e le forme che avevamo suggerito nelle
due
sezioni precedenti. Loro erano comunque liberi di usare la forma che volevano, l'unico limite
che
ponevamo era rispetto alla violenza, perché solo essendo non violenti è
possibile prendere
qualunque direzione pensabile e fare straordinari esperimenti. Questo è quanto
abbiamo
dimostrato con Paradise Now; e avemmo la fortuna di farlo in grandi teatri,
davanti a pubblici
molto vasti, in posti meravigliosi dove siamo riusciti, nel corso delle dieci scene (attraverso i
dieci riti, le dieci visioni e le dieci sezioni di teatro libero), ad andare molto lontano nella
direzione del rivoluzionario spirito paradisiaco.
La partecipazione degli spettatori a Paradise Now ha conosciuto
episodi particolarmente
significativi, fin dalle prime rappresentazioni avignonesi (non a caso interrotte dopo sole tre
repliche), con il pubblico dei non paganti che premeva fuori dai cancelli per entrare e,
all'interno del Cloître des Carmes, gli spettatori che invadevano gradualmente la scena
unendosi agli attori. Me ne vuoi parlare?
Lo spettacolo iniziava con un pezzo chiamato «Fuori i cancelli del Paradiso», in cui
ognuno di
noi andava fra il pubblico e parlava con gli spettatori. Se ci parlavano a loro volta, noi non
rispondevamo, ci limitavamo a ripetere la stessa frase. Ci lamentavamo con gli spettatori
della
miseria del mondo e delle nostre vite a partire dalle questioni più generali: «Non so
come
fermare le guerre», per arrivare a quelle riguardanti la libertà individuale: «Non ho il
diritto di
fumare hascisc», «Non ho il diritto di togliermi i vestiti di dosso». Ci rivolgevamo a ogni
spettatore in modo molto personale e diretto, spostandoci in mezzo a loro per il teatro. A ogni
ripetizione esprimevamo più passione e più frustrazione rispetto all'abuso
che ci era imposto, il
volume della voce si alzava, la temperatura cresceva, finché finivamo con un urlo
collettivo. Alla fine dell'urlo, silenzio. Poi iniziavamo con un'altra frase. Trenta attori
andavano per il pubblico
dicendo: «Non si può vivere senza denaro! [crescendo:] Non si può vivere
senza denaro!
[sempre più forte:] Non si può vivere senza denaro!. [urlando:] Non si
può vivere senza
denaro!!!» e poi «Aaaah!!!»: l'urlo. E quindi il silenzio. Gli spettatori a volte ci parlavano,
noi
non rispondevamo. A volte dicevano cose molto sgradevoli o molto stupide, a volte invece
molto
brillanti e interessanti. Ma, ogni volta che uno spettatore ci parlava e noi ci voltavamo senza
rispondergli, diventava un nostro obbligo tentare di portarlo in Paradiso, nelle cinque o sei
ore
seguenti. Questo era il nostro scopo. Se dicevo a qualcuno «Non ho il diritto di togliermi i
vestiti
di dosso» e questo era un tale che voleva fare il macho e mi diceva: «Vieni a casa mia baby,
lì
ti puoi togliere i vestiti!», io me lo sarei ricordato, sarei ritornata da lui e lo avrei condotto in
Paradiso, ma non nel modo che lui pensava. Lui diventava il mio oggetto e io sarei stata il
traghetto che lo avrebbe portato nella traversata. Ad ogni gradino lo spettacolo rompeva
sempre più la situazione formale finché, alla fine,
toglievamo via le sedie degli spettatori, le mettevamo sul palcoscenico (a volte questo
richiedeva
un certo lavoro che scontentava moltissimo i direttori dei teatri) e tentavamo di portare
questo
gruppo di persone in un viaggio durante il quale, una dopo l'altra, le nostre resistenze alla
possibilità del paradiso si sarebbero infrante. Oh, a volte era estremamente difficile!
Abbiamo
anche incontrato comportamenti violenti, che abbiamo aggirato con un lavoro molto deciso
perché non era assolutamente quello che volevamo. Ci è capitato ogni genere
di assalto sessuale. Era il periodo della liberazione sessuale ed erano molte le persone
nel gruppo disposte a fare
realmente l'amore con gli spettatori. Alcuni di noi l'hanno fatto, altri no; alcuni si toglievano i
vestiti di dosso, altri no. Non avevamo programmato che questo avvenisse, ma gli spettatori
potevano farlo comunque, e molto spesso lo facevano. Così, all'interno dello spazio
chiuso del
teatro, era possibile sperimentare tutte le interrelazioni possibili, allo scopo di favorire il
confronto rivoluzionario degli uni con gli altri, che deve necessariamente fondarsi sul
coraggio
di non mentire, di mostrare la propria vulnerabilità (di cui la nudità è
l'immagine più eloquente)
e di scardinare tutti i tabù per proclamare: «Diamo inizio al Paradiso. Siamo pronti
per il
Paradiso adesso! Non aspettiamo centinaia di anni, non aspettiamo di arrivarci in
cinquant'anni
o dopo la rivoluzione ... Adesso! Questo è il nostro momento rivoluzionario! Cosa
facciamo tutti
insieme? Cosa programmiamo?».
Il teatro è nella strada!
E alla fine Julian gridava: «Il teatro è nella strada!». E uscivamo in strada con
queste idee e
queste teorie e questi abiti o mancanza di abiti ... e lì incontravamo la polizia che ci
arrestava.
E allora dicevamo al poliziotto: «Questo è l'atto finale del nostro spettacolo, e tu stai
recitando
la parte dell'agente che ci arresta!» e il poliziotto arrabbiatissimo: «Questo mai! Non faccio
parte
del vostro spettacolo!» e noi: «Sì invece, e non puoi fare altrimenti, perché tu
sei un attore e io
un'attrice e stiamo recitando insieme la vita vera: tu ed io, la vita vera, l'arresto del Living
Theatre nel Paradiso ritrovato, lo spettacolo Paradise Now della vita vera! Che
ne dici?» Grrrr!
Questo era davvero sconvolgente per i poliziotti: essere inclusi da noi nel nostro spettacolo
proprio mentre ci stavano arrestando o intendevano intimidirci. Tutto ciò
è stato anche l'inizio della nostra indagine sul sadomasochismo. Loro volevano che
noi
provassimo l'umiliazione della prigione e noi facevamo sentir loro l'umiliazione sempre
presente
dell'attore. Era come dire: se non vuoi renderti ridicolo non devi fare l'attore; devi essere
disposto
a mostrarti assurdo, vulnerabile, ridicolo, oppure non puoi recitare. E questo è vero
anche per
i più grandi attori da premio Oscar, te lo potrebbero dire tutti nella storia del teatro,
ne sono
sicura, tutti gli attori: è ovvio che devo essere disposto ad essere ridicolo fino in
fondo per essere
un attore fino in fondo. E l'invenzione di questo ruolo dell'agente che esegue l'arresto, la
creazione del collega attore era sconvolgente e anche molto illuminante, perché non
è che li
insultassimo: loro pensavano che stessimo recitando una scena dello spettacolo, e non
potevano
accusare nessuno per questo. Era il modo di farli riflettere sulla relazione fra noi e loro.
Naturalmente loro rifiutavano tutto ciò, ma capitava anche che accettassero e allora
dicevano:
«Bene, recito anch'io come te». Abbiamo incontrato poliziotti di vario tipo. Alcuni di loro
capivano che in questo modo potevano persino riconquistare la loro predominanza, che se si
dimostravano disponibili a recitare il loro ruolo potevano recuperare la loro
superiorità, mentre
se non facevano altro che protestare si trovavano nella condizione di resistere a noi, gli
arrestati,
mentre noi non stavamo resistendo a loro che ci arrestavano: una strana posizione. Ma il
problema fondamentale di Paradise Now (che emerge anche da questi episodi
con la
polizia) era come cambiare la natura della relazione fra gli individui e quindi con gli
spettatori.
Era il '68-'69 e la domanda fondamentale da porci era: chi siamo gli uni per gli altri?
Paradise
Now poteva durare dalle tre alle sei ore, noi lasciavamo che andasse avanti, eravamo
soliti dire:
«Ci si mette il tempo che ci si mette a raggiungere il Paradiso». Lasciavamo che si
realizzasse
quella che Julian chiamava «confusione creatrice», una situazione molto difficile per me, ma
molto gratificante per lui, al quale sembrava bellissimo lasciare che l'intero spazio diventasse
un
totale blah blah di gente urlante, salmodiante, in un crescendo emotivo, anche di rabbia,
lasciare
che tutto si perdesse nel frastuono per poi ricondurlo a uno dei nostri rituali. Era una cosa
molto
bella anche teatralmente, uscire da questa confusione per entrare nel rituale successivo. Ogni
gradino aveva la sua propria sensibilità, il proprio colore, la propria poesia, e
differivano l'uno
dall'altro in una spirale ascendente. E c'era gente che lasciava il teatro solo alla fine e gente
che
se ne andava prima della fine. Ma tutti sentivano realmente di essere in viaggio verso il
Paradiso.
La gente che restava fino alla fine usciva in strada con noi. Se oggi riguardo quelle immagini
rimango stupefatta: l'incandescente gioia paradisiaca con cui uscivamo dal teatro! Eravamo
realmente pronti per una gioiosa, estatica frenesia rivoluzionaria, e la gente ha paura della
frenesia. Ma si può essere frenetici quanto si vuole se non si è violenti. Solo
nelle persone
violente la frenesia è pericolosa.
Sarebbe ancora possibile Paradise Now oggi?
Allora, quando lasciavamo il teatro, avevamo l'impressione di uscire da un'esperienza
catodica
e nutritiva: catodica non solo nel senso di mandare in fumo il vecchio mondo, ma di essere
realmente pronti a entrare nel nuovo. A questo concorrevano certamente la struttura pacifica
dello spettacolo, il tempo storico in cui ci trovavamo e la sensazione che quello che facevamo
era importante in relazione a quanto stava succedendo nella storia. Tantissime persone sono
ancora influenzate da quella esperienza. Io certamente lo sono stata come attrice. Ci capita
spesso di incontrare persone che ricordano ancora l'esperienza di quella notte, che è
stata forse
un po' simile a quella di chi andava ai misteri Eleusini e ne usciva in qualche modo
illuminato
dalla luna, così noi uscivamo fuori dal teatro preparati ad affrontare diversamente le
difficoltà
del mondo, diversamente conformati: e questo era lo scopo dello spettacolo, che era molto
ambizioso, molto rivoluzionario e molto temerario. Mi piacerebbe poter tornare indietro, al
momento in cui eravamo pronti per una tale esperienza. Noi, nel Living Theatre, ci sentiamo
pronti, ma Paradise Now è stato possibile perché era il 1968 e a
rappresentarlo come un puro
rituale nel 1999 forse non succederebbe niente, crediamo ... o forse dovremmo provare.
Il fatto è che lo spirito delle persone in questa fase si trova sotto zero, e non
credo che potremmo
risollevarlo se non artificialmente, cosa che non mi interessa. Per avere un avanzamento
rivoluzionario senza rivoluzione bisogna che ci sia un processo molto
forte e profondo. Un lampo veloce non può produrre un avanzamento rivoluzionario:
sarebbe
qualcosa di irrilevante, capisci. Ognuno di noi potrebbe correre per strada urlando qualunque
cosa, col solo risultato che la gente direbbe: «Quello è pazzo!» e non ci penserebbe
più. Ma noi
dobbiamo far sentire attraverso la nostra arte che quello che urliamo è così
bello, pieno di verità
ed estatico che non ci si può non credere.
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Storia del Living Theatre: teatro, idealità,
esistenza
Il Living Theatre
è nato a New York nel 1947 dal grande sogno di due giovani artisti: Julian
Beck, promettente pittore della cerchia degli espressionisti astratti e Judith Malina, attrice e
regista allieva di Erwin Piscator. Il teatro ha rappresentato fin da subito, per loro, il mezzo
per realizzare ideali artistici ed esistenziali non comuni. Il teatro come la sinagoga -
scriverà
Julian Beck - un luogo "non per venerare ma per scoprire la via della salvezza [...], trovare
l'esperienza della vita [...], spiccare il volo e levitare". Fin dagli anni americani, il Living
Theatre ha lavorato al di fuori del sistema commerciale, in condizioni di estrema
difficoltà e
di continua emergenza. Ogni allestimento di successo era un momento di svolta e imponeva
nuovi orientamenti alla ricerca. L'impegno morale per un teatro che fosse "degno della vita
di ogni spettatore" incalzava ogni traguardo e metteva in guardia contro i facili
consensi. Nel 1963, The Brig (di Kenneth Brown), la ricostruzione
iperrealistica di una giornata in una
prigione americana per marines, segnò il rifiuto (di segno artaudiano) di ogni
illusione,
inganno, o seduzione teatrale e spostò la ricerca sulle fonti più autentiche
della
comunicazione, sul lavoro dell'attore, "grande eroe", in grado di "creare, produrre la vita
sulla scena [...] facendo qualunque cosa al limite della possibilità". Poi, con l'ultima
rappresentazione newyorkese dello spettacolo, nel teatro sigillato dagli agenti del fisco, si
aprì una fase di ulteriori e più radicali infrazioni dei confini teatrali, che si
realizzarono negli
anni dell'"esilio" europeo (scelto da Julian Beck e Judith Malina a partire dal 1964), fra
azioni di strada e free theatre, improvvisazione e sit-in davanti a
carceri o tribunali. Il Living si trasformò, negli anni itineranti attraverso l'Europa
e in America Latina, in
microsocietà alternativa: "concetto di una compagnia teatrale, un gruppo di lavoro,
come
comune anarchica". Le parole di Julian Beck descrivono l'utopia di un teatro che infrange il
proprio involucro estetico per farsi esperienza esistenziale, come ha notato Eugenio Barba. In
questa utopia risiede l'esperienza precorritrice di un intero versante della ricerca teatrale
degli anni Settanta. Agli spettacoli "leggendari" di questo periodo, Mysteries and
smaller
pieces (1964), Frankenstein (1965), Antigone (1967),
Paradise Now (1968) devono essere
ricondotti infatti i principi ispiratori dei cambiamenti avvenuti nel successivo ventennio di
innovazioni teatrali: l'autonomia creativa dell'attore, la ribellione alla preminenza registica,
l'uso del corpo contro il primato della parola, la necessità della motivazione
personale
dell'interprete, l'improvvisazione e la creazione collettiva. All'inizio degli anni '70, la
sovversione ideologica e formale del Living si radicalizzò con la
scelta della strada, e quindi con gli spettacoli raccolti nel ciclo
dell'Eredità di Caino, che si è
protratto dal 1975 al 1985. Alla progressiva dissoluzione del teatro nel sociale corrispondeva
la scelta del gruppo di non essere teatro "maggiore", neppure alternativo, l'abbandono di ogni
residuo di convenzione scenica, la negazione stessa del teatro e, ancora, la pratica itinerante
del nomadismo. Dal 1980 è nata una nuova produzione di spettacoli
(Masse Mensch nel 1980, The yellow
Methuselah nel 1982, The archeology of sleep nel 1983). La
straordinaria interpretazione di
That time di Beckett, per il gruppo La Mama di New York, è stata
l'ultima interpretazione di
Julian Beck, che è morto il 14 settembre 1985. Alle pagine del
Theandric il grande visionario
del teatro ha continuato ad affidare, fino alla fine, il senso della necessità etica, ormai
dolorosa, ma irriducibile del suo lavoro: "Faccio il mio teatro perché questa è
la bellezza che
offro in risposta alla distruzione nel mondo. Lo faccio perché devo farlo". Nessun
ripiegamento su produzioni di maggiore vendibilità e di più facile
accettazione da
parte del mercato teatrale, ma piuttosto il continuo interrogarsi sull'"azione positiva" del
teatro e dell'artista in tempi di emergenza accompagna ancora l'attività del Living
Theatre.
Judith Malina ha aperto un nuovo teatro a New York, che ha diretto con Hanon Reznikov dal
1989 al 1993, quando è stato chiuso per motivi di agibilità. Ma continua, fra
ospitalità in vari
teatri newyorkesi e tournées all'estero, la produzione di nuovi spettacoli del gruppo,
ancora
fortemente sperimentali e tesi ad indagare le leggi profonde e misteriose del teatro: il confine
tra finzione e realtà, il rapporto fra l'attore e lo spettatore, la natura della
comunicazione
teatrale, le sue leggi e la sua grammatica. Il Living Theatre sarà di nuovo in Italia
a partire dall'aprile prossimo, per presentare due
spettacoli: Mysteries and smaller pieces (riallestimento in occasione del
trentennale della
prima) e Anarchia (l'ultima creazione del gruppo).
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