Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 208
aprile 1994


Rivista Anarchica Online

A nous la libertè
diario a cura di Felice Accame

Le rate della memoria

Il cinema, essendo nato allorquando le idee in fatto di memoria non erano affatto chiare, ha contribuito del suo forse, a renderle meno chiare ancora. Al personaggio che ricorda - dopo l'artificio tecnico più opportuno (un tremolio nella visione, una dissolvenza, uno stacco del sonoro, etc. - in certi casi, dal colore ci siamo improvvisamente ritrovati nel bianco e nero) - fa subito seguito l'immagine di quel ricordo bello e munito del contesto originario. Ovviamente, si tratta di una pia illusione: un ricordo, a volte - come nel riconoscimento di un viso - può essere legato ad un rapporto particolare inconsapevolmente percepito e, nel riprodurlo, tutto quello che, allora, era il «resto» (altri elementi di un viso, le condizioni dell'osservatore, l'ambiente dell'osservazione, etc.) non conta più perché, di fatto, è eliminato. Se, invece, al ricordo si assegna un posto in un cervello come se fosse un magazzino, c'è il rischio, cinematograficamente, che questo magazzino venga rappresentato come una sequela di fotogrammi completi (di personaggi, di parole, di contesti, di ambiente). Psicoanalisi alla mano, poi, il cinema si è complicato ulteriormente la vita. Come in una seduta freudiana in cui il paziente viene ricondotto dall'analista - anche tramite l'ipnosi - al «vero» ricordo ch'è stato convenientemente rimosso così certi film ci hanno abituato alla sua rateazione. Il personaggio ricorda per fasi che punteggiano la narrazione e solo alla conclusione - in un rapporto catartico - il ricordo è finalmente completo, corrente e lineare, causa sufficiente e necessaria, per «spiegare» quanto abbiamo visto. E' il caso, per esempio, del Sergio Leone di Per qualche dollaro in più e di C'era una volta il west, ove il frammento compositivo, e progressivamente compositivo, occorre nella narrazione per conferire una motivazione «lontana» ai suoi personaggi.
Il momento della narrazione in cui il rammemorante paga la sua rata allo spettatore dipende, ovviamente, da una scelta ideologica del regista. Quando ci si ricorda di qualcosa? Tutto il santo giorno. Così nella vita, ma non nel cinema. Leone, per continuare l'esempio, faceva scoccare l'ora della fatidica rata in coincidenza con il suono di un carillon, con il fumo di una droga, con un faccia a faccia carico di tensione e purtuttavia dai tempi rarefatti. Grossomodo, si può dire che il momento del ricordo è in funzione della distribuzione dei valori.
Mario Van Peebles con il suo Posse - La leggenda di Jessie Lee, il già avariato rapporto del cinema con il ricordo lo rende addirittura pessimo. Il suo filo vuole essere una «rivisitazione» in chiave «nera» dell'epopea western e, conseguentemente, il racconto si snocciola grazie alla parola di un vecchio negro che, già implausibilmente, oltre che dei suoi eroi, parla anche di sé - un sé che è ben poco testimone dei fatti che narra e che, peraltro, all'epoca era appena un bambino. Per un film che programmaticamente, ha la pretesa di una revisione ideologica nei confronti di eventi storici, la cosa rappresenta uno svantaggio non da poco. Svantaggio che si acuisce allorquando il ricordo di chi parla viene anche a comprendere il ricordo di colui di cui si parla (Jessie Lee, l'eroe positivo, fuorilegge che difende gli oppressi, braccato da maniaci militaristi e servi del capitalismo speculante). Si tratta, dunque, di ricordi per interposta persona.
Ma a maggior ragione le cose non quadrano se questi ricordi per interposta persona sono a rate secondo il modello à la Freud-Leone. Perché, in questo caso, siamo per definizione al di fuori della testimonianza del protagonista. Qualcuno può sempre raccontare di un ricordo che gli è balenato all'improvviso, ma è ben difficile che qualcuno, nel racconto che fa, sia padrone di andare e venire fra le diverse fasi in cui un ricordo, nel tempo della narrazione, si è gradualmente e progressivamente focalizzato.
Fatto è che conferire spessore psicologico ad un personaggio è un'operazione ideologica cui s'indulge volentieri e con faciloneria. Nei rapporti quotidiani e al cinema, l'entrare e l'uscire dalla testa altrui pare la scorciatoia più comoda per giustificare comportamenti - anche i propri. Anche quando ciò è palesemente privo di qualsiasi fondamento. Sono tecniche di ordinaria violenza.