Rivista Anarchica Online
Vivendo la mia vita
di Attilio Bortolotti
L'undici febbraio è morto a Toronto, in Canada, Attilio Bortolotti. Aveva 91 anni.
Con lui scompare uno degli ultimi militanti del movimento anarchico di lingua italiana
in Nord
America. Pubblichiamo in queste pagine una sua «autobiografia» raccolta dallo storico
anarchico
statunitense Paul Avrich. E (a pag.12) un ricordo firmato da due redattori della nostra
rivista.
Sono nato il 19 settembre 1903 a Codroipo, un paese di circa
quattromila (oggi tredici o
quattordicimila) abitanti nel centro del Friuli, fra Trieste e Venezia. Il nome che gli diedero i
romani 2500 anni fa era Quadrivium, a indicare le quattro strade che vi convergevano, dalle
Alpi
al mare e da est a ovest. Codroipo si trova nella provincia di Udine, regione del
Friuli-Venezia
Giulia. Eravamo friulani e la nostra lingua era il ladino, il ladino simile a quello che si parla
in
Svizzera e in alcuni paesi dell'Austria vicini alle Alpi carniche. Laggiù c'è
una valle che
possiamo definire anarchica, Prato Carnico in val Pesarina, a due chilometri dal confine con
l'Austria, dove andavo di tanto in tanto e parlavamo la stessa lingua. La gente di lì
è ancora
anarchica, ma non vanno più come un tempo a lavorare in Austria. Hanno preso un
edificio
insieme a dei socialisti e lo usano come luogo d'incontro. La maggior parte degli anarchici
sono
muratori, ma c'è una famiglia, i Villaris, che fabbrica orologi famosi e diffusi in tutto
il mondo.
Libera e io eravamo lì nel 1986, ma ci siamo stati solo per cinque o sei ore. Abbiamo
incontrato
Petris e Del Fabbro, due anarchici dei vecchi tempi. Quelle montagne, a due ore di macchina
da
Codroipo, sono favolose.
Spirito ribelle Mio padre Luigi
era un muratore poi diventato costruttore ed era un amante dell'arte. Ogni anno
si prendeva due settimane per andare a Venezia, Firenze e Roma, da dove tornava
regolarmente
con bozzetti di cornici e altri oggetti. Era un ottimo artigiano che aveva imparato da solo. A
Codroipo si teneva un mercato ogni martedì, e l'ultimo martedì il mercato era
dedicato
esclusivamente agli animali: maiali, capre, tori e cavalli. Il nostro paese era situato in una
valle
alluvionale con terreno rossiccio fertilizzato con concime sia animale che umano, come in
Cina.
Mio padre costruì delle gigantesche vasche di cemento per tenervi il concime. I prati
tutt'intorno
erano così ricchi di concime che avevano preso un colore quasi blu. E poi c'erano
vastissime
distese di vigneti. Ogni famiglia aveva una vacca e una pecora che producevano il latte
necessario. Mio padre conduceva un'esistenza relativamente serena. lo ero il
quindicesimo di diciotto figli, l'unico con uno spirito ribelle. Da bambino mi rifiutavo
di andare in chiesa. A dieci anni io e un amico sentimmo una povera vedova della zona
lamentarsi perché non aveva il concime con cui fertilizzare la propria terra e, sapendo
che un
vicino teneva da anni una gran quantità di fertilizzante inutilizzata, andammo a
prenderne un po'
per lei. Fummo così denunciati alla polizia che ci ammonì con un sorriso.
Nel 1917, durante la
prima guerra mondiale, vedemmo un soldato italiano appeso per i pollici a un albero per
punizione e lo liberammo. Diventai antimilitarista e da allora tale sono rimasto. Allo stesso
tempo sono rimasto fortemente antireligioso: come può «Dio» permettere che
accadano simili
tragedie? Avevo quattordici anni, ero nato ribelle. Dei miei diciassette fratelli solo due
sono ancora vivi: una sorella vive in Ontario e un'altra in
Italia. Le faccio visita di tanto in tanto. Dei diciotto figli, sette sono morti nell'infanzia e dei
rimanenti undici io sono l'unico a non essere rimasto vittima della religione. Mio padre era
molto
religioso, mia madre, sì e no, come spiegherò tra breve. Io ero mancino. Mio
padre non ne
voleva sapere e mi picchiava come fossi un pezzo di pietra. Io, per tutta risposta, lo odiavo.
Quando avevo otto anni e frequentavo le elementari, venne approvata una legge che
imponeva
un'ora di istruzione religiosa (dottrina cattolica): ogni giorno in chiesa dalle otto alle nove.
Così
ci andavamo, in quattro o cinque. Un giorno dissi: «Perché ci andiamo? Ogni giorno
è la stessa
cosa. Andiamo a giocare a dottori e infermiere». Passammo la voce a quattro ragazzine e loro
risposero che non era una brutta idea. Andammo tutti in un granaio a studiare anatomia. Fu
molto
bello e ce la spassammo. Un mattino cominciò a piovere e vidi mio padre
entrare nel cortile prospiciente il granaio. Scesi
volando le scale e continuai a correre per tre giorni, dormendo in un deposito per auto alla
stazione ferroviaria. Alla fine due dei miei fratelli mi scovarono e mio padre mi diede una
ripassata che ricordo ancora come fosse oggi. I nostri rapporti si chiusero lì. Non
abbiamo più
parlato. Mi assegnò i lavori di pulizia quotidiana, mi fece togliere i chiodi dalle assi
di legno, ma
non parlavamo più. Nel 1913, avevo passato da poco i dieci anni, si ammalò
di una bronchite che
si trasformò rapidamente in polmonite, e nel giro di due o tre settimane morì.
Aveva cinquantatré
anni. Non provai alcun dolore. Per me fu come un sollievo. Mentre aspettavo l'arrivo della
banda
che doveva accompagnare le esequie, un amico mi offrì una lira per il mio coniglio
bianco,
accettai e mi allontanai per andarglielo a prendere. Quando tornai la banda aveva già
cominciato,
il prete era arrivato e tutti piangevano. I miei occhi invece erano completamente asciutti. Non
provavo né rimorso né tristezza. Era un grande costruttore, un grande
disegnatore di case, ma era
così traviato dalla religione che non riusciva a comportarsi come un essere umano.
Dio dev'essere un profugo Mia
madre, Maria Pittana, era una donna davvero generosa. Quando avevo quattordici anni,
durante la guerra, i tedeschi arrivarono nel nostro villaggio. Eravamo nell'ottobre 1917.
Avevamo una grande casa su tre piani con un'ampia cucina al pian terreno, stanze da letto al
secondo e un granaio nel sottotetto. In primavera allevavamo bachi da seta, la più
grande
industria della regione. Tutti davamo una mano a tagliare i rami e togliere le foglie dai gelsi.
Papà aveva una carriola a due ruote per trasportare gli attrezzi avanti e indietro dal
lavoro. Noi
lo usavamo per metterci i rami e le foglie. Durante la ritirata italiana dal fronte orientale, i
soldati
venivano e ci domandavano della polenta. Ma noi avevamo solo vino e mia madre glielo
dava.
Poi arrivarono i tedeschi, un ufficiale e due uomini, e videro i soldati italiani che li
salutarono.
Ma per loro non era rimasto più niente, così gli italiani lanciarono delle
granate e li uccisero. Mia
madre e io fuggimmo da mio zio in un villaggio vicino. Quando ritornammo, il mattino
successivo, trovammo la strada ricoperta di cadaveri. Tutte le finestre erano in frantumi, i
materassi rossi di sangue. Gli arditi, ubriachi di vino e desiderosi di combattere, avevano
attaccato e ucciso gli austriaci, insieme ai soldati italiani che non volevano più
combattere e
desideravano soltanto tornarsene a casa. Mia madre mi chiese di uscire e andare a
cercare da mangiare. M'infilai un elmetto e un cappotto,
andai nei magazzini e portai a casa ogni genere di cose con la nostra carriola, viaggio dopo
viaggio, portando pesce in scatola, stoffe, rocchetti di filo, posateria. Nessuno cercò
di fermarmi.
Mamma era sbalordita. «Tilio», disse, «siamo ricchi!». Mi rispedì fuori a vedere se
riuscivo a
trovare una vacca per il mio nipotino di due anni che viveva con noi. La trovai e la sedussi
con
dell'erba, poi le misi una corda intorno al collo e la condussi a casa. Due giorni dopo mia
madre
mi mandò a cercare un carretto a quattro ruote al quale attaccare la vacca per andare
nelle
vicinanze a scambiare coltelli e forchette per grano e frumento. Poi io e la mamma facemmo
ritorno al suo paese. Lungo la strada passammo di fianco a una fossa piena di cadaveri. «Oh,
mio
dio!», esclamò. Io dissi: «Se esiste un dio, perché consente le guerre e gli
assassinii visto che è
tanto potente?». Lei mi guardò e rispose: «Oh, dio dev'essere un profugo». Quando
sentii quelle
parole fu come se il mio corpo fosse attraversato da dieci orgasmi, tanto ero felice. Prima che
il
sole fosse calato, avevamo portato a casa grano e fagioli e li avevamo nascosti. Oltre a
una vacca trovai un mulo. Lo scambiammo con un mugnaio per alcuni sacchi di
frumento. Alcuni giorni più tardi, un ufficiale tedesco si presentò sulla porta
della nostra casa.
Era una giornata molto fredda. Ci stavamo riscaldando intorno al camino quando sentimmo
risuonare le campane della chiesa. Stava per avere inizio un'incursione aerea. Ci stringemmo
gli
uni agli altri in giardino. Le bombe caddero a poca distanza, piovevano macerie dappertutto.
Mio
nipotino si alzò in piedi e cominciò a strillare. Era come impazzito. Il
capitano tedesco con un
balzo lo prese e lo rimise a terra proteggendolo con il proprio corpo. Quando vidi quella
scena,
nella mia testa si produsse una rivoluzione. «Cosa succede?», pensai. La propaganda diceva
che
i tedeschi stavano uccidendo donne e bambini, e che alle donne in Belgio e in Francia
tagliavano
i seni. Di fronte a quell'immagine compresi che si trattava in gran parte di menzogne. Poi
suonò
il cessato allarme e ritornammo al camino. Osservavo il capitano con aria sbalordita, il mio
volto
era il volto di chi interroga. Mi domandò per quale motivo lo stessi guardando a quel
modo. Gli
dissi ciò che avevo letto sui giornali a proposito delle atrocità compiute dai
tedeschi in Belgio
e in Francia. Rispose: «Ragazzo, voglio che ascolti bene quello che ho da dirti. lo sono un
professore; stavo insegnando all'università di Berlino quando sono stato chiamato
alle armi. Non
sento di avere il diritto di ucciderti perché sei nato qui e tu non dovresti sentire il
diritto di
uccidere me perché sono nato a Berlino. Voglio ricordarti queste tre parole: "Freiheit
über
alles!"».
Innamorato del tornio Queste
parole mi aiutarono, alla fine della guerra, nel 1918, a maturare l'idea di non essere un
soldato per nessuno. Allora avevo quindici anni. Scrissi al mio fratello più vecchio,
William
(Guglielmo), che faceva l'imprenditore a Windsor, Ontario, di spedirmi le carte necessarie
per
andare in Canada, perché non volevo fare il soldato per nessun governo. Nel giro di
poche
settimane ottenni quelle carte. Andai insieme a un altro fratello più vecchio,
Umberto, al
consolato inglese di Venezia. Ci diedero i documenti necessari per entrare in Canada. Ma non
c'era una cabina libera su nessuna nave a vapore. Per il passaggio fummo costretti ad
aspettare
fino al giugno 1920. Lasciai la casa il 19 giugno 1920. Avevo sedici anni e nove mesi.
Per raggiungere Genova mi
ci vollero tre giorni a causa di uno sciopero nelle ferrovie. Eravamo in quattro: io, mio
fratello Umberto e due amici. Dovrei ricordare che mio padre e i miei fratelli volevano
farmi diventare
un costruttore. Ma io volevo fare il meccanico: ero innamorato del tornio. Un amico di mio
padre
aveva un laboratorio nella nostra città, e ogni volta che ci passavo davanti e vedevo il
tornio non
riuscivo a staccare lo sguardo. Ne ero innamorato come di una bellissima ragazza. Nel
maggio
1915, non avevo ancora dodici anni, diventai apprendista di un fabbro ferraio che faceva dei
magnifici lavori con il suo martello e la sua lima, senza nemmeno usare il trapano. Quando
nel
1917 lui se ne andò a Bologna, io diventai l'unico fabbro del paese. Si rivolgevano
tutti a me per
chiavi, serrature, strumenti affilati e via dicendo. Gli agricoltori venivano da me per piccole
incudini su cui affilare le loro falci. Accumulai un'enorme quantità di arnesi
abbandonati dai
soldati italiani. A ogni modo, arrivammo a Ellis Island dove fummo tenuti per quattro o
cinque giorni mentre
i funzionari controllavano che avessi effettivamente un fratello a Windsor. Alla fine ci fu
concesso di proseguire. Giungemmo a Detroit e dormimmo alla stazione ferroviaria. Il
mattino
seguente camminai lungo il Detroit River dove individuai il battello per Windsor. Tornai alla
stazione con i miei tre compagni e partimmo alla volta di Windsor, io con la mia valigia di
legno
piena di vestiti e quattordici dollari in tasca. Camminammo su per un pendio fino a Sandwich
Street dove vidi un taxi con il cartello «Walkerville», il posto in cui mio fratello aveva una
casella postale. Il conducente mi indicò dove scendere. Comprai arance e sardine e
mi sedetti
sulla strada. Alle quattro in punto vidi un uomo in bicicletta. Era mio fratello Guglielmo.
Erano
passati sei anni dall'ultima volta che lo avevo visto. Adesso aveva ventiquattro anni.
Guglielmo a Windsor conosceva un imprenditore italiano che stava scavando pozzi e
pavimentando strade e che aveva un negozio di ferramenta. Vi lavorai per tre anni come
aiutante
di un fabbro ucraino, un uomo meraviglioso. Cominciai a frequentare una scuola serale per
imparare l'inglese e il lavoro di officina meccanica. Diventai un vero esperto di lavori al
tornio,
e quando lasciarono a casa il tornitore canadese mi passarono il suo lavoro, in un modo che
fu
la mia Waterloo. Un giorno stava fissando un generatore in laboratorio. Il capo venne da me e
mi disse di sbrigarmi. Per tre anni non mi aveva mai chiamato per nome, solo «dago» o
«wop».
Risposi che stavo facendo del mio meglio. Non era soddisfatto. Gli dissi di andare al diavolo
e
di lasciarmi lavorare. Cominciò a urlare. Gli lanciai il martello colpendolo alle
gambe e lui
cadde. Il giorno dopo dovetti andarmene.
Ateo non più cattolico
Per me non c'era più nessuna
possibilità di trovare lavoro a Windsor. Così me ne andai alla
Chrysler di Detroit. Era il 1922. Fu allora che diventai anarchico. Nella biblioteca pubblica di
Windsor avevo cominciato a studiare storia della religione. Mio fratello inoltre aveva un libro
che s'intitolava Storia universale e che descriveva il sistema solare: i pianeti, i
satelliti, cose per
me assolutamente nuove, che non sapevo nemmeno esistessero. Attirarono la mia attenzione,
ed
ebbi appena il tempo di passare da Darwin a Spencer che già avevo percorso
metà pianeta. Un
sabato sera, nel 1921, quando ero solito riunirmi con altri nell'appartamento di un droghiere,
incontrai un tizio che (lo scoprii in seguito) si definiva anarchico. Cominciò a
discutere di
religione. Mi feci coraggio e dissi ciò che avevo da dire: «D'ora in avanti
sarò conosciuto come
ateo, non più come cattolico». Mio fratello m'interruppe: «Cosa stai dicendo?».
Ribattei: «Quello
che sento». Alcuni mesi più tardi, all'inizio del 1922, mi capitò tra le
mani un volantino che spiegava perché
Sacco e Vanzetti erano innocenti e come erano stati condannati senza che vi fossero prove
sufficienti della loro colpevolezza. Andai in biblioteca e cercai di scoprire chi fossero Sacco e
Vanzetti e cosa significasse la parola «anarchismo». Un po' alla volta passai in rassegna altri
scritti, tra cui Fra contadini di Errico Malatesta e un pamphlet di
Sébastien Faure. Mi ci vollero
sei mesi per digerire tutto il materiale, ma mi toccò nel profondo. Nell'appartamento
del
droghiere, nel medesimo posto dove un anno prima avevo dichiarato il mio ateismo, allora
dissi:
«Sono un anarchico. Sono contro ogni governo e contro ogni autorità». Questa volta
mio fratello
non mi chiese nulla. Ma due dei presenti vennero verso di me e mi strinsero la mano.
Poco dopo entrai in contatto con due compagni di Detroit. Un muratore del Friuli era
arrivato
a Windsor e mio fratello gli aveva dato lavoro. Una domenica mattina mi chiese se mi andava
di attraversare gli States. Gli risposi di sì e mi consegnò una lettera per un
amico di Detroit. Fui
abbastanza fortunato da sfuggire ai controlli dell'ufficio immigrazione e fare quello che mi
aveva
chiesto. Il trucco consisteva nel mischiarsi alla folla che stava sulla prua mentre il battello
attraccava e dire con tranquillità: «Ritorno a Windsor in giornata». Inoltre indossavo
un cappello
che mi conferiva un'aria più o meno rispettabile. Non ebbi alcun problema. Mi avviai
in
direzione dell'indirizzo segnato sulla lettera (Rivard Street) che si rivelò essere quello
di un
negozio di dolciumi. Domandai del proprietario. L'uomo mi rispose: «Cernuto sono io». Era
un
anarchico siciliano e il posto era un ritrovo anarchico. Gli consegnai la lettera. Mi
mostrò degli
scaffali pieni di libri e disse: «Forse troverai qualcosa che ti piace». Ne presi alcuni.
Amore libero Fu così
che diventai anarchico. Quello, in Italia, era il periodo della marcia di Mussolini su
Roma e della reazione. Oltre a definirmi anarchico diventai antifascista. Ogni domenica
mattina
andavo a Detroit dal gruppo «I Refrattari». Un membro attivo, Bertoli, era un ottimo oratore,
che
riceveva un sacco di posta dall'Italia. Un altro era Ugo Baldi, un attore professionista che
organizzava una filodrammatica. A Windsor, quasi ogni sabato si tenevano un ballo e una
recita
che servivano a raccogliere pochi dollari da inviare oltreoceano. Fu lì che imparai a
infilare la
mia mano nella tasca, ogni sabato e ogni domenica, e tirare fuori tutto quello che potevo, di
solito quattro o cinque dollari, una buona cifra in quei giorni. Non fumavo, non uscivo con le
fidanzate, preferivo le donne sposate. Lessi un libro, L'Amore libero di
Berthelot che provocò
una rivoluzione tra metà degli italiani di Windsor - il resto non fu molto felice della
mia
iniziativa. A Detroit qualcuno mi diede. una copia del libro di Emma Goldman, Mother
Earth,
che perfezionò la mia idea dell'amore libero. Il 29 luglio 1923 - ho dimenticato
un mucchio di date ma quella la ricorderò sempre, la data nella
quale Gaetano Bresci uccise il «Re Buono» - partecipai a un picnic a Detroit per
commemorare
l'evento. C'era una grande folla, più di duemila persone, italiani, spagnoli e qualche
americano.
Io ero lì con la mia ragazza, la moglie di qualcun altro. La nostra attenzione fu
richiamata da una
voce di tenore che c'invitò a metterci in circolo e ascoltare chi era Gaetano Bresci e
chi era stato
re Umberto. Era la voce del presidente, Umberto Martignago (padre di Libera), del «Libero
Pensiero Group» di Sault S.te Marie. Dopo di lui parlarono altri due oratori, entrambi di New
York: il direttore dell'«Adunata», un toscano che si chiamava Arturo Galvani, e Pedro
Esteve,
che parlò in spagnolo. Ci furono cinque o sei di noi, di Windsor, compreso Ghetti, un
anarchico
individualista, che pronunciarono qualche parola. Fu a quel picnic che incontrai per la
prima volta Ella Entolini, allora ventenne. Era una bella
ragazza, uno spirito libero. Recitava in commedie a Chicago e Detroit. Venne a vivere a
Detroit
con Pitton, un anarchico. Era stata in prigione a Jefferson City, Missouri, con Emma
Goldman.
Dopo che Emma ed Ella furono rilasciate, toccò a Molly Steimer andare in prigione,
e lei ed Ella
cominciarono una corrispondenza. Anni dopo, quando Molly viveva in Messico, Ella le
inviava
insieme alle lettere due o tre dollari. Ella visse in Florida per parecchi anni prima della morte
nel
1984. Era una persona interessante, un'avida lettrice. Non indulgeva in chiacchiere, ma aveva
molto da dire. Non amava gli eufemismi, preferiva andare subito al nocciolo. Fu fedele sino
all'ultimo all'ideale anarchico. Portava suo figlio Febo ai picnic in Crandon Park. Desiderava
che
risvegliassimo il suo interesse, ma così non fu. Ebbe un infarto, che la lasciò
parzialmente
paralizzata e morì poco dopo di tumore. Come ho detto, ero solito andare a
Detroit quasi ogni domenica e non incontrai mai problemi a
recarmici. Una volta, tuttavia, il funzionario dell'ufficio immigrazione mi bloccò e mi
chiamò
da parte. Mi chiese di che nazionalità fossi. Io ero stanco di sentirmi ripetere quella
domanda.
Quando divenni anarchico m'innamorai anche dell'astronomia e della teoria dell'evoluzione di
Darwin. Consideravo me stesso un essere umano e una creatura dell'universo. Inoltre, non
sono
italiano, sono friulano, parlo una lingua diversa. Così alla domanda replicai: «Sono
nato in un
paese che si trova a quarantasei gradi di latitudine e tredici di longitudine a est di
Greenwich».
Il funzionario rimase sorpreso. Restò per un istante con la bocca spalancata, poi
disse: «Fila in
ufficio!». Mi disse di ripetere quello che avevo detto agli altri funzionari. Così feci.
«Ma di che
nazione si tratta?», insistette uno di loro. Io dissi: «Prendi l'atlante e scoprirai dove si trova».
Risero. Un ispettore - ebreo, con il pizzo - ci rifletté sopra, poi disse: «Dev'essere
Italia orientale
o Jugoslavia occidentale». Mi rispedirono a Windsor. Da allora, ogni volta che venivo
fermato
al confine, ripetei sempre quella frase. A Windsor, in seguito alle mie attività
antifasciste, i fascisti mi avevano messo sulla loro lista
nera. Cercai di ottenere un posto di lavoro alla Ford, nello stesso posto dove più tardi
lavorò
Federico [Arcos], ma non mi presero. Per un certo periodo tornai a fare il fabbro, poi andai a
Detroit a lavorare con mio fratello William ad alcune costruzioni (Si era spostato a Detroit
nel
1925). Prima di me c'erano tre operai specializzati, così iniziai come lavoratore
semplice. Dopo
sei mesi mio fratello mi diede un martello e una cazzuola e mi mise a lavorare come
muratore. Nel 1926 la lotta con i fascisti a Windsor si fece più acuta e i
compagni mi chiesero di unirmi
a loro. Partecipai a un incontro organizzato dal console italiano, presieduto dal mio vecchio
capo
Luigi Merlo. Alzai la mano, ma il console fece finta di niente e io lo apostrofai come
meritava:
codardo. Sul palco, uno dei capi fascisti di Windsor disse: «Se hai fegato, sali qui sopra e
parla».
Mi tirai su il più rapidamente possibile e in cinque secondi raggiunsi il palco. Dissi al
console
che erano un branco di assassini, bugiardi e tutto il resto. Alle mie spalle c'era un ritratto del
re.
Lo strappai dalla parete e lo accartocciai con le mie mani gettandolo in faccia al console. Fu
il
segnale d'inizio degli scontri. In meno di un minuto tutti i presenti cominciarono a battersi tra
di loro. I fascisti si ritirarono in un angolo. Mio fratello mi raggiunse con un paio di
compagni
e disse: «Tilio,andiamocene». Sentimmo le sirene della polizia in arrivo. «Andiamo a
Detroit,
stasera ce ne andremo all'opera a vedere Rigoletto». Eravamo nel 1926:
due giorni più tardi mio fratello mi disse di andare a Redford, un sobborgo
di Detroit, per lavorare a una casa. Attorno alle dieci del mattino vidi una grossa macchina
fermarsi di fronte al luogo dove stavamo lavorando. Dissi a me stesso: «Dannazione, questi
tipi
sono funzionari dell'immigrazione». Vennero avanti e uno di loro chiese di Attilio Bortolotti.
Domandai se potevo essergli di aiuto. Girò il bavero della giacca e mi mostrò
il suo distintivo.
Dichiarai di chiamarmi Caligaris (un friulano che avevo incontrato a Ellis Island). Mi
lasciarono
andare. Mi dissero di mandargli un operaio per volta per l'identificazione. Chiamai prima uno
del posto, gli altri li misi in allarme strillando in friulano. Tutti, compreso mio fratello
Umberto,
se la squagliarono. Non c'erano dubbi sul fatto che i funzionari fossero stati mandati dal
console
italiano o dai fascisti.
Segnalato dappertutto Alcuni
giorni dopo mio fratello William mi chiamò (allora vivevo a Detroit) e mi
avvertì che i
funzionari dell'immigrazione stavano arrivando. Passò a prendermi e ce ne tornammo
a Windsor.
Nel giro di cinque minuti arrivò un funzionario, ma la gente con cui ormai avevo
legato gli disse
che aveva sbagliato indirizzo. A Windsor non riuscivo a trovare lavoro. Ero segnalato
dappertutto. Trascorsi la maggior parte del tempo a lavorare per Sacco e Vanzetti, raccolsi
denaro e pubblicai un volantino. La gran parte dell'inverno 1926-1927 la dedicai a dipingere
un
ritratto in bianco e nero di Bakunin. Feci una cornice molto elaborata, mi ci vollero tre mesi
per
finirla: spine e aghi, come nella vita di Bakunin. Alla base della cornice scolpii un teschio,
con
nastri che fuoriuscivano dalle orbite con su scritto il seguente messaggio: «Dio Non Esiste».
Sul
lato sinistro scolpii Il pensatore di Rodin, accompagnato dalla scritta:
«Anarchico è il pensiero,
e verso l'anarchia va la storia». Alla sommità c'era una ragazza che scostava un velo
nero dietro
cui spuntava un sole raggiante («il sol dell'avvenire»). Il lato destro mostrava tre donne nude,
con
un nastro dove si leggeva: «Libertà e Uguaglianza». Non era niente male. Mio
fratello lo portò
a Detroit, dove venne messo in una lotteria. Non sono mai riuscito a scoprire chi lo ha vinto.
Per
riaverlo oggi sarei disposto a dare diecimila dollari. Un giorno, mentre stavo ultimando
la cornice, entrarono due poliziotti. «Bortolotti», disse uno
di loro, «il vecchio (il capo della polizia) vuole parlare con te». Li seguii. Quando aprirono la
porta, il capo mi disse: «Entra, ho qualcosa da dirti». Sulla sua scrivania vidi tutti i volantini
che
avevo pubblicato in italiano, insieme con delle copie in inglese. Dissi: «Deve piacervi quello
che
abbiamo pubblicato, chissà quanto ci avete messo a tradurli!». «Bortolotti»,
replicò, «voglio che
tu sparisca da Windsor e dal Canada. Se non conoscessi tuo fratello Bill ti farei mettere
dentro
per vent'anni, come consente la legge approvata durante lo sciopero generale di Manitoba del
1919. Adesso puoi andare». Mentre camminavo verso casa dissi a me stesso: «Cosa
diavolo faccio ora?». Non avevo soldi.
Dovevo ottocento dollari alla mia padrona di casa. Nell'ora di punta serale spesi cinque cents
per
il battello e tornai a Detroit. Presi una stanza. Il giorno successivo vidi un annuncio sul
giornale
che alla Ford cercavano un operaio specializzato in attrezzistica e tintura. Presentai domanda
e
sostenni un facile esame - fortunatamente, perché in quei giorni non sapevo nulla di
trigonometria, fondamentale per ciò di cui avevano bisogno. Mi dissero di
presentarmi il mattino
dopo. Portai con me la mia scatola degli attrezzi e alcuni strumenti e diventai Albert
Berthelot -
dal nome dell'autore di Amore libero - fino a che non fui arrestato due anni
più tardi.
Un'azione stupida, ma ...
Durante quei due anni, 1927-1929, tornai a
Windsor di tanto in tanto per combattere contro i
fascisti. Lo stesso feci a Detroit, dove gli scontri ebbero il loro culmine in occasione del
Columbus Day del 1928: scoprimmo che i fascisti avevano intenzione di attraversare la
città fino
a Cadillac Square in camicia nera e insegne regali. Decidemmo di vedere così quello
che
potevamo fare. Comunisti e liberali dissero di volere unirsi a noi. Quando quel giorno
arrivò -
una vergogna per Detroit - ci ritrovammo soltanto in dodici, un comunista, due socialisti e
nove
anarchici. Sette di noi si appostarono sul lato nord della piazza, gli altri cinque a quello sud.
Quando la banda attaccò Giovinezza, l'inno fascista, cominciammo a strillare:
«Abbasso il
fascismo! Assassini!» ecc. L'uomo che reggeva la bandiera fascista la lasciò cadere,
tirò fuori
una pistola e fece fuoco colpendo due compagni anarchici: Antonio Barra e Angelo
Lentricchia.
Barra fu ferito mortalmente, Lentricchia se la cavò. Quando i fascisti ci circondarono
io afferrai
uno di loro per i lunghi capelli neri e cominciai a prenderlo a pugni. Lo trascinai per i capelli
il
più lontano possibile. La polizia arrivò in motocicletta e a piedi con i
manganelli alzati.
Qualcuno mi chiamò per nome, un compagno che lavorava in un negozio di frutta e
verdura. Mi nascose dietro quattro o cinque barili pieni di mele, giusto un attimo prima
dell'arrivo della
polizia, così mi salvai. Fu un'azione stupida - i fascisti erano circa sessanta o settanta
- ma
sentivamo che dovevamo farla. Nel negozio mi ritrovai in mano una folta ciocca di capelli
neri. Alla Ford, nel frattempo, c'era una campagna per la costruzione del sindacato, per
organizzare
il reparto. Non mi era mai piaciuta l'idea, ma contribuii a distribuire volantini e parlare con i
lavoratori, dicendo che un sindacato poteva creare un nuovo ambiente e migliorare le cose.
Tuttavia io non ne feci mai parte, perché fui arrestato. Durante il 1926 e il 1927
m'impegnai anche nella causa a favore di Sacco e Vanzetti. La notte
dell'esecuzione [22-23 agosto 1927] ci fu una manifestazione di massa - anarchici, comunisti
e
altri in Cadillac Square, con gli oratori che parlarono dal pianale di otto furgoncini. A
mezzanotte arrivò l'annuncio: «Sacco è morto, tra un po' toccherà a
Vanzetti». Qualcuno strillò:
«Attacchiamo il municipio!». La folla cominciò a muoversi, ma arrivarono
quattrocento
poliziotti a cavallo e motocicletta ed ebbero inizio gli scontri. Colpii un poliziotto con due
manifesti arrotolati che denunciavano l'esecuzione, lui mi aprì la testa con una
manganellata.
Riuscii in qualche modo a scappare. Mi recai alla redazione di «Detroit News» dove mi
venne
confermato che Sacco e Vanzetti erano stati uccisi. Non so come riuscii a tornare a casa
quella
notte.
Più di tremila dollari
Da allora, in occasione di ogni anniversario delle
esecuzioni, producevamo volantini di venti
centimetri per trentacinque. Il primo anniversario stampammo diecimila volantini e li
distribuimmo senza problemi. Nel 1929 cominciai a distribuire volantini sulla Fourth Street
ai
lavoratori che uscivano dalla Fischer Body Plant. Un'auto della polizia si fermò e mi
trasse in
arresto. Trascorsi la notte alla stazione di polizia di Fourth Street. Il giorno seguente il capo
degli
investigatori della Ford Motor Company venne a togliermi il lasciapassare dell'azienda. Il
capo
della polizia disse: «Quanto ti dava la Ford per un'ora di lavoro?». «Un dollaro e dieci»,
risposi.
«Mussolini ti pagherebbe così tanto?», domandò. «Io non ho niente a che
fare con Mussolini».
«Tu sei un maledetto bastardo anarchico», gridò. «Tu sarai un bastardo, non io», gli
risposi. A
quel punto qualcuno mi colpì sulla testa facendomi perdere i sensi, e mi ritrovai
rinchiuso in
cella. Poi venni trasferito nel carcere della contea. Tre settimane dopo fui processato davanti
a
dodici giudici per avere contravvenuto a un'ordinanza cittadina. Uno di loro aveva un nome e
una
faccia da polacco. Mi chiese: «Com'è che sei nato in Italia e hai un nome francese
[Berthelot]?».
Replicai: «E com'è che tu sei nato in America e hai un nome polacco?». «Credi in
Dio?»,
m'incalzò. «No», dissi, «sono ateo». «Credi nel governo?». «No». «Sei
anarchico?». «Sì, sono
anarchico!». Ordinarono la mia deportazione in Italia. Questo accadde nell'autunno
1929. Il mio avvocato, Jacob Margolis, cercò di farmi uscire su
cauzione. La cauzione venne fissata in tremila dollari. I compagni di Rivard Street fecero una
colletta e io venni rilasciato. Due giorni più tardi, giunse a Detroit Bruno (Raffaele
Schiavina).
Mi disse: «Tilio, la tua vita vale più di tremila dollari. Torna in Canada e fai perdere
le tue
tracce». Mio fratello venne a prendermi con il suo camion e mi riportò indietro. Un
giorno vidi
un compagno che aveva una gamba di legno (aveva perso la gamba in un'esplosione in una
miniera di carbone nella Columbia inglese), il suo nome era Pietro Baduz. Mi disse che il
console fascista stava tornando a Windsor. Faremo qualcosa? Scrissi un volantino e lo feci
stampare. Poi lo distribuimmo. La domenica successiva il console doveva parlare in
pubblico,
nel seminterrato di una scuola cattolica. Indossava un abito nero. Erano presenti alcuni
compagni. Insieme urlammo: «Abbasso il fascismo! Morte a Mussolini!». La polizia
chiamò
rinforzi. Formavamo due schieramenti contrapposti sui rispettivi marciapiedi. Quando il
console
uscì lo bersagliammo di sputi. Prima che potesse prendere posto sulla macchina della
polizia il
suo vestito era bianco di saliva. In qualche modo mi accusarono
dell'accaduto, ma nessuno
sapeva dove venirmi a prendere.
Il Gruppo Libertario Andai a
Toronto e lasciai la valigia al deposito della stazione dei treni. Attraversai alcuni incroci
poi vidi una biblioteca. Era quella cui faceva capo l'università di Toronto. Ci entrai,
era piena di
studenti. Sulla lavagna degli annunci c'erano diversi biglietti con l'indicazione di stanze da
prendere in affitto. Una di queste era con una famiglia finlandese, per quattro dollari la
settimana. Con me ne avevo quindici. Tornai alla stazione, presi la valigia e mi diressi verso
la
casa presentandomi come Arturo Pittana (Pittana era il nome di mia madre da signorina). La
padrona di casa mi diede un giornale dove c'era una richiesta per un attrezzista tintore a
sessantacinque cents l'ora. Presi quel lavoro e rimasi per otto anni, realizzando strumenti per
le
parti meccaniche delle automobili. Eravamo nel 1929, due settimane prima del Crollo della
borsa. Il mio primo anno e mezzo a Toronto feci fatica a conoscere italiani. Nell'agosto
1931, tuttavia,
stampai cinquecento volantini per l'anniversario dell'esecuzione di Sacco e Vanzetti e li
distribuii
nel quartiere italiano. Lì incontrai socialisti e comunisti che mi parlarono di un altro
anarchico
italiano, Ruggiero Benvenuti, del quale ben presto divenni amico e di un circolo Matteotti,
frequentato in maggioranza da socialisti (quando Matteotti venne assassinato nel 1924 bruciai
il mio passaporto). Presi parte a uno dei loro incontri e nel corso della discussione dissi la
mia.
Il capo dei socialisti disse: «Hey, Pittana, ti sfido a un dibattito». Una settimana dopo il
dibattito
ebbe luogo. Al termine, un gruppo mi avvicinò e mi strinse la mano: «Piacere di
conoscerti»,
dissero. Alcuni erano friulani, delle mie parti, e insieme a Benvenuti demmo vita a un gruppo
anarchico. Il gruppo, il Gruppo Libertario, pubblicò un giornale - Il Libertario
- e organizzò una
filodrammatica della quale io fui coordinatore e che mise in scena lavori di Pietro Gori, Gigi
Damiani e altri. Socialisti e comunisti, quando arrivò il momento di mettere in piedi
le recite -
e naturalmente i balli - a venticinque cents a persona, li perdemmo per strada. Il nostro
gruppo
era composto di circa dodici membri, compresi Ernesto Gava e Cocchio (l'unico ancora vivo,
oltre Benvenuti e me). La maggior parte erano anarchici-comunisti, io invece mi consideravo
un
«anarchico senza aggettivi», non aderivo a nessuna corrente particolare né alle idee
di qualcun
altro, come Tresca, Galliani o altri ancora. Non ero disposto a mettere nessuno sul piedistallo.
C'era poi anche un altro gruppo russo, che comprendeva alcuni ucraini e bulgari (di
questi ultimi
Vasiliev era il più attivo) e che aveva acquistato una chiesa sconsacrata
trasformandola in un
luogo di riunione (L'ultimo membro, Petrov, morì nel 1970 circa). Mettemmo in
scena le nostre
commedie anche da loro e più tardi al Labor Lyceum, la sala del sindacato ebraico.
Fu tramite
russi e ucraini che entrai in contatto con gli anarchici ebrei di Toronto: Seltzer, Yudkin,
Desser,
Langbord, Goodman, Steinberg e altri. Il gruppo ebreo era legato al Workmen's Circle,
Frei
Arbeter Shtime, e successivamente a un gruppo di lingua inglese chiamato Libertarian
Group,
che Emma Goldman organizzò quando venne a Toronto per delle conferenze nel
1934. Ci
incontravamo al Dessers, un punto di riferimento per il movimento, e occasionalmente da
Vasiliev. Un altro membro attivo, insieme a me e Ahrne Thorne, era Dorothy Rogers, una ex
socialista convertita da Emma Goldman. Nel 1932 o 1933 Benvenuti e io decidemmo di
preparare un volantino per commemorare Sacco
e Vanzetti. Lo portammo da Simkin, un compagno ebreo che aveva una piccola stamperia, ne
facemmo tirare cinquecento copie e poi le distribuimmo. L'anno seguente, il 1934, incontrai
per
la prima volta Emma Goldman: fui presentato da Simkin - ero sempre in contatto con gli
anarchici ebrei. Stava al Langbords dove teneva una serie di conferenze. Andai a sentirla e
rimasi
colpito dal suo modo di parlare, dalla sua energia, dalla eleganza delle sue frasi. Non era
certo
bella - piccola, grassa, per nulla attraente - ma quando parlava, con quell'ardore, dimenticavi
tutto. L'aspetto, quando te la trovavi di fronte, non aveva più nessuna
importanza. Una volta che
ebbe finito il suo discorso, me la presentarono.
Dieci copie dell'«Adunata» La
seconda occasione in cui la vidi fu agli inizi del 1939. Era ancora a Toronto per delle
conferenze. Ci rimase uno o due mesi e diventammo buoni amici. Ciò che
m'interessava
maggiormente erano i racconti sulle sue esperienze in Russia e in Spagna. La accompagnavo
con
la mia macchina e le organizzai alcune conferenze, comprese due o tre a Windsor, dove
potevano
convenire, attraversato il confine, gli anarchici di Detroit. Un giorno, mentre eravamo
lì, la portai
a fare un giro in macchina lungo il Detroit River indicandole i luoghi più
caratteristici. Quando
fummo di fronte a Belle Isle, al centro del fiume, mi fermai e le spiegai quello che stavamo
vedendo. Le dissi che Belle Isle era famosa nel secolo precedente quando gli schiavi neri
venivano introdotti in Canada attraverso un passaggio clandestino. La cosa la
interessò molto,
era affascinata dall'idea di essere tanto vicina agli Stati Uniti. Guardava Belle Isle e Detroit
con
gli occhi di un'innamorata. Fu allora che compresi quanto significasse l'America per lei.
Sì, lei parlava molto di Berkman e soprattutto del suo attentato a Frick. Un
giorno disse: «Se tu
incontrassi Berkman non lo crederesti mai capace di sparare a un essere umano, ma era
sedotto
dall'ideale dell'anarchismo e riteneva che il comportamento di Frick fosse antisociale e
disumano
e che quindi dovesse essere eliminato». Per tutti gli anni Trenta fui attivo nel movimento
antifascista. Nel settembre 1938 venni invitato
dall'organizzazione sindacale di Windsor a tenere una conferenza sul fascismo e le
attività dei
fascisti a Windsor, dove avevano organizzato una scuola per insegnare l'italiano con libri
stampati secondo gli ordini di Mussolini. Riuscii a entrare in possesso di alcune copie di quei
libri e spiegai ai presenti che c'era più fascismo che lingua. Il giorno successivo sul
«Windsor
Star» apparve un articolo che parlava della mia conferenza. I fascisti non vedevano l'ora di
farmi
fuori. Così, quando scoprirono che anni prima a Detroit ero uscito di prigione su
cauzione, si
rivolsero alle autorità dell'immigrazione. Appena esplose il conflitto, nel 1939, i
fascisti di Windsor e Toronto mi denunciarono per la mia
opera di diffusione delle idee anarchiche: all'epoca prendevo dieci copie dell'«Adunata» e le
distribuivo insieme ad alcuni giornali francesi e belgi. Le minacce nei miei confronti si fecero
più pesanti e per la prima volta nella mia vita - detesto le armi e gli omicidi - mi presi
una pistola
che tenni per alcuni mesi. Organizzammo manifestazioni e comizi durante i quali
prendevamo
la parola io, Ahrne e Dorothy Rogers e fummo attaccati dalla polizia a cavallo. Le
autorità mi
tenevano sotto stretta sorveglianza e cercavano pressantemente di farmi deportare.
Rilasciato su cauzione Alle
cinque del mattino del 4 ottobre, la nostra casa venne circondata dalla polizia a cavallo e
tre di noi furono arrestati: Gava, Benvenuti e io. Emma fece più di chiunque altro per
impedire
la deportazione. Organizzò incontri, raccolte di fondi e prese immediatamente il
miglior
avvocato progressista, un ebreo che si chiamava Cohen. In due o tre settimane riuscì
a far
scarcerare Gava e Benvenuti. Io rimasi dentro per tre mesi e mezzo. Gli altri avevano una
famiglia - io ero ancora da solo - e i fascisti mi odiavano in modo particolare; inoltre, cercai
di
accollarmi tutte le responsabilità, insistendo di essere io l'unico artefice. Il
giorno del mio arresto, la «squadra rossa» di Toronto venne e sequestrò tutti i miei
libri e i
miei periodici, una grande collezione di 1500 volumi, insieme a tutta la mia corrispondenza.
Fecero venire un grosso camion che si portò via tutto il materiale, che venne dato alle
fiamme
a due anni di distanza. Il giorno prima del rogo, due poliziotti canadesi vennero ad
annunciarmi
che il giorno seguente avrebbero bruciato ogni cosa. «Credete che bruciando i miei libri
brucerete i miei ideali?», dissi. Alcuni giorni dopo arrivò un altro poliziotto, un
giovane nato a
Vancouver da genitori friulani. Mi portò una decina di pamphlet. Tutto quello che
rimaneva della
mia raccolta, il resto era stato distrutto. Anche vivessi altri cento anni non lo
dimenticherò mai.
Il poliziotto mi chiese cosa fosse l'anarchismo. Quando gli risposi, lui replicò: «Ma
questa è
democrazia!». Questo accadeva nel 1942. Ormai vivevo con Libera, ci eravamo messi
insieme proprio
quell'anno. «Vuoi diventare cittadino canadese?», mi chiese il poliziotto. «Allora è
meglio che
stai tranquillo. Dimentica tutte queste cose e non parlare in pubblico». Risposi che volevo
essere
cittadino del mondo. Stavo aiutando due disertori di Detroit e uno di loro era presente proprio
quando arrivò il poliziotto. Libera lo avvertì in italiano e lui riuscì ad
andarsene. Li salvammo
dall'arresto e da una probabile condanna a morte. Uno era il figlio di Nick e Margaretta
Catalano,
compagni di Detroit. Oggi vive in California e ci vediamo abbastanza spesso. Dopo tre
mesi e mezzo, come ho detto, venni rilasciato su cauzione. Gli attrezzisti adesso, a
causa della guerra, erano molto richiesti e così non ebbi difficoltà a trovare
lavoro. Inizialmente
sì, perché ero nato in Italia, un Paese che era in guerra con il Canada. Promisi
a Emma che non
appena avessi ottenuto un lavoro avrei affittato un grande appartamento per lei e Dorothy
Rogers, la sua segretaria. Allora Emma viveva in uno spazio angusto con i Meelis, compagni
olandesi, e non aveva nemmeno i soldi necessari all'acquisto di francobolli. Così
quello era
diventato il mio primo pensiero. Mi presentai in quattro o cinque fabbriche, ma non volevano
italiani. Provai ancora da un'altra parte, alla United Steel Corporation. Prima di arrivare
incontrai
un amico, Bartello, e così mi battezzai Arthur Bartell, per apparire più
anglosassone. L'uomo con
cui ebbi il colloquio era olandese e mi scambiò per un suo connazionale: ero biondo,
con gli
occhi azzurri e Bartell era un nome olandese. Il giorno seguente ricevetti una telefonata dal
sovrintendente, Joe Schanfield, che era ebreo, e che mi chiese di presentarmi. Ebbi un
colloquio
anche con lui e alla fine mi disse di presentarmi l'indomani. Così presi la mia scatola
degli
attrezzi e cominciai a lavorare. Questo fu agli inizi del 1940.
La morte di Emma Mentre
mettevo da parte il denaro sufficiente per prendere un appartamento in affitto a Emma,
lei fu colpita da un grave infarto. Accadde il 17 febbraio, verso sera, l'anniversario del rogo di
Giordano Bruno. Bruno era entrato nella mia vita abbastanza presto e su di lui avevo raccolto
parecchie informazioni. Stavo proprio andando a parlare di lui a un gruppo di amici
nell'appartamento dei Meelis al 259 di Bond Road, dove viveva anche Emma; passai a
prendere
Jack e Sylvia Fitzgerald con la mia macchina - dopo saremmo dovuti andare a prendere anche
Ahrne Thorne - quando il loro telefono cominciò a squillare. Era Dorothy: «Venite
subito! Emma
ha avuto un infarto!». Saltai in macchina e raggiunsi la casa a tutta velocità. La
trovai sdraiata su letto. Cercava di tirare
giù l'orlo della camicia perché aveva le ginocchia scoperte. Qualche istante
dopo arrivò
l'ambulanza e la portarono in ospedale. Non era in grado di parlare. Ma i suoi occhi
parlavano
e la stretta della sua mano era salda. Senza l'aiuto di Emma sarei stato deportato. Emma
aveva
molto fascino; anche i suoi nemici politici la rispettavano. Non riacquistò più
la parola. Morì tre
mesi dopo. Sì, i miei sentimenti per l'anarchismo non sono mutati. All'inizio ero
stato un vero rivoluzionario.
Ero giovane e avevo l'argento vivo addosso, ero innamorato di Galleani e di terroristi come
Emile Henry. Ma durante la tragedia che colpì Sacco e Vanzetti, che ebbe grandi
ripercussioni
in Canada e lasciò su di me un'impressione duratura, la debole risposta che
ottenemmo da parte
della popolazione in genere mi rese più riflessivo, più filosofo. Denaro e
proprietà non hanno mai
inciso sulla mia psiche; il denaro non serve al nostro prestigio personale ma ad aiutare quelli
che
hanno bisogno. Tuttavia ai tempi della Rivoluzione spagnola credevo ancora alla
necessità della
violenza. Dopo il maggio 1937 a Barcellona cominciai a riflettere. Decine o centinaia di
migliaia
di vite erano state sacrificate. Per cosa? Gli anarchici avevano compromesso i loro principi
collaborando con un governo, io cominciai a considerare che l'anarchismo non può
essere
imposto, ma può essere raggiunto solo attraverso l'educazione e la propaganda.
Questo rimane
il nostro obiettivo più importante. Spesso mi dispiaccio di non avere raccolto l'invito
di Ahrne
a seguire i corsi di letteratura e storia all'università di Toronto. Per qualche
ragione, rispetto al passato, oggi sono molte meno le persone che si avvicinano
all'anarchismo. Tuttavia non sono deluso, anche se il movimento non è quello che
dovrebbe
essere. Emma Goldman è stata per me una grande fonte d'ispirazione. E anche
Rocker. Adoravo
il suo modo di parlare e l'ho sentito spesso a Toronto. Era solito venirci ogni anno per tenere
un
minimo di sei conferenze. Era tedesco, ma era un ottimo compagno e un grande oratore.
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CARO ATTILIO, MANDI.
L'undici febbraio è morto a Toronto (Canada) Attilio
Bortolotti. Aveva 91 anni. Era nato a Codroipo, in Friuli, il 19 settembre 1903. Con lui
scompare uno degli
ultimi militanti del movimento anarchico di lingua italiana in Nord America. Era
il più buono di tutti noi ci ha detto al telefono Valerio Isca, di qualche anno
più vecchio di
Attilio, residente a New York - altra bella figura di quel movimento. Ed in effetti la
bontà, intesa
non solo come disposizione dell'animo ma come solidarietà attiva e operante, era uno
dei tratti
più evidenti di quest'uomo, del suo faccione allegro con quelle grandi, simpatiche
orecchie a
sventola. Attilio è una di quelle persone che rimarrà per sempre nella
mia memoria, sempre ad
agire ai limiti estremi delle sue possibilità, sempre cercando una coerenza con
i suoi/nostri
ideali e riuscendoci quasi sempre. Non penso sia passato giorno nella sua vita senza che
almeno
per momenti più o meno brevi egli non abbia pensato all' «ideale». Mi sento
profondamente
onorato di essere uno di quelli che gli è stato più vicino. Così
ci ha scritto Gianni Corini, un
compagno che ha fatto parte della nostra redazione negli anni '70 per poi trasferirsi con la
famiglia a Toronto, grazie all'interessamento di Attilio. L'esperienza di Attilio è
stata, per certi tratti, quella comune a milioni di altri italiani in Nord
America a cavallo tra gli ultimi decenni dell'800 ed i primi del '900; e, in particolare, la sua
esperienza militante è accomunabile a quelle delle migliaia e migliaia di emigrati che
(a volte
già «sovversivi» prima di imbarcarsi, a volte no) dal contatto con la realtà di
emarginazione e
sfruttamento oltreoceano trovarono lo stimolo per aderire all'anarchismo, per diventare
militanti
di un'idea così radicale in un mondo tanto nuovo ed atTascinante quanto duro e
spietato. Della
sua militanza Attilio riferisce nello scritto che pubblichiamo in queste pagine, che è
la
trascrizione curata dallo storico anarchico americano Paul Avrich (docente di storia al
Queens
College C.U. of NY., a F1ushing, NY.) di un'intervista fattagli dallo stesso Avrich in parte a
Toronto (29.11.1972) ed in parte a North Miami Beach (Florida) (10.12.1988 e 19.1.1990).
Un'intervista svoltasi in lingua inglese e per noi tradotta da Stefano Viviani. Sono pagine
vive, che testimoniano nei loro piccoli episodi quella che è stata la realtà
dell'impegno antifascista ed internazionalista di chi, anche a migliaia di chilometri di
distanza,
non ha mai accettato di considerarsi estraneo alle vicende del proprio paese d'origine ed alla
lotta
contro l'infamia rappresentata dal fascismo. Attilio era persona semplice, profondamente
modesta, assolutamente disinteressato anche alla «costruzione» della propria immagine. Ed
è
significativo che queste sue note autobiografiche, di cui pure era in possesso, ci siano state
spedite dalla sua compagna Libera Martignago e dal figlio Libero all'indomani della morte di
Attilio, dietro nostra richiesta di ricevere qualcosa per poterne ricostruire un po' la biografia.
E, tanto per completare le sue note autobiografiche, che si fermano all'inizio degli anni
'40,
ricordiamo che Attilio ha continuato a lavorare come attrezzista in un'impresa fino al 1959.
Quell'anno - ricorda il figlio Libero in uno scritto inviatoci - Art decise di
ritornare in Europa
per una visita per la prima volta dopo 39 anni e andammo anche Libera ed io.
Un viaggio
magnifico di 3 mesi attraverso Francia, Spagna, Italia e Svizzera. Io festeggiai
il mio 13°
compleanno in un posto a nord di Barcellona e festeggiammo anche l'avvenuta entrata
nella
Spagna di Franco mentre Art era ancora sulla lista delle «persone non gradite». Incontrammo
una gran parte della famiglia Bortolotti, che viveva nella stessa casa in cui Attilio era nato, e
visitammo numerosi anarchici, tra cui Armando Borghi. Sulla via del ritorno, ci accorgemmo
che avevamo speso più del previsto. Art chiese un piccolo aumento della paga, che
gli venne
rifiutato. Allora si licenziò e cominciò la storia di quella che oggi è
la Bartell Industries. Attilio si mise in proprio, prima lavorando nel garage di
casa, poi progressivamente allargando
il posto di lavoro - sempre lavorando, per anni, 7 giorni alla settimana. Il suo chiodo fisso era
quello di riuscire a mettere in piedi un'azienda i cui proventi servissero per finanziare le
numerose iniziative del movimento anarchico internazionale. E, dalla fine degli anni '60,
grazie
all'impegno suo, del figlio, di altri validi collaboratori (tra cui numerosi friulani), la Bartell
Industries gli ha permesso di sostenere sostanziosamente decine e decine di iniziative,
perlopiù
editoriali, non solo di lingua italiana. Tra queste ricordiamo le Edizioni Antistato, allora
gestite
da Pio Turroni e poi passate a Milano; la rivista Volontà; il Centro
Studi Libertari ed i Convegni
internazionali di studi da esso promossi; le edizioni curate da Giuseppe Galzerano (un cui
ricordo
di Attilio è comparso su Umanità Nova);
Senzapatria e tutte le campagne antimilitariste in
sostegno degli obiettori totali; la campagna in sostegno di Monica Giorgi e tante altre. E poi
la
Cienfuegos Press promossa da Stuart Christie in Scozia, ed il periodico londinese
Freedom, con
relativa tipografia, libreria e casa editrice, ecc. ecc.. E poi c'era una piccola comunità
libertaria
in Andalusia, con i cui componenti Attilio era in corrispondenza da anni ed ai quali non
faceva
mancare il suo regolare sostegno. Decine di iniziative, centinaia, forse migliaia di persone
hanno
trovato in Attilio un sostenitore generoso e rispettosissimo dell'altrui autonomia. Due righe
affettuose ed un assegno, offerto con discrezione: così Attilio ha contribuito ad
alleviare le
difficoltà di tante famiglie, per esempio aiutando le vedove di tanti compagni, oppure
mantenendo agli studi i figli di compagni e conoscenti che altrimenti avrebbero dovuto
smettere
gli studi. E così via. Un posto speciale, nel suo cuore, lo ha sempre occupato la
nostra rivista, di cui Attilio è stato fin
dalla fondazione un attento lettore ed un fraterno sostenitore, mai e poi mai cercando
nemmeno
minimamente, nemmeno indirettamente, di «condizionarci». Alieno da ogni settarismo,
attento
a quanto di nuovo si muoveva in campo giovanile, anarchico «senza aggettivi» in un
movimento
troppo spesso invischiato in questioni di sigle, tendenze, contrasti, Attilio aveva una sua
precisa
concezione del movimento, del suo ruolo e non mancava di proporla agli altri e di difenderla:
di proporla, appunto, mai di imporla. Non sopportava la sopraffazione, la calunnia, era
istintivamente conciliante e pacifico, pronto a dimenticare i torti subiti. Una pasta d'uomo,
come
si dice. I suoi viaggi in Europa negli anni '60, '70 e '80, spesso in coincidenza con
significativi
appuntamenti dell'anarchismo internazionale, sono stati tutte occasioni per conoscere nuovi
compagni, per ritrovare i vecchi, per conoscere quelli che spesso aveva sostenuto solo dopo
aver
ricevuto una lettera o una segnalazione da parte di altri compagni. Da bravo «furlan» era
particolarmente legato alla sua terra e, dopo il terremoto che una ventina d'anni fa
squassò quelle
terre, fu generosissimo finanziatore della ricostruzione, innanzitutto di quella «anarchica» -
aiutando innanzitutto i singoli compagni della zona a rimettere in sesto le loro case, a
riprendere
l'attività lavorativa. Si rifiutò di partecipare alla raccolta di soldi promossa
dalla numerosa
comunità friulana in Canada e preferì recarsi di persona in Friuli:
l'ufficialità non faceva per lui,
l'accentramento burocratico ancora meno. In tema di viaggi, un ricordo indelebile nella nostra
mente resta la cavalcata indescrivibile (... anche se ne abbiamo riferito su «A» 77, ottobre
1979)
che con lui abbiamo fatto nel '79, percorrendo oltre 20.000 in chilometri in meno di un mese
e
mezzo, da Toronto a Vancouver, a Los Angeles, a Phoenix, a Chicago, a Buffalo, a New
York,
a Philadelphia, a Boston, a Montreal. Un viaggio, Il viaggio della nostra vita, a
conoscere - oltre
a numerosi giovani di lingua inglese - centinaia di vecchie e vecchi anarchici di lingua
italiana.
Quasi tutti scomparsi, ormai. Ma allora ancora in grado di raccontarci delle mobilitazioni per
Sacco e Vanzetti, degli enfisemi contratti in miniera, delle botte prese dai fascisti o dai
poliziotti
(ma anche di quelle date...), delle espulsioni e di tante altre vicissitudini giudiziarie.
Anche Attilio, ora, se n'è andato. Noi che abbiamo avuto la fortuna di
conoscerlo e di volergli
bene e, tramite lui e con lui abbiamo avuto modo di conoscere (e, per quanto possibile, di far
conoscere) una fetta importante dell'anarchismo di lingua italiana - quella dell'emigrazione
oltreoceano - sentiamo tutto l'impegno a proseguire quell'opera di propaganda anarchica che -
certo modificandosi ed aggiornandosi di continuo (come pure sempre cercò di fare
anche Attilio)
- resta comunque nella sua essenza la prosecuzione di un impegno collettivo per
l'emancipazione
umana e sociale delle genti, per la libertà e l'anarchia. Di questo impegno collettivo,
Attilio è
stato un militante tra i tanti, senza aspirare ad emergere né tanto meno ad imporsi. E
proprio per
questo, la sua figura si staglia forte e pulita. Un forte abbraccio a Libera, anche lei nostra
compagna, donna forte, allegra e di buon senso, cui
non poche volte toccò di «proteggerlo» dalla sua stessa generosità (e dai non
pochi furbi che
sempre si aggirano intorno ai generosi) ed al figlio Libero. E l'ultimo saluto sia nella sua
amata
lingua friulana: caro Attilio, mandi.
Aurora Failla e Paolo Finzi
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