Rivista Anarchica Online
A nous la libertè diario a cura di Felice Accame
Le rate della memoria
Il cinema, essendo nato allorquando le idee in fatto di memoria non erano affatto chiare, ha contribuito del
suo
forse, a renderle meno chiare ancora. Al personaggio che ricorda - dopo l'artificio tecnico più opportuno
(un
tremolio nella visione, una dissolvenza, uno stacco del sonoro, etc. - in certi casi, dal colore ci siamo
improvvisamente ritrovati nel bianco e nero) - fa subito seguito l'immagine di quel ricordo bello e munito del
contesto originario. Ovviamente, si tratta di una pia illusione: un ricordo, a volte - come nel riconoscimento di
un viso - può essere legato ad un rapporto particolare inconsapevolmente percepito e, nel riprodurlo,
tutto quello
che, allora, era il «resto» (altri elementi di un viso, le condizioni dell'osservatore, l'ambiente dell'osservazione,
etc.) non conta più perché, di fatto, è eliminato. Se, invece, al ricordo si assegna un
posto in un cervello come
se fosse un magazzino, c'è il rischio, cinematograficamente, che questo magazzino venga rappresentato
come
una sequela di fotogrammi completi (di personaggi, di parole, di contesti, di ambiente). Psicoanalisi alla mano,
poi, il cinema si è complicato ulteriormente la vita. Come in una seduta freudiana in cui il paziente
viene
ricondotto dall'analista - anche tramite l'ipnosi - al «vero» ricordo ch'è stato convenientemente rimosso
così certi
film ci hanno abituato alla sua rateazione. Il personaggio ricorda per fasi che punteggiano la narrazione e solo
alla conclusione - in un rapporto catartico - il ricordo è finalmente completo, corrente e lineare, causa
sufficiente
e necessaria, per «spiegare» quanto abbiamo visto. E' il caso, per esempio, del Sergio Leone di Per
qualche
dollaro in più e di C'era una volta il west, ove il frammento
compositivo, e progressivamente compositivo,
occorre nella narrazione per conferire una motivazione «lontana» ai suoi personaggi. Il momento della
narrazione in cui il rammemorante paga la sua rata allo spettatore dipende, ovviamente, da
una scelta ideologica del regista. Quando ci si ricorda di qualcosa? Tutto il santo giorno. Così nella vita,
ma non
nel cinema. Leone, per continuare l'esempio, faceva scoccare l'ora della fatidica rata in coincidenza con il suono
di un carillon, con il fumo di una droga, con un faccia a faccia carico di tensione e purtuttavia dai tempi rarefatti.
Grossomodo, si può dire che il momento del ricordo è in funzione della distribuzione dei valori.
Mario Van Peebles con il suo Posse - La leggenda di Jessie Lee, il già
avariato rapporto del cinema con il
ricordo lo rende addirittura pessimo. Il suo filo vuole essere una «rivisitazione» in chiave «nera» dell'epopea
western e, conseguentemente, il racconto si snocciola grazie alla parola di un vecchio negro che, già
implausibilmente, oltre che dei suoi eroi, parla anche di sé - un sé che è ben poco
testimone dei fatti che narra
e che, peraltro, all'epoca era appena un bambino. Per un film che programmaticamente, ha la pretesa di una
revisione ideologica nei confronti di eventi storici, la cosa rappresenta uno svantaggio non da poco. Svantaggio
che si acuisce allorquando il ricordo di chi parla viene anche a comprendere il ricordo di colui di cui si parla
(Jessie Lee, l'eroe positivo, fuorilegge che difende gli oppressi, braccato da maniaci militaristi e servi del
capitalismo speculante). Si tratta, dunque, di ricordi per interposta persona. Ma a maggior ragione le cose
non quadrano se questi ricordi per interposta persona sono a rate secondo il
modello à la Freud-Leone. Perché, in questo caso, siamo per definizione al di fuori della
testimonianza del
protagonista. Qualcuno può sempre raccontare di un ricordo che gli è balenato all'improvviso,
ma è ben difficile
che qualcuno, nel racconto che fa, sia padrone di andare e venire fra le diverse fasi in cui un ricordo, nel tempo
della narrazione, si è gradualmente e progressivamente focalizzato. Fatto è che conferire
spessore psicologico ad un personaggio è un'operazione ideologica cui s'indulge volentieri
e con faciloneria. Nei rapporti quotidiani e al cinema, l'entrare e l'uscire dalla testa altrui pare la scorciatoia
più
comoda per giustificare comportamenti - anche i propri. Anche quando ciò è palesemente privo
di qualsiasi
fondamento. Sono tecniche di ordinaria violenza.
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