Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 208
aprile 1994


Rivista Anarchica Online

Lupo metropolitano
di Mauro Macario

L'11 marzo è morto Charles Bukowski, tripudio degli accademici, lutto per tutti i «maledetti». Nato ad Andernach, in Germania, nel 1920, andò con la famiglia in America che era ancora bambino. Disancorato da qualsiasi regola di vita sociale, fino all'età di cinquant'anni, passò da un lavoro all'altro, tutti umilissimi, che regolarmente lasciava dopo una settimana. Fece solo il postino per dodici anni. Viveva in quartieri poveri, a Los Angeles, perennemente ubriaco, odiosamente simpatico, teneramente duro. Scriveva poesie e brevi racconti per riviste underground, fino a quando il successo inatteso, più in Europa che in America, non gli aprì un po' di sole in quella sua vita trascinata che sembrava irrimediabilmente destinata alla disperazione totale. La critica italiana, quella «ufficiale», non lo ama e continua a disistimarlo perché Bukowski rifiuta la ricerca formale raffinata e si getta in una scrittura colloquiale, popolare, aspra. In realtà è un grande scrittore di sentimento «anarcoide», compagno di strada di tutti gli emarginati e i solitari che difendono a caro prezzo il proprio individualismo in sfregio al perbenismo interessato delle istituzioni e loro derivati.

Lattine di birra
Bukowski bambino che dalla cinghia del padre impara il suono secco della vita: una promessa violenta, una promessa mantenuta. Bukowski che a scuola si picchia a sangue. Bukowski divorato da foruncoli enormi, sottoposto a trapanazioni, guardato con scherno dalle ragazze che scelgono i ricchi con la macchina e la pelle liscia. Il padre che vergognandosi davanti al quartiere di essere disoccupato finge di avere un lavoro ed esce al mattino e torna alla sera. Il giovane Charles che invece un lavoro lo trova davvero ma non ci va o viene licenziato. Bukowski magazziniere per una settimana, fattorino per un mese, postino per dodici anni. Solo in una stanza, in una bottiglieria, per le strade del paese felice ... La solitudine è un concime pericoloso, si cresce avvelenati, si osserva la vita dalla finestra e di notte nelle fogne abitate della città ci si unisce al popolo del buio: pazzi delinquenti, sbandati, puttane, vagabondi, alcolisti. Nei suoi libri senza orizzonte, senza alcuna speranza, senza un porto fermo, non c'è nemmeno la consolazione di affermare che il male viene da una parte, frutto di una zona sociale precisa. La condanna, spesso indiretta, è globale e investe non solo le strutture sociali ma la natura umana che agli occhi di Bukowski appare crudele, malsana, avara, insidiosa e traditrice. Ma questo lupo urbano selvaggio e sfuggente sa più di quanto dice, più di quanto finge di ignorare, più di quanto estingue in fondo alla rassegnazione. Una rassegnazione indolente e pigra che lo assopisce fra due guanciali di lattine di birra dove, annebbiato e sconvolto, parte per il Sogno Americano sul carro merci dell'ora zero.

Senza retroterra senza tradizioni
Sogno che si tramuta in incubo e poi in delirio perché lui sa che questo sogno quotato nella Borsa Internazionale è nato a Wounded Knee e dintorni dalla premiata ditta Bibbia & Sciabola. Lo sa e ci beve sopra perché la lucidità è dolore e il dolore è solitudine. La solitudine della megalopoli che scoppia adagiandosi in lui come una gemella dell'abbandono, i cui vagiti sono strappi di collera individuale da vecchio vandalo di quartiere che non smette di essere rissoso. La solitudine che induce all'eccesso per sentirsi in compagnia della propria identità, che ha bisogno di affermarsi in un marasma oceanico di pullulanti entità numeriche, meno di uomini e quasi ectoplasmi. Dietro l'apparenza di un ordine sociale organizzato e produttivo si cela la provvisorietà dei rapporti umani, del lavoro umile, della merce a credito. Avventurismo da «vecchia frontiera» con lo strascico inevitabile dei miti a uso e consumo dell'uomo medio. Bukowski si sveglia pensando che il migliore saluto a quella «umanità che mi sta sul cazzo da sempre» («Donne») è vomitare la notte alcolica e riattaccare la prossima lattina, quasi il gesto di strapparla fosse come disinnescare una bomba a mano nella cui esplosione gastrica e mentale perire più volte al giorno per rinascere stordito, coraggioso, provocatore. Bukowski, nato ad Andernach, in Germania, nel 1920, e trasferitosi con la famiglia in America, non appartiene più all'America nè all'Europa. Non ha più radici. E' un apolide. Uno zingaro degli agglomerati urbani, senza retroterra, senza tradizioni, senza un paesaggio da ricordare. Coltiva il suo sradicamento come una leggenda anonima. L'anonimità è la sua denuncia ma anche il suo rifugio.
Egli glorifica ed elogia poeti sconosciuti, non venuti alla luce e per contro disprezza personaggi acclamati dall'establishment culturale. Non aderisce, si stacca e torna solo nelle strade, negli ippodromi, nei bar. Pensa a Celine e a John Fante. Il bar per lui è un territorio neutrale, da armistizio sociale. Una sorta di limbo dove la società concede una tregua ai suoi fuoriusciti, ai suoi indiani di fatto, non di origine. Il bar allora è una riserva in cui Bukowski si autorelega diventando un «barfly», una mosca da bar.

Profughi del nulla
Il barfly è l'uomo che rinuncia in partenza all'integrazione, è il metropolitano terrorizzato dalla famelicità dei quadri dirigenti, è un imputato che scappa dal Processo di Kafka, che vuole sottrarsi alla condanna immotivata, è l'orfano che cerca una famiglia negli estranei di un locale, certo di avere con loro dei comuni denominatori che formano una catena salvagente invisibile ma solidale, tacita come un atto di sangue fra gitani. Nei bar incontra gente senza volto, immobile e sbiadita, una popolazione meccanica inattivata. Altre volte quei luoghi da profughi del nulla si animano di figure stremate, frustrate, vinte ma ancora e sempre fantasiose ai limiti dell'illegalità con i loro progetti ladreschi che esaltano Bukowski-Caronte. Lui, spronato da quella ciurma a vivere l'odissea notturna, imbarca sul suo vascello fantasma i superstiti folli di un Novecento che se ne va. Un canto di sirene sfatte e scosciate blocca il timoniere della palude. Certo che, voltandosi, il vecchio Charles incoccia odalische dei vicoli, non proprio sacre icone dell'eterno femminino. Ma chi può accompagnare uno sfaccendato trasgressore se non qualcuno nato dalla stessa costola dell'emarginazione? E' la donna che scatena i sensi come liberazione, una brutale drammaturgia da letto con finale al mattino perché il sipario si chiude sulla luce che si leva, quando gli altri sanno dove andare in quella luce, dritti e disponibili. La sua donna beve quanto lui e al pari di lui le si può leggere nelle occhiaie e nelle guance scavate un diario di vita sconclusionata, errabonda, smarrita. La sua donna viaggia di corpo in corpo come una staffetta triste e febbricitante che non passa niente di mano in mano, se non la fiaccola sempre più debole della propria sconfitta. E in questo rapporto che è un lampo, un flash illusorio ogni insulto si spoglia della sua volgarità, ogni gesto rozzo diventa carezza pietosa, ogni nuova viaggiatrice colta dal sonno nel letto del lupo viene guardata da quest'ultimo con dolorosa solidarietà: quella dei reietti verso i propri simili. Perché dietro l'apparente brutalità, Bukowski nasconde, anche a se stesso, l'innocenza dei «maledetti», la fragilità dei Grandi Solitari, la tenerezza pudica dei randellati dalla vita. Il suo habitat è una casa lurida, disseminata di sporcizia e arredata col disordine, in quartieri di desolazione e povertà. Il suo sguardo fa la ronda nei cortili maleodoranti o su e giù in pianerottoli scrostati dalla voracità della miseria nei rientri albeggianti alla sua tana. La sua finestra che dà su Los Angeles è un occhio che si arrovescia all'interno del suo deserto dove Bukowski stesso si trasforma in cactus, spinoso e pungente, quando i poliziotti bussano alla sua porta per sedare gli schiamazzi notturni o improvvisi, furenti litigi. Quando una donna lo esaspera, quando un capoufficio esercita la sua autorità in chiave di stillicidio crudele, quando l'ultima birra lo espropria della lucidità. Ma è anche, la sua casa, il rifugio in cui il Balordo Simpatico ascolta con abbandono nirvanico il suo Mahler fra lenzuola scomposte, ceneriere colme di tensioni bruciate e accanto corpi addormentati e sempre, in fondo, così estranei.

Scrittura scarna
E tutto questo inferno quotidiano Bukowski lo riversa per liberarsene, per esorcizzarlo, nei suoi libri così scomodi e additati dalla cultura ufficiale e tardivamente giunti al successo. Come, ad esempio, in «Post Office», racconta la sua vita di impiegato alle poste e può farlo perché, ormai sulla soglia della cinquantina, il fannullone alcolista acquista una certa notorietà letteraria dopo aver trascorso dieci anni senza scrivere perché - come afferma lui stesso - «ero troppo occupato a bere ... l'alcol migliora la vita» («Quello che voglio è grattarmi le ascelle» intervista di F. Pivano, Ediz. Sugarco). Certo, libri di successo sono «Donne», «Compagno di sbronze», «Taccuino di un vecchio porco», «Storie di ordinaria follia». Ma vi sono dei testi meno noti ma forse più rivelatori e stimolanti come «A Sud di nessun Nord» dove Bukowski tramite brevissimi racconti riesce misteriosamente in appena due o tre paginette a condensare l'inferno personale e a configurarlo in acquerelli di tesa drammaticità mai priva di risvolti crudeli e deliranti. Il tutto redatto con una scrittura scarna, essenziale come una cronaca della disperazione. Una scrittura così poco letteraria in senso tradizionale da attirarsi addosso l'ottusa ironia di polverosi professori in odore di anatemi. Ma non c'è dubbio che Bukowski, lontano dalle dispute dei compiti in classe, se si avvicinasse a quella sua finestra verso il crepuscolo e già irrigato dalla sua liquida misantropia, non esiterebbe a mormorare tra sé e sé ... «S'i' fosse foco arderei 'l mondo, s'i' fosse vento lo tempesterei, s'i' fosse acqua i' l'annegherei ... ».
Anche adesso che è tutti questi elementi e ci rovescia addosso una acquasantiera di birra.