Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 25 nr. 217
aprile 1995


Rivista Anarchica Online

Vivendo la mia vita
di Attilio Bortolotti

L'undici febbraio è morto a Toronto, in Canada, Attilio Bortolotti. Aveva 91 anni.
Con lui scompare uno degli ultimi militanti del movimento anarchico di lingua italiana in Nord America. Pubblichiamo in queste pagine una sua «autobiografia» raccolta dallo storico anarchico statunitense Paul Avrich.
E (a pag.12) un ricordo firmato da due redattori della nostra rivista.

Sono nato il 19 settembre 1903 a Codroipo, un paese di circa quattromila (oggi tredici o quattordicimila) abitanti nel centro del Friuli, fra Trieste e Venezia. Il nome che gli diedero i romani 2500 anni fa era Quadrivium, a indicare le quattro strade che vi convergevano, dalle Alpi al mare e da est a ovest. Codroipo si trova nella provincia di Udine, regione del Friuli-Venezia Giulia. Eravamo friulani e la nostra lingua era il ladino, il ladino simile a quello che si parla in Svizzera e in alcuni paesi dell'Austria vicini alle Alpi carniche. Laggiù c'è una valle che possiamo definire anarchica, Prato Carnico in val Pesarina, a due chilometri dal confine con l'Austria, dove andavo di tanto in tanto e parlavamo la stessa lingua. La gente di lì è ancora anarchica, ma non vanno più come un tempo a lavorare in Austria. Hanno preso un edificio insieme a dei socialisti e lo usano come luogo d'incontro. La maggior parte degli anarchici sono muratori, ma c'è una famiglia, i Villaris, che fabbrica orologi famosi e diffusi in tutto il mondo. Libera e io eravamo lì nel 1986, ma ci siamo stati solo per cinque o sei ore. Abbiamo incontrato Petris e Del Fabbro, due anarchici dei vecchi tempi. Quelle montagne, a due ore di macchina da Codroipo, sono favolose.

Spirito ribelle
Mio padre Luigi era un muratore poi diventato costruttore ed era un amante dell'arte. Ogni anno si prendeva due settimane per andare a Venezia, Firenze e Roma, da dove tornava regolarmente con bozzetti di cornici e altri oggetti. Era un ottimo artigiano che aveva imparato da solo. A Codroipo si teneva un mercato ogni martedì, e l'ultimo martedì il mercato era dedicato esclusivamente agli animali: maiali, capre, tori e cavalli. Il nostro paese era situato in una valle alluvionale con terreno rossiccio fertilizzato con concime sia animale che umano, come in Cina. Mio padre costruì delle gigantesche vasche di cemento per tenervi il concime. I prati tutt'intorno erano così ricchi di concime che avevano preso un colore quasi blu. E poi c'erano vastissime distese di vigneti. Ogni famiglia aveva una vacca e una pecora che producevano il latte necessario. Mio padre conduceva un'esistenza relativamente serena.
lo ero il quindicesimo di diciotto figli, l'unico con uno spirito ribelle. Da bambino mi rifiutavo di andare in chiesa. A dieci anni io e un amico sentimmo una povera vedova della zona lamentarsi perché non aveva il concime con cui fertilizzare la propria terra e, sapendo che un vicino teneva da anni una gran quantità di fertilizzante inutilizzata, andammo a prenderne un po' per lei. Fummo così denunciati alla polizia che ci ammonì con un sorriso. Nel 1917, durante la prima guerra mondiale, vedemmo un soldato italiano appeso per i pollici a un albero per punizione e lo liberammo. Diventai antimilitarista e da allora tale sono rimasto. Allo stesso tempo sono rimasto fortemente antireligioso: come può «Dio» permettere che accadano simili tragedie? Avevo quattordici anni, ero nato ribelle.
Dei miei diciassette fratelli solo due sono ancora vivi: una sorella vive in Ontario e un'altra in Italia. Le faccio visita di tanto in tanto. Dei diciotto figli, sette sono morti nell'infanzia e dei rimanenti undici io sono l'unico a non essere rimasto vittima della religione. Mio padre era molto religioso, mia madre, sì e no, come spiegherò tra breve. Io ero mancino. Mio padre non ne voleva sapere e mi picchiava come fossi un pezzo di pietra. Io, per tutta risposta, lo odiavo. Quando avevo otto anni e frequentavo le elementari, venne approvata una legge che imponeva un'ora di istruzione religiosa (dottrina cattolica): ogni giorno in chiesa dalle otto alle nove. Così ci andavamo, in quattro o cinque. Un giorno dissi: «Perché ci andiamo? Ogni giorno è la stessa cosa. Andiamo a giocare a dottori e infermiere». Passammo la voce a quattro ragazzine e loro risposero che non era una brutta idea. Andammo tutti in un granaio a studiare anatomia. Fu molto bello e ce la spassammo.
Un mattino cominciò a piovere e vidi mio padre entrare nel cortile prospiciente il granaio. Scesi volando le scale e continuai a correre per tre giorni, dormendo in un deposito per auto alla stazione ferroviaria. Alla fine due dei miei fratelli mi scovarono e mio padre mi diede una ripassata che ricordo ancora come fosse oggi. I nostri rapporti si chiusero lì. Non abbiamo più parlato. Mi assegnò i lavori di pulizia quotidiana, mi fece togliere i chiodi dalle assi di legno, ma non parlavamo più. Nel 1913, avevo passato da poco i dieci anni, si ammalò di una bronchite che si trasformò rapidamente in polmonite, e nel giro di due o tre settimane morì. Aveva cinquantatré anni. Non provai alcun dolore. Per me fu come un sollievo. Mentre aspettavo l'arrivo della banda che doveva accompagnare le esequie, un amico mi offrì una lira per il mio coniglio bianco, accettai e mi allontanai per andarglielo a prendere. Quando tornai la banda aveva già cominciato, il prete era arrivato e tutti piangevano. I miei occhi invece erano completamente asciutti. Non provavo né rimorso né tristezza. Era un grande costruttore, un grande disegnatore di case, ma era così traviato dalla religione che non riusciva a comportarsi come un essere umano.

Dio dev'essere un profugo
Mia madre, Maria Pittana, era una donna davvero generosa. Quando avevo quattordici anni, durante la guerra, i tedeschi arrivarono nel nostro villaggio. Eravamo nell'ottobre 1917. Avevamo una grande casa su tre piani con un'ampia cucina al pian terreno, stanze da letto al secondo e un granaio nel sottotetto. In primavera allevavamo bachi da seta, la più grande industria della regione. Tutti davamo una mano a tagliare i rami e togliere le foglie dai gelsi. Papà aveva una carriola a due ruote per trasportare gli attrezzi avanti e indietro dal lavoro. Noi lo usavamo per metterci i rami e le foglie. Durante la ritirata italiana dal fronte orientale, i soldati venivano e ci domandavano della polenta. Ma noi avevamo solo vino e mia madre glielo dava. Poi arrivarono i tedeschi, un ufficiale e due uomini, e videro i soldati italiani che li salutarono. Ma per loro non era rimasto più niente, così gli italiani lanciarono delle granate e li uccisero. Mia madre e io fuggimmo da mio zio in un villaggio vicino. Quando ritornammo, il mattino successivo, trovammo la strada ricoperta di cadaveri. Tutte le finestre erano in frantumi, i materassi rossi di sangue. Gli arditi, ubriachi di vino e desiderosi di combattere, avevano attaccato e ucciso gli austriaci, insieme ai soldati italiani che non volevano più combattere e desideravano soltanto tornarsene a casa.
Mia madre mi chiese di uscire e andare a cercare da mangiare. M'infilai un elmetto e un cappotto, andai nei magazzini e portai a casa ogni genere di cose con la nostra carriola, viaggio dopo viaggio, portando pesce in scatola, stoffe, rocchetti di filo, posateria. Nessuno cercò di fermarmi. Mamma era sbalordita. «Tilio», disse, «siamo ricchi!». Mi rispedì fuori a vedere se riuscivo a trovare una vacca per il mio nipotino di due anni che viveva con noi. La trovai e la sedussi con dell'erba, poi le misi una corda intorno al collo e la condussi a casa. Due giorni dopo mia madre mi mandò a cercare un carretto a quattro ruote al quale attaccare la vacca per andare nelle vicinanze a scambiare coltelli e forchette per grano e frumento. Poi io e la mamma facemmo ritorno al suo paese. Lungo la strada passammo di fianco a una fossa piena di cadaveri. «Oh, mio dio!», esclamò. Io dissi: «Se esiste un dio, perché consente le guerre e gli assassinii visto che è tanto potente?». Lei mi guardò e rispose: «Oh, dio dev'essere un profugo». Quando sentii quelle parole fu come se il mio corpo fosse attraversato da dieci orgasmi, tanto ero felice. Prima che il sole fosse calato, avevamo portato a casa grano e fagioli e li avevamo nascosti.
Oltre a una vacca trovai un mulo. Lo scambiammo con un mugnaio per alcuni sacchi di frumento. Alcuni giorni più tardi, un ufficiale tedesco si presentò sulla porta della nostra casa. Era una giornata molto fredda. Ci stavamo riscaldando intorno al camino quando sentimmo risuonare le campane della chiesa. Stava per avere inizio un'incursione aerea. Ci stringemmo gli uni agli altri in giardino. Le bombe caddero a poca distanza, piovevano macerie dappertutto. Mio nipotino si alzò in piedi e cominciò a strillare. Era come impazzito. Il capitano tedesco con un balzo lo prese e lo rimise a terra proteggendolo con il proprio corpo. Quando vidi quella scena, nella mia testa si produsse una rivoluzione. «Cosa succede?», pensai. La propaganda diceva che i tedeschi stavano uccidendo donne e bambini, e che alle donne in Belgio e in Francia tagliavano i seni. Di fronte a quell'immagine compresi che si trattava in gran parte di menzogne. Poi suonò il cessato allarme e ritornammo al camino. Osservavo il capitano con aria sbalordita, il mio volto era il volto di chi interroga. Mi domandò per quale motivo lo stessi guardando a quel modo. Gli dissi ciò che avevo letto sui giornali a proposito delle atrocità compiute dai tedeschi in Belgio e in Francia. Rispose: «Ragazzo, voglio che ascolti bene quello che ho da dirti. lo sono un professore; stavo insegnando all'università di Berlino quando sono stato chiamato alle armi. Non sento di avere il diritto di ucciderti perché sei nato qui e tu non dovresti sentire il diritto di uccidere me perché sono nato a Berlino. Voglio ricordarti queste tre parole: "Freiheit über alles!"».

Innamorato del tornio
Queste parole mi aiutarono, alla fine della guerra, nel 1918, a maturare l'idea di non essere un soldato per nessuno. Allora avevo quindici anni. Scrissi al mio fratello più vecchio, William (Guglielmo), che faceva l'imprenditore a Windsor, Ontario, di spedirmi le carte necessarie per andare in Canada, perché non volevo fare il soldato per nessun governo. Nel giro di poche settimane ottenni quelle carte. Andai insieme a un altro fratello più vecchio, Umberto, al consolato inglese di Venezia. Ci diedero i documenti necessari per entrare in Canada. Ma non c'era una cabina libera su nessuna nave a vapore. Per il passaggio fummo costretti ad aspettare fino al giugno 1920.
Lasciai la casa il 19 giugno 1920. Avevo sedici anni e nove mesi. Per raggiungere Genova mi ci vollero tre giorni a causa di uno sciopero nelle ferrovie. Eravamo in quattro: io, mio fratello
Umberto e due amici. Dovrei ricordare che mio padre e i miei fratelli volevano farmi diventare un costruttore. Ma io volevo fare il meccanico: ero innamorato del tornio. Un amico di mio padre aveva un laboratorio nella nostra città, e ogni volta che ci passavo davanti e vedevo il tornio non riuscivo a staccare lo sguardo. Ne ero innamorato come di una bellissima ragazza. Nel maggio 1915, non avevo ancora dodici anni, diventai apprendista di un fabbro ferraio che faceva dei magnifici lavori con il suo martello e la sua lima, senza nemmeno usare il trapano. Quando nel 1917 lui se ne andò a Bologna, io diventai l'unico fabbro del paese. Si rivolgevano tutti a me per chiavi, serrature, strumenti affilati e via dicendo. Gli agricoltori venivano da me per piccole incudini su cui affilare le loro falci. Accumulai un'enorme quantità di arnesi abbandonati dai soldati italiani.
A ogni modo, arrivammo a Ellis Island dove fummo tenuti per quattro o cinque giorni mentre i funzionari controllavano che avessi effettivamente un fratello a Windsor. Alla fine ci fu concesso di proseguire. Giungemmo a Detroit e dormimmo alla stazione ferroviaria. Il mattino seguente camminai lungo il Detroit River dove individuai il battello per Windsor. Tornai alla stazione con i miei tre compagni e partimmo alla volta di Windsor, io con la mia valigia di legno piena di vestiti e quattordici dollari in tasca. Camminammo su per un pendio fino a Sandwich Street dove vidi un taxi con il cartello «Walkerville», il posto in cui mio fratello aveva una casella postale. Il conducente mi indicò dove scendere. Comprai arance e sardine e mi sedetti sulla strada. Alle quattro in punto vidi un uomo in bicicletta. Era mio fratello Guglielmo. Erano passati sei anni dall'ultima volta che lo avevo visto. Adesso aveva ventiquattro anni.
Guglielmo a Windsor conosceva un imprenditore italiano che stava scavando pozzi e pavimentando strade e che aveva un negozio di ferramenta. Vi lavorai per tre anni come aiutante di un fabbro ucraino, un uomo meraviglioso. Cominciai a frequentare una scuola serale per imparare l'inglese e il lavoro di officina meccanica. Diventai un vero esperto di lavori al tornio, e quando lasciarono a casa il tornitore canadese mi passarono il suo lavoro, in un modo che fu la mia Waterloo. Un giorno stava fissando un generatore in laboratorio. Il capo venne da me e mi disse di sbrigarmi. Per tre anni non mi aveva mai chiamato per nome, solo «dago» o «wop». Risposi che stavo facendo del mio meglio. Non era soddisfatto. Gli dissi di andare al diavolo e di lasciarmi lavorare. Cominciò a urlare. Gli lanciai il martello colpendolo alle gambe e lui cadde. Il giorno dopo dovetti andarmene.

Ateo non più cattolico
Per me non c'era più nessuna possibilità di trovare lavoro a Windsor. Così me ne andai alla Chrysler di Detroit. Era il 1922. Fu allora che diventai anarchico. Nella biblioteca pubblica di Windsor avevo cominciato a studiare storia della religione. Mio fratello inoltre aveva un libro che s'intitolava Storia universale e che descriveva il sistema solare: i pianeti, i satelliti, cose per me assolutamente nuove, che non sapevo nemmeno esistessero. Attirarono la mia attenzione, ed ebbi appena il tempo di passare da Darwin a Spencer che già avevo percorso metà pianeta. Un sabato sera, nel 1921, quando ero solito riunirmi con altri nell'appartamento di un droghiere, incontrai un tizio che (lo scoprii in seguito) si definiva anarchico. Cominciò a discutere di religione. Mi feci coraggio e dissi ciò che avevo da dire: «D'ora in avanti sarò conosciuto come ateo, non più come cattolico». Mio fratello m'interruppe: «Cosa stai dicendo?». Ribattei: «Quello che sento».
Alcuni mesi più tardi, all'inizio del 1922, mi capitò tra le mani un volantino che spiegava perché Sacco e Vanzetti erano innocenti e come erano stati condannati senza che vi fossero prove sufficienti della loro colpevolezza. Andai in biblioteca e cercai di scoprire chi fossero Sacco e Vanzetti e cosa significasse la parola «anarchismo». Un po' alla volta passai in rassegna altri scritti, tra cui Fra contadini di Errico Malatesta e un pamphlet di Sébastien Faure. Mi ci vollero sei mesi per digerire tutto il materiale, ma mi toccò nel profondo. Nell'appartamento del droghiere, nel medesimo posto dove un anno prima avevo dichiarato il mio ateismo, allora dissi: «Sono un anarchico. Sono contro ogni governo e contro ogni autorità». Questa volta mio fratello non mi chiese nulla. Ma due dei presenti vennero verso di me e mi strinsero la mano.
Poco dopo entrai in contatto con due compagni di Detroit. Un muratore del Friuli era arrivato a Windsor e mio fratello gli aveva dato lavoro. Una domenica mattina mi chiese se mi andava di attraversare gli States. Gli risposi di sì e mi consegnò una lettera per un amico di Detroit. Fui abbastanza fortunato da sfuggire ai controlli dell'ufficio immigrazione e fare quello che mi aveva chiesto. Il trucco consisteva nel mischiarsi alla folla che stava sulla prua mentre il battello attraccava e dire con tranquillità: «Ritorno a Windsor in giornata». Inoltre indossavo un cappello che mi conferiva un'aria più o meno rispettabile. Non ebbi alcun problema. Mi avviai in direzione dell'indirizzo segnato sulla lettera (Rivard Street) che si rivelò essere quello di un negozio di dolciumi. Domandai del proprietario. L'uomo mi rispose: «Cernuto sono io». Era un anarchico siciliano e il posto era un ritrovo anarchico. Gli consegnai la lettera. Mi mostrò degli scaffali pieni di libri e disse: «Forse troverai qualcosa che ti piace». Ne presi alcuni.

Amore libero
Fu così che diventai anarchico. Quello, in Italia, era il periodo della marcia di Mussolini su Roma e della reazione. Oltre a definirmi anarchico diventai antifascista. Ogni domenica mattina andavo a Detroit dal gruppo «I Refrattari». Un membro attivo, Bertoli, era un ottimo oratore, che riceveva un sacco di posta dall'Italia. Un altro era Ugo Baldi, un attore professionista che organizzava una filodrammatica. A Windsor, quasi ogni sabato si tenevano un ballo e una recita che servivano a raccogliere pochi dollari da inviare oltreoceano. Fu lì che imparai a infilare la mia mano nella tasca, ogni sabato e ogni domenica, e tirare fuori tutto quello che potevo, di solito quattro o cinque dollari, una buona cifra in quei giorni. Non fumavo, non uscivo con le fidanzate, preferivo le donne sposate. Lessi un libro, L'Amore libero di Berthelot che provocò una rivoluzione tra metà degli italiani di Windsor - il resto non fu molto felice della mia iniziativa. A Detroit qualcuno mi diede. una copia del libro di Emma Goldman, Mother Earth, che perfezionò la mia idea dell'amore libero.
Il 29 luglio 1923 - ho dimenticato un mucchio di date ma quella la ricorderò sempre, la data nella quale Gaetano Bresci uccise il «Re Buono» - partecipai a un picnic a Detroit per commemorare l'evento. C'era una grande folla, più di duemila persone, italiani, spagnoli e qualche americano. Io ero lì con la mia ragazza, la moglie di qualcun altro. La nostra attenzione fu richiamata da una voce di tenore che c'invitò a metterci in circolo e ascoltare chi era Gaetano Bresci e chi era stato re Umberto. Era la voce del presidente, Umberto Martignago (padre di Libera), del «Libero Pensiero Group» di Sault S.te Marie. Dopo di lui parlarono altri due oratori, entrambi di New York: il direttore dell'«Adunata», un toscano che si chiamava Arturo Galvani, e Pedro Esteve, che parlò in spagnolo. Ci furono cinque o sei di noi, di Windsor, compreso Ghetti, un anarchico individualista, che pronunciarono qualche parola.
Fu a quel picnic che incontrai per la prima volta Ella Entolini, allora ventenne. Era una bella ragazza, uno spirito libero. Recitava in commedie a Chicago e Detroit. Venne a vivere a Detroit con Pitton, un anarchico. Era stata in prigione a Jefferson City, Missouri, con Emma Goldman. Dopo che Emma ed Ella furono rilasciate, toccò a Molly Steimer andare in prigione, e lei ed Ella cominciarono una corrispondenza. Anni dopo, quando Molly viveva in Messico, Ella le inviava insieme alle lettere due o tre dollari. Ella visse in Florida per parecchi anni prima della morte nel 1984. Era una persona interessante, un'avida lettrice. Non indulgeva in chiacchiere, ma aveva molto da dire. Non amava gli eufemismi, preferiva andare subito al nocciolo. Fu fedele sino all'ultimo all'ideale anarchico. Portava suo figlio Febo ai picnic in Crandon Park. Desiderava che risvegliassimo il suo interesse, ma così non fu. Ebbe un infarto, che la lasciò parzialmente paralizzata e morì poco dopo di tumore.
Come ho detto, ero solito andare a Detroit quasi ogni domenica e non incontrai mai problemi a recarmici. Una volta, tuttavia, il funzionario dell'ufficio immigrazione mi bloccò e mi chiamò da parte. Mi chiese di che nazionalità fossi. Io ero stanco di sentirmi ripetere quella domanda. Quando divenni anarchico m'innamorai anche dell'astronomia e della teoria dell'evoluzione di Darwin. Consideravo me stesso un essere umano e una creatura dell'universo. Inoltre, non sono italiano, sono friulano, parlo una lingua diversa. Così alla domanda replicai: «Sono nato in un paese che si trova a quarantasei gradi di latitudine e tredici di longitudine a est di Greenwich». Il funzionario rimase sorpreso. Restò per un istante con la bocca spalancata, poi disse: «Fila in ufficio!». Mi disse di ripetere quello che avevo detto agli altri funzionari. Così feci. «Ma di che nazione si tratta?», insistette uno di loro. Io dissi: «Prendi l'atlante e scoprirai dove si trova». Risero. Un ispettore - ebreo, con il pizzo - ci rifletté sopra, poi disse: «Dev'essere Italia orientale o Jugoslavia occidentale». Mi rispedirono a Windsor. Da allora, ogni volta che venivo fermato al confine, ripetei sempre quella frase.
A Windsor, in seguito alle mie attività antifasciste, i fascisti mi avevano messo sulla loro lista nera. Cercai di ottenere un posto di lavoro alla Ford, nello stesso posto dove più tardi lavorò Federico [Arcos], ma non mi presero. Per un certo periodo tornai a fare il fabbro, poi andai a Detroit a lavorare con mio fratello William ad alcune costruzioni (Si era spostato a Detroit nel 1925). Prima di me c'erano tre operai specializzati, così iniziai come lavoratore semplice. Dopo sei mesi mio fratello mi diede un martello e una cazzuola e mi mise a lavorare come muratore.
Nel 1926 la lotta con i fascisti a Windsor si fece più acuta e i compagni mi chiesero di unirmi a loro. Partecipai a un incontro organizzato dal console italiano, presieduto dal mio vecchio capo Luigi Merlo. Alzai la mano, ma il console fece finta di niente e io lo apostrofai come meritava: codardo. Sul palco, uno dei capi fascisti di Windsor disse: «Se hai fegato, sali qui sopra e parla». Mi tirai su il più rapidamente possibile e in cinque secondi raggiunsi il palco. Dissi al console che erano un branco di assassini, bugiardi e tutto il resto. Alle mie spalle c'era un ritratto del re. Lo strappai dalla parete e lo accartocciai con le mie mani gettandolo in faccia al console. Fu il segnale d'inizio degli scontri. In meno di un minuto tutti i presenti cominciarono a battersi tra di loro. I fascisti si ritirarono in un angolo. Mio fratello mi raggiunse con un paio di compagni e disse: «Tilio,andiamocene». Sentimmo le sirene della polizia in arrivo. «Andiamo a Detroit, stasera ce ne andremo all'opera a vedere Rigoletto».
Eravamo nel 1926: due giorni più tardi mio fratello mi disse di andare a Redford, un sobborgo di Detroit, per lavorare a una casa. Attorno alle dieci del mattino vidi una grossa macchina fermarsi di fronte al luogo dove stavamo lavorando. Dissi a me stesso: «Dannazione, questi tipi sono funzionari dell'immigrazione». Vennero avanti e uno di loro chiese di Attilio Bortolotti. Domandai se potevo essergli di aiuto. Girò il bavero della giacca e mi mostrò il suo distintivo. Dichiarai di chiamarmi Caligaris (un friulano che avevo incontrato a Ellis Island). Mi lasciarono andare. Mi dissero di mandargli un operaio per volta per l'identificazione. Chiamai prima uno del posto, gli altri li misi in allarme strillando in friulano. Tutti, compreso mio fratello Umberto, se la squagliarono. Non c'erano dubbi sul fatto che i funzionari fossero stati mandati dal console italiano o dai fascisti.

Segnalato dappertutto
Alcuni giorni dopo mio fratello William mi chiamò (allora vivevo a Detroit) e mi avvertì che i funzionari dell'immigrazione stavano arrivando. Passò a prendermi e ce ne tornammo a Windsor. Nel giro di cinque minuti arrivò un funzionario, ma la gente con cui ormai avevo legato gli disse che aveva sbagliato indirizzo. A Windsor non riuscivo a trovare lavoro. Ero segnalato dappertutto. Trascorsi la maggior parte del tempo a lavorare per Sacco e Vanzetti, raccolsi denaro e pubblicai un volantino. La gran parte dell'inverno 1926-1927 la dedicai a dipingere un ritratto in bianco e nero di Bakunin. Feci una cornice molto elaborata, mi ci vollero tre mesi per finirla: spine e aghi, come nella vita di Bakunin. Alla base della cornice scolpii un teschio, con nastri che fuoriuscivano dalle orbite con su scritto il seguente messaggio: «Dio Non Esiste». Sul lato sinistro scolpii Il pensatore di Rodin, accompagnato dalla scritta: «Anarchico è il pensiero, e verso l'anarchia va la storia». Alla sommità c'era una ragazza che scostava un velo nero dietro cui spuntava un sole raggiante («il sol dell'avvenire»). Il lato destro mostrava tre donne nude, con un nastro dove si leggeva: «Libertà e Uguaglianza». Non era niente male. Mio fratello lo portò a Detroit, dove venne messo in una lotteria. Non sono mai riuscito a scoprire chi lo ha vinto. Per riaverlo oggi sarei disposto a dare diecimila dollari.
Un giorno, mentre stavo ultimando la cornice, entrarono due poliziotti. «Bortolotti», disse uno di loro, «il vecchio (il capo della polizia) vuole parlare con te». Li seguii. Quando aprirono la porta, il capo mi disse: «Entra, ho qualcosa da dirti». Sulla sua scrivania vidi tutti i volantini che avevo pubblicato in italiano, insieme con delle copie in inglese. Dissi: «Deve piacervi quello che abbiamo pubblicato, chissà quanto ci avete messo a tradurli!». «Bortolotti», replicò, «voglio che tu sparisca da Windsor e dal Canada. Se non conoscessi tuo fratello Bill ti farei mettere dentro per vent'anni, come consente la legge approvata durante lo sciopero generale di Manitoba del 1919. Adesso puoi andare».
Mentre camminavo verso casa dissi a me stesso: «Cosa diavolo faccio ora?». Non avevo soldi. Dovevo ottocento dollari alla mia padrona di casa. Nell'ora di punta serale spesi cinque cents per il battello e tornai a Detroit. Presi una stanza. Il giorno successivo vidi un annuncio sul giornale che alla Ford cercavano un operaio specializzato in attrezzistica e tintura. Presentai domanda e sostenni un facile esame - fortunatamente, perché in quei giorni non sapevo nulla di trigonometria, fondamentale per ciò di cui avevano bisogno. Mi dissero di presentarmi il mattino dopo. Portai con me la mia scatola degli attrezzi e alcuni strumenti e diventai Albert Berthelot - dal nome dell'autore di Amore libero - fino a che non fui arrestato due anni più tardi.

Un'azione stupida, ma ...
Durante quei due anni, 1927-1929, tornai a Windsor di tanto in tanto per combattere contro i fascisti. Lo stesso feci a Detroit, dove gli scontri ebbero il loro culmine in occasione del Columbus Day del 1928: scoprimmo che i fascisti avevano intenzione di attraversare la città fino a Cadillac Square in camicia nera e insegne regali. Decidemmo di vedere così quello che potevamo fare. Comunisti e liberali dissero di volere unirsi a noi. Quando quel giorno arrivò - una vergogna per Detroit - ci ritrovammo soltanto in dodici, un comunista, due socialisti e nove anarchici. Sette di noi si appostarono sul lato nord della piazza, gli altri cinque a quello sud. Quando la banda attaccò Giovinezza, l'inno fascista, cominciammo a strillare: «Abbasso il fascismo! Assassini!» ecc. L'uomo che reggeva la bandiera fascista la lasciò cadere, tirò fuori una pistola e fece fuoco colpendo due compagni anarchici: Antonio Barra e Angelo Lentricchia. Barra fu ferito mortalmente, Lentricchia se la cavò. Quando i fascisti ci circondarono io afferrai uno di loro per i lunghi capelli neri e cominciai a prenderlo a pugni. Lo trascinai per i capelli il più lontano possibile. La polizia arrivò in motocicletta e a piedi con i manganelli alzati. Qualcuno mi chiamò per nome, un compagno che lavorava in un negozio di frutta e verdura. Mi
nascose dietro quattro o cinque barili pieni di mele, giusto un attimo prima dell'arrivo della polizia, così mi salvai. Fu un'azione stupida - i fascisti erano circa sessanta o settanta - ma sentivamo che dovevamo farla. Nel negozio mi ritrovai in mano una folta ciocca di capelli neri.
Alla Ford, nel frattempo, c'era una campagna per la costruzione del sindacato, per organizzare il reparto. Non mi era mai piaciuta l'idea, ma contribuii a distribuire volantini e parlare con i lavoratori, dicendo che un sindacato poteva creare un nuovo ambiente e migliorare le cose. Tuttavia io non ne feci mai parte, perché fui arrestato.
Durante il 1926 e il 1927 m'impegnai anche nella causa a favore di Sacco e Vanzetti. La notte dell'esecuzione [22-23 agosto 1927] ci fu una manifestazione di massa - anarchici, comunisti e altri in Cadillac Square, con gli oratori che parlarono dal pianale di otto furgoncini. A mezzanotte arrivò l'annuncio: «Sacco è morto, tra un po' toccherà a Vanzetti». Qualcuno strillò: «Attacchiamo il municipio!». La folla cominciò a muoversi, ma arrivarono quattrocento poliziotti a cavallo e motocicletta ed ebbero inizio gli scontri. Colpii un poliziotto con due manifesti arrotolati che denunciavano l'esecuzione, lui mi aprì la testa con una manganellata. Riuscii in qualche modo a scappare. Mi recai alla redazione di «Detroit News» dove mi venne confermato che Sacco e Vanzetti erano stati uccisi. Non so come riuscii a tornare a casa quella notte.

Più di tremila dollari
Da allora, in occasione di ogni anniversario delle esecuzioni, producevamo volantini di venti centimetri per trentacinque. Il primo anniversario stampammo diecimila volantini e li distribuimmo senza problemi. Nel 1929 cominciai a distribuire volantini sulla Fourth Street ai lavoratori che uscivano dalla Fischer Body Plant. Un'auto della polizia si fermò e mi trasse in arresto. Trascorsi la notte alla stazione di polizia di Fourth Street. Il giorno seguente il capo degli investigatori della Ford Motor Company venne a togliermi il lasciapassare dell'azienda. Il capo della polizia disse: «Quanto ti dava la Ford per un'ora di lavoro?». «Un dollaro e dieci», risposi. «Mussolini ti pagherebbe così tanto?», domandò. «Io non ho niente a che fare con Mussolini». «Tu sei un maledetto bastardo anarchico», gridò. «Tu sarai un bastardo, non io», gli risposi. A quel punto qualcuno mi colpì sulla testa facendomi perdere i sensi, e mi ritrovai rinchiuso in cella. Poi venni trasferito nel carcere della contea. Tre settimane dopo fui processato davanti a dodici giudici per avere contravvenuto a un'ordinanza cittadina. Uno di loro aveva un nome e una faccia da polacco. Mi chiese: «Com'è che sei nato in Italia e hai un nome francese [Berthelot]?». Replicai: «E com'è che tu sei nato in America e hai un nome polacco?». «Credi in Dio?», m'incalzò. «No», dissi, «sono ateo». «Credi nel governo?». «No». «Sei anarchico?». «Sì, sono anarchico!». Ordinarono la mia deportazione in Italia.
Questo accadde nell'autunno 1929. Il mio avvocato, Jacob Margolis, cercò di farmi uscire su cauzione. La cauzione venne fissata in tremila dollari. I compagni di Rivard Street fecero una colletta e io venni rilasciato. Due giorni più tardi, giunse a Detroit Bruno (Raffaele Schiavina). Mi disse: «Tilio, la tua vita vale più di tremila dollari. Torna in Canada e fai perdere le tue tracce». Mio fratello venne a prendermi con il suo camion e mi riportò indietro. Un giorno vidi un compagno che aveva una gamba di legno (aveva perso la gamba in un'esplosione in una miniera di carbone nella Columbia inglese), il suo nome era Pietro Baduz. Mi disse che il console fascista stava tornando a Windsor. Faremo qualcosa? Scrissi un volantino e lo feci stampare. Poi lo distribuimmo. La domenica successiva il console doveva parlare in pubblico, nel seminterrato di una scuola cattolica. Indossava un abito nero. Erano presenti alcuni compagni. Insieme urlammo: «Abbasso il fascismo! Morte a Mussolini!». La polizia chiamò rinforzi. Formavamo due schieramenti contrapposti sui rispettivi marciapiedi. Quando il console uscì lo bersagliammo di sputi. Prima che potesse prendere posto sulla macchina della polizia il suo vestito era bianco di saliva. In qualche modo mi accusarono dell'accaduto, ma nessuno sapeva dove venirmi a prendere.

Il Gruppo Libertario
Andai a Toronto e lasciai la valigia al deposito della stazione dei treni. Attraversai alcuni incroci poi vidi una biblioteca. Era quella cui faceva capo l'università di Toronto. Ci entrai, era piena di studenti. Sulla lavagna degli annunci c'erano diversi biglietti con l'indicazione di stanze da prendere in affitto. Una di queste era con una famiglia finlandese, per quattro dollari la settimana. Con me ne avevo quindici. Tornai alla stazione, presi la valigia e mi diressi verso la casa presentandomi come Arturo Pittana (Pittana era il nome di mia madre da signorina). La padrona di casa mi diede un giornale dove c'era una richiesta per un attrezzista tintore a sessantacinque cents l'ora. Presi quel lavoro e rimasi per otto anni, realizzando strumenti per le parti meccaniche delle automobili. Eravamo nel 1929, due settimane prima del Crollo della borsa.
Il mio primo anno e mezzo a Toronto feci fatica a conoscere italiani. Nell'agosto 1931, tuttavia, stampai cinquecento volantini per l'anniversario dell'esecuzione di Sacco e Vanzetti e li distribuii nel quartiere italiano. Lì incontrai socialisti e comunisti che mi parlarono di un altro anarchico italiano, Ruggiero Benvenuti, del quale ben presto divenni amico e di un circolo Matteotti, frequentato in maggioranza da socialisti (quando Matteotti venne assassinato nel 1924 bruciai il mio passaporto). Presi parte a uno dei loro incontri e nel corso della discussione dissi la mia. Il capo dei socialisti disse: «Hey, Pittana, ti sfido a un dibattito». Una settimana dopo il dibattito ebbe luogo. Al termine, un gruppo mi avvicinò e mi strinse la mano: «Piacere di conoscerti», dissero. Alcuni erano friulani, delle mie parti, e insieme a Benvenuti demmo vita a un gruppo anarchico. Il gruppo, il Gruppo Libertario, pubblicò un giornale - Il Libertario - e organizzò una filodrammatica della quale io fui coordinatore e che mise in scena lavori di Pietro Gori, Gigi Damiani e altri. Socialisti e comunisti, quando arrivò il momento di mettere in piedi le recite - e naturalmente i balli - a venticinque cents a persona, li perdemmo per strada. Il nostro gruppo era composto di circa dodici membri, compresi Ernesto Gava e Cocchio (l'unico ancora vivo, oltre Benvenuti e me). La maggior parte erano anarchici-comunisti, io invece mi consideravo un «anarchico senza aggettivi», non aderivo a nessuna corrente particolare né alle idee di qualcun altro, come Tresca, Galliani o altri ancora. Non ero disposto a mettere nessuno sul piedistallo.
C'era poi anche un altro gruppo russo, che comprendeva alcuni ucraini e bulgari (di questi ultimi Vasiliev era il più attivo) e che aveva acquistato una chiesa sconsacrata trasformandola in un luogo di riunione (L'ultimo membro, Petrov, morì nel 1970 circa). Mettemmo in scena le nostre commedie anche da loro e più tardi al Labor Lyceum, la sala del sindacato ebraico. Fu tramite russi e ucraini che entrai in contatto con gli anarchici ebrei di Toronto: Seltzer, Yudkin, Desser, Langbord, Goodman, Steinberg e altri. Il gruppo ebreo era legato al Workmen's Circle, Frei Arbeter Shtime, e successivamente a un gruppo di lingua inglese chiamato Libertarian Group, che Emma Goldman organizzò quando venne a Toronto per delle conferenze nel 1934. Ci incontravamo al Dessers, un punto di riferimento per il movimento, e occasionalmente da Vasiliev. Un altro membro attivo, insieme a me e Ahrne Thorne, era Dorothy Rogers, una ex socialista convertita da Emma Goldman.
Nel 1932 o 1933 Benvenuti e io decidemmo di preparare un volantino per commemorare Sacco e Vanzetti. Lo portammo da Simkin, un compagno ebreo che aveva una piccola stamperia, ne facemmo tirare cinquecento copie e poi le distribuimmo. L'anno seguente, il 1934, incontrai per la prima volta Emma Goldman: fui presentato da Simkin - ero sempre in contatto con gli anarchici ebrei. Stava al Langbords dove teneva una serie di conferenze. Andai a sentirla e rimasi colpito dal suo modo di parlare, dalla sua energia, dalla eleganza delle sue frasi. Non era certo bella - piccola, grassa, per nulla attraente - ma quando parlava, con quell'ardore, dimenticavi tutto. L'aspetto, quando te la trovavi di fronte, non aveva più nessuna importanza. Una volta che ebbe finito il suo discorso, me la presentarono.

Dieci copie dell'«Adunata»
La seconda occasione in cui la vidi fu agli inizi del 1939. Era ancora a Toronto per delle conferenze. Ci rimase uno o due mesi e diventammo buoni amici. Ciò che m'interessava maggiormente erano i racconti sulle sue esperienze in Russia e in Spagna. La accompagnavo con la mia macchina e le organizzai alcune conferenze, comprese due o tre a Windsor, dove potevano convenire, attraversato il confine, gli anarchici di Detroit. Un giorno, mentre eravamo lì, la portai a fare un giro in macchina lungo il Detroit River indicandole i luoghi più caratteristici. Quando fummo di fronte a Belle Isle, al centro del fiume, mi fermai e le spiegai quello che stavamo vedendo. Le dissi che Belle Isle era famosa nel secolo precedente quando gli schiavi neri venivano introdotti in Canada attraverso un passaggio clandestino. La cosa la interessò molto, era affascinata dall'idea di essere tanto vicina agli Stati Uniti. Guardava Belle Isle e Detroit con gli occhi di un'innamorata. Fu allora che compresi quanto significasse l'America per lei.
Sì, lei parlava molto di Berkman e soprattutto del suo attentato a Frick. Un giorno disse: «Se tu incontrassi Berkman non lo crederesti mai capace di sparare a un essere umano, ma era sedotto dall'ideale dell'anarchismo e riteneva che il comportamento di Frick fosse antisociale e disumano e che quindi dovesse essere eliminato».
Per tutti gli anni Trenta fui attivo nel movimento antifascista. Nel settembre 1938 venni invitato dall'organizzazione sindacale di Windsor a tenere una conferenza sul fascismo e le attività dei fascisti a Windsor, dove avevano organizzato una scuola per insegnare l'italiano con libri stampati secondo gli ordini di Mussolini. Riuscii a entrare in possesso di alcune copie di quei libri e spiegai ai presenti che c'era più fascismo che lingua. Il giorno successivo sul «Windsor Star» apparve un articolo che parlava della mia conferenza. I fascisti non vedevano l'ora di farmi fuori. Così, quando scoprirono che anni prima a Detroit ero uscito di prigione su cauzione, si rivolsero alle autorità dell'immigrazione.
Appena esplose il conflitto, nel 1939, i fascisti di Windsor e Toronto mi denunciarono per la mia opera di diffusione delle idee anarchiche: all'epoca prendevo dieci copie dell'«Adunata» e le distribuivo insieme ad alcuni giornali francesi e belgi. Le minacce nei miei confronti si fecero più pesanti e per la prima volta nella mia vita - detesto le armi e gli omicidi - mi presi una pistola che tenni per alcuni mesi. Organizzammo manifestazioni e comizi durante i quali prendevamo la parola io, Ahrne e Dorothy Rogers e fummo attaccati dalla polizia a cavallo. Le autorità mi tenevano sotto stretta sorveglianza e cercavano pressantemente di farmi deportare.

Rilasciato su cauzione
Alle cinque del mattino del 4 ottobre, la nostra casa venne circondata dalla polizia a cavallo e tre di noi furono arrestati: Gava, Benvenuti e io. Emma fece più di chiunque altro per impedire la deportazione. Organizzò incontri, raccolte di fondi e prese immediatamente il miglior avvocato progressista, un ebreo che si chiamava Cohen. In due o tre settimane riuscì a far scarcerare Gava e Benvenuti. Io rimasi dentro per tre mesi e mezzo. Gli altri avevano una famiglia - io ero ancora da solo - e i fascisti mi odiavano in modo particolare; inoltre, cercai di accollarmi tutte le responsabilità, insistendo di essere io l'unico artefice.
Il giorno del mio arresto, la «squadra rossa» di Toronto venne e sequestrò tutti i miei libri e i miei periodici, una grande collezione di 1500 volumi, insieme a tutta la mia corrispondenza. Fecero venire un grosso camion che si portò via tutto il materiale, che venne dato alle fiamme a due anni di distanza. Il giorno prima del rogo, due poliziotti canadesi vennero ad annunciarmi che il giorno seguente avrebbero bruciato ogni cosa. «Credete che bruciando i miei libri brucerete i miei ideali?», dissi. Alcuni giorni dopo arrivò un altro poliziotto, un giovane nato a Vancouver da genitori friulani. Mi portò una decina di pamphlet. Tutto quello che rimaneva della mia raccolta, il resto era stato distrutto. Anche vivessi altri cento anni non lo dimenticherò mai. Il poliziotto mi chiese cosa fosse l'anarchismo. Quando gli risposi, lui replicò: «Ma questa è democrazia!».
Questo accadeva nel 1942. Ormai vivevo con Libera, ci eravamo messi insieme proprio quell'anno. «Vuoi diventare cittadino canadese?», mi chiese il poliziotto. «Allora è meglio che stai tranquillo. Dimentica tutte queste cose e non parlare in pubblico». Risposi che volevo essere cittadino del mondo. Stavo aiutando due disertori di Detroit e uno di loro era presente proprio quando arrivò il poliziotto. Libera lo avvertì in italiano e lui riuscì ad andarsene. Li salvammo dall'arresto e da una probabile condanna a morte. Uno era il figlio di Nick e Margaretta Catalano, compagni di Detroit. Oggi vive in California e ci vediamo abbastanza spesso.
Dopo tre mesi e mezzo, come ho detto, venni rilasciato su cauzione. Gli attrezzisti adesso, a causa della guerra, erano molto richiesti e così non ebbi difficoltà a trovare lavoro. Inizialmente sì, perché ero nato in Italia, un Paese che era in guerra con il Canada. Promisi a Emma che non appena avessi ottenuto un lavoro avrei affittato un grande appartamento per lei e Dorothy Rogers, la sua segretaria. Allora Emma viveva in uno spazio angusto con i Meelis, compagni olandesi, e non aveva nemmeno i soldi necessari all'acquisto di francobolli. Così quello era diventato il mio primo pensiero. Mi presentai in quattro o cinque fabbriche, ma non volevano italiani. Provai ancora da un'altra parte, alla United Steel Corporation. Prima di arrivare incontrai un amico, Bartello, e così mi battezzai Arthur Bartell, per apparire più anglosassone. L'uomo con cui ebbi il colloquio era olandese e mi scambiò per un suo connazionale: ero biondo, con gli occhi azzurri e Bartell era un nome olandese. Il giorno seguente ricevetti una telefonata dal sovrintendente, Joe Schanfield, che era ebreo, e che mi chiese di presentarmi. Ebbi un colloquio anche con lui e alla fine mi disse di presentarmi l'indomani. Così presi la mia scatola degli attrezzi e cominciai a lavorare. Questo fu agli inizi del 1940.

La morte di Emma
Mentre mettevo da parte il denaro sufficiente per prendere un appartamento in affitto a Emma, lei fu colpita da un grave infarto. Accadde il 17 febbraio, verso sera, l'anniversario del rogo di Giordano Bruno. Bruno era entrato nella mia vita abbastanza presto e su di lui avevo raccolto parecchie informazioni. Stavo proprio andando a parlare di lui a un gruppo di amici nell'appartamento dei Meelis al 259 di Bond Road, dove viveva anche Emma; passai a prendere Jack e Sylvia Fitzgerald con la mia macchina - dopo saremmo dovuti andare a prendere anche Ahrne Thorne - quando il loro telefono cominciò a squillare. Era Dorothy: «Venite subito! Emma ha avuto un infarto!».
Saltai in macchina e raggiunsi la casa a tutta velocità. La trovai sdraiata su letto. Cercava di tirare giù l'orlo della camicia perché aveva le ginocchia scoperte. Qualche istante dopo arrivò l'ambulanza e la portarono in ospedale. Non era in grado di parlare. Ma i suoi occhi parlavano e la stretta della sua mano era salda. Senza l'aiuto di Emma sarei stato deportato. Emma aveva molto fascino; anche i suoi nemici politici la rispettavano. Non riacquistò più la parola. Morì tre mesi dopo.
Sì, i miei sentimenti per l'anarchismo non sono mutati. All'inizio ero stato un vero rivoluzionario. Ero giovane e avevo l'argento vivo addosso, ero innamorato di Galleani e di terroristi come Emile Henry. Ma durante la tragedia che colpì Sacco e Vanzetti, che ebbe grandi ripercussioni in Canada e lasciò su di me un'impressione duratura, la debole risposta che ottenemmo da parte della popolazione in genere mi rese più riflessivo, più filosofo. Denaro e proprietà non hanno mai inciso sulla mia psiche; il denaro non serve al nostro prestigio personale ma ad aiutare quelli che hanno bisogno. Tuttavia ai tempi della Rivoluzione spagnola credevo ancora alla necessità della violenza. Dopo il maggio 1937 a Barcellona cominciai a riflettere. Decine o centinaia di migliaia di vite erano state sacrificate. Per cosa? Gli anarchici avevano compromesso i loro principi collaborando con un governo, io cominciai a considerare che l'anarchismo non può essere imposto, ma può essere raggiunto solo attraverso l'educazione e la propaganda. Questo rimane il nostro obiettivo più importante. Spesso mi dispiaccio di non avere raccolto l'invito di Ahrne a seguire i corsi di letteratura e storia all'università di Toronto.
Per qualche ragione, rispetto al passato, oggi sono molte meno le persone che si avvicinano all'anarchismo. Tuttavia non sono deluso, anche se il movimento non è quello che dovrebbe essere. Emma Goldman è stata per me una grande fonte d'ispirazione. E anche Rocker. Adoravo il suo modo di parlare e l'ho sentito spesso a Toronto. Era solito venirci ogni anno per tenere un minimo di sei conferenze. Era tedesco, ma era un ottimo compagno e un grande oratore.

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CARO ATTILIO, MANDI.

L'undici febbraio è morto a Toronto (Canada) Attilio Bortolotti.
Aveva 91 anni. Era nato a Codroipo, in Friuli, il 19 settembre 1903. Con lui scompare uno degli ultimi militanti del movimento anarchico di lingua italiana in Nord America.
Era il più buono di tutti noi ci ha detto al telefono Valerio Isca, di qualche anno più vecchio di Attilio, residente a New York - altra bella figura di quel movimento. Ed in effetti la bontà, intesa non solo come disposizione dell'animo ma come solidarietà attiva e operante, era uno dei tratti più evidenti di quest'uomo, del suo faccione allegro con quelle grandi, simpatiche orecchie a sventola. Attilio è una di quelle persone che rimarrà per sempre nella mia memoria, sempre ad agire ai limiti estremi delle sue possibilità, sempre cercando una coerenza con i suoi/nostri ideali e riuscendoci quasi sempre. Non penso sia passato giorno nella sua vita senza che almeno per momenti più o meno brevi egli non abbia pensato all' «ideale». Mi sento profondamente onorato di essere uno di quelli che gli è stato più vicino. Così ci ha scritto Gianni Corini, un compagno che ha fatto parte della nostra redazione negli anni '70 per poi trasferirsi con la famiglia a Toronto, grazie all'interessamento di Attilio.
L'esperienza di Attilio è stata, per certi tratti, quella comune a milioni di altri italiani in Nord America a cavallo tra gli ultimi decenni dell'800 ed i primi del '900; e, in particolare, la sua esperienza militante è accomunabile a quelle delle migliaia e migliaia di emigrati che (a volte già «sovversivi» prima di imbarcarsi, a volte no) dal contatto con la realtà di emarginazione e sfruttamento oltreoceano trovarono lo stimolo per aderire all'anarchismo, per diventare militanti di un'idea così radicale in un mondo tanto nuovo ed atTascinante quanto duro e spietato. Della sua militanza Attilio riferisce nello scritto che pubblichiamo in queste pagine, che è la trascrizione curata dallo storico anarchico americano Paul Avrich (docente di storia al Queens College C.U. of NY., a F1ushing, NY.) di un'intervista fattagli dallo stesso Avrich in parte a Toronto (29.11.1972) ed in parte a North Miami Beach (Florida) (10.12.1988 e 19.1.1990). Un'intervista svoltasi in lingua inglese e per noi tradotta da Stefano Viviani.
Sono pagine vive, che testimoniano nei loro piccoli episodi quella che è stata la realtà dell'impegno antifascista ed internazionalista di chi, anche a migliaia di chilometri di distanza, non ha mai accettato di considerarsi estraneo alle vicende del proprio paese d'origine ed alla lotta contro l'infamia rappresentata dal fascismo. Attilio era persona semplice, profondamente modesta, assolutamente disinteressato anche alla «costruzione» della propria immagine. Ed è significativo che queste sue note autobiografiche, di cui pure era in possesso, ci siano state spedite dalla sua compagna Libera Martignago e dal figlio Libero all'indomani della morte di Attilio, dietro nostra richiesta di ricevere qualcosa per poterne ricostruire un po' la biografia.
E, tanto per completare le sue note autobiografiche, che si fermano all'inizio degli anni '40, ricordiamo che Attilio ha continuato a lavorare come attrezzista in un'impresa fino al 1959. Quell'anno - ricorda il figlio Libero in uno scritto inviatoci - Art decise di ritornare in Europa per una visita per la prima volta dopo 39 anni e andammo anche Libera ed io. Un viaggio magnifico di 3 mesi attraverso Francia, Spagna, Italia e Svizzera. Io festeggiai il mio 13° compleanno in un posto a nord di Barcellona e festeggiammo anche l'avvenuta entrata nella Spagna di Franco mentre Art era ancora sulla lista delle «persone non gradite». Incontrammo una gran parte della famiglia Bortolotti, che viveva nella stessa casa in cui Attilio era nato, e visitammo numerosi anarchici, tra cui Armando Borghi. Sulla via del ritorno, ci accorgemmo che avevamo speso più del previsto. Art chiese un piccolo aumento della paga, che gli venne rifiutato. Allora si licenziò e cominciò la storia di quella che oggi è la Bartell Industries.
Attilio si mise in proprio, prima lavorando nel garage di casa, poi progressivamente allargando il posto di lavoro - sempre lavorando, per anni, 7 giorni alla settimana. Il suo chiodo fisso era quello di riuscire a mettere in piedi un'azienda i cui proventi servissero per finanziare le numerose iniziative del movimento anarchico internazionale. E, dalla fine degli anni '60, grazie all'impegno suo, del figlio, di altri validi collaboratori (tra cui numerosi friulani), la Bartell Industries gli ha permesso di sostenere sostanziosamente decine e decine di iniziative, perlopiù editoriali, non solo di lingua italiana. Tra queste ricordiamo le Edizioni Antistato, allora gestite da Pio Turroni e poi passate a Milano; la rivista Volontà; il Centro Studi Libertari ed i Convegni internazionali di studi da esso promossi; le edizioni curate da Giuseppe Galzerano (un cui ricordo di Attilio è comparso su Umanità Nova); Senzapatria e tutte le campagne antimilitariste in sostegno degli obiettori totali; la campagna in sostegno di Monica Giorgi e tante altre. E poi la Cienfuegos Press promossa da Stuart Christie in Scozia, ed il periodico londinese Freedom, con relativa tipografia, libreria e casa editrice, ecc. ecc.. E poi c'era una piccola comunità libertaria in Andalusia, con i cui componenti Attilio era in corrispondenza da anni ed ai quali non faceva mancare il suo regolare sostegno. Decine di iniziative, centinaia, forse migliaia di persone hanno trovato in Attilio un sostenitore generoso e rispettosissimo dell'altrui autonomia. Due righe affettuose ed un assegno, offerto con discrezione: così Attilio ha contribuito ad alleviare le difficoltà di tante famiglie, per esempio aiutando le vedove di tanti compagni, oppure mantenendo agli studi i figli di compagni e conoscenti che altrimenti avrebbero dovuto smettere gli studi. E così via.
Un posto speciale, nel suo cuore, lo ha sempre occupato la nostra rivista, di cui Attilio è stato fin dalla fondazione un attento lettore ed un fraterno sostenitore, mai e poi mai cercando nemmeno minimamente, nemmeno indirettamente, di «condizionarci». Alieno da ogni settarismo, attento a quanto di nuovo si muoveva in campo giovanile, anarchico «senza aggettivi» in un movimento troppo spesso invischiato in questioni di sigle, tendenze, contrasti, Attilio aveva una sua precisa concezione del movimento, del suo ruolo e non mancava di proporla agli altri e di difenderla: di proporla, appunto, mai di imporla. Non sopportava la sopraffazione, la calunnia, era istintivamente conciliante e pacifico, pronto a dimenticare i torti subiti. Una pasta d'uomo, come si dice. I suoi viaggi in Europa negli anni '60, '70 e '80, spesso in coincidenza con significativi appuntamenti dell'anarchismo internazionale, sono stati tutte occasioni per conoscere nuovi compagni, per ritrovare i vecchi, per conoscere quelli che spesso aveva sostenuto solo dopo aver ricevuto una lettera o una segnalazione da parte di altri compagni. Da bravo «furlan» era particolarmente legato alla sua terra e, dopo il terremoto che una ventina d'anni fa squassò quelle terre, fu generosissimo finanziatore della ricostruzione, innanzitutto di quella «anarchica» - aiutando innanzitutto i singoli compagni della zona a rimettere in sesto le loro case, a riprendere l'attività lavorativa. Si rifiutò di partecipare alla raccolta di soldi promossa dalla numerosa comunità friulana in Canada e preferì recarsi di persona in Friuli: l'ufficialità non faceva per lui, l'accentramento burocratico ancora meno. In tema di viaggi, un ricordo indelebile nella nostra mente resta la cavalcata indescrivibile (... anche se ne abbiamo riferito su «A» 77, ottobre 1979) che con lui abbiamo fatto nel '79, percorrendo oltre 20.000 in chilometri in meno di un mese e mezzo, da Toronto a Vancouver, a Los Angeles, a Phoenix, a Chicago, a Buffalo, a New York, a Philadelphia, a Boston, a Montreal. Un viaggio, Il viaggio della nostra vita, a conoscere - oltre a numerosi giovani di lingua inglese - centinaia di vecchie e vecchi anarchici di lingua italiana. Quasi tutti scomparsi, ormai. Ma allora ancora in grado di raccontarci delle mobilitazioni per Sacco e Vanzetti, degli enfisemi contratti in miniera, delle botte prese dai fascisti o dai poliziotti (ma anche di quelle date...), delle espulsioni e di tante altre vicissitudini giudiziarie.
Anche Attilio, ora, se n'è andato. Noi che abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo e di volergli bene e, tramite lui e con lui abbiamo avuto modo di conoscere (e, per quanto possibile, di far conoscere) una fetta importante dell'anarchismo di lingua italiana - quella dell'emigrazione oltreoceano - sentiamo tutto l'impegno a proseguire quell'opera di propaganda anarchica che - certo modificandosi ed aggiornandosi di continuo (come pure sempre cercò di fare anche Attilio) - resta comunque nella sua essenza la prosecuzione di un impegno collettivo per l'emancipazione umana e sociale delle genti, per la libertà e l'anarchia. Di questo impegno collettivo, Attilio è stato un militante tra i tanti, senza aspirare ad emergere né tanto meno ad imporsi. E proprio per questo, la sua figura si staglia forte e pulita.
Un forte abbraccio a Libera, anche lei nostra compagna, donna forte, allegra e di buon senso, cui non poche volte toccò di «proteggerlo» dalla sua stessa generosità (e dai non pochi furbi che sempre si aggirano intorno ai generosi) ed al figlio Libero. E l'ultimo saluto sia nella sua amata lingua friulana: caro Attilio, mandi.

Aurora Failla e Paolo Finzi