Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 24 nr. 206
febbraio 1994


Rivista Anarchica Online

Il buio oltre il Welfare?
di Filippo Trasatti

Diventa sempre più urgente in tempi di crisi diffusa e smobilitazione, riflettere su quanto sta avvenendo in Italia, liberandosi dai paraocchi del provincialismo che da sempre affligge buona parte della nostra cultura. E quando dico nostra intendo anche quella condivisa da quanti si riconoscono, in varia misura, nel libertarismo e nell'anarchismo.
Una parola chiave abusata come passe-partout per ogni porta è quella di liberismo, che mantiene per molti una carica positiva in virtù di quel sema «liber» che contiene, tralasciando spesso la riflessione sul progetto sociale complessivo che esprime. La discussione politica, anche fuori dagli schieramenti tradizionali di destra e sinistra sembra limitata a una miope polarizzazione tra statalismo e liberismo. Se questo portasse a discutere davvero, e non semplicemente a schierarsi e a urlare, potrebbe esserci in questo un segno positivo: si vedrebbe il peso che l'economia ha realmente nel sistema politico e nel progetto del cambiamento.
Gli statalisti sono i comunisti, i democristiani e tutti quelli che, nel regime che ha governato l'Italia per più di quarant'anni, affidavano alla mostruosa macchina burocratico-statale la risoluzione dei problemi di conflitto sociale, risoluzione che comprendeva in sé sia la repressione delle spinte innovative, sia la creazione di ammortizzatori sociali, di garanzie, di possibilità che vengono ammucchiate nel concetto del Welfare-state.
I neoliberisti (nello stupidario del futuro un nuovo Flaubert dovrebbe includere il prefisso neo-) sembrano invece rappresentare, miseria dei tempi nostri, gli alfieri della libertà (ricordarsi sempre di chiedere: libertà di che?), delle capacità imprenditoriali del singolo al di sopra della massa pecorona, della libertà di espressione (vedasi Berlusconi), della libertà di avercelo duro (vedi Bossi) anche nei momenti di pacata riflessione.
Allora, come sempre più spesso in questi tempi conviene fare, distacchiamoci dal presente e cerchiamo di dare un contesto diverso alla questione. Andiamo nell'Inghilterra degli anni Sessanta, patria del Welfare state di questo secolo.
Nel romanzo di Buchi Emeta Cittadina di seconda classe (Giunti), la protagonista Adah, una giovane nigeriana emigrata in Inghilterra negli anni Sessanta vive in prima persona i limiti e le possibilità di un Welfare dorato incredibile per noi. A sua disposizione trova una rete di servizi di assistenza morbidi ed efficienti: asilo con refettorio per i cinque figli, sussidio di disoccupazione, assistenti sociali disponibili, sussidi speciali per il carbone, baby sitter la sera per consentirle di andare all'università serale, distribuzione di vestiti, alloggio popolare, e via elencando.
Ma si potrebbe parlare di altri e ben migliori sistemi di Welfare, per esempio nei paesi nordici. Niente di paragonabile al sistema Italia, pasticcione e pezzente, dove l'assistenzialismo ha sempre significato sussistenza per mantenere la dipendenza da un sistema politico-mamma che limitava la crescita di un senso di partecipazione sociale e di impegno personale nell'azione politica per il cambiamento.
Perché qualcosa di vero c'è nelle argomentazioni di alcuni demolitori del Welfare: che può contribuire a creare una dipendenza dalle istituzioni che inibisce la creatività, l'impegno, l'espressione e la rivendicazione di mutamenti sociali. Abitua insomma allo status quo, allontanando la prospettiva e il progetto di cambiamento vissuto in prima persona.
Quello di cui non ci si rende conto a sufficienza, alcuni per ignoranza, altri per malafede, è che il cosiddetto stato del benessere non è spuntato all'improvviso come una madre provvida generosa e interessata a distribuire doni ai propri figli più sfortunati.
Il benessere non è, come dimenticano spesso gli imprenditori, frutto soltanto di illuminati industriali. Il benessere in cui alcune regioni del mondo hanno vissuto è il prodotto della rivoluzione industriale che ha macinato milioni di lavoratori negli ingranaggi del sistema produttivo e di un sistema economico mondiale che non ha niente di progressivo né di caritatevole.
Il diritto al benessere non è una richiesta di sussidi a un centro assistenziale generoso e illuminato, ma l'espressione del diritto a partecipare collettivamente di un benessere che è stato collettivamente prodotto. E per benessere qui non intendo numero di televisioni o di macchine per famiglia, ma servizi minimi garantiti a tutti. Oggi ci si viene a dire che questo è incompatibile con le nostre condizioni di ricchezza, un po' come il ricco brianzolo che, in tempo di crisi, deve rinunciare al cuoco. Questo è il grande paraocchi con cui guardiamo il mondo: la monetizzazione della ricchezza e degli scambi sociali. Oggi ci sono le condizioni per vivere collettivamente meglio, acquisendo anche quel senso del limite che la mentalità capitalistica ha contribuito a eclissare: è questo che dobbiamo reimparare a vedere con nuovi occhi. Ci sono dei segnali che possono portare in direzione del superamento del dominio dell'economico, per l'apertura di spazi di lavoro non contabilizzati e di reti di nuove solidarietà che sostituiscano il carrozzone burocratico dell'assistenza. Ciò che più mi spaventa oggi è la fretta del nuovo in una situazione di scarsità di idee. Sembra di partecipare a un rito collettivo di distruzione del passato che, nell'urgenza del nuovo, dimentica le proprie profonde radici.
Nel Welfare, correttamente inteso, sono rappresentati anche ideali di uguaglianza che rischiano di perdere cittadinanza in questo presente arraffone e immemore del proprio passato. Sono incorporati ideali di solidarietà, indiretta e meccanica quanto si vuole, ma egualmente importanti in un tessuto sociale sempre più disgregato. Essi sono parte di un progetto che viene da lontano e ha le sue radici da una parte nel pensiero illuministico, dall'altra nella storia del movimento operaio. Da queste tradizioni possiamo prendere le distanze quanto vogliamo, perché tutto sotto il cielo è mutevole, ciò che assolutamente non dobbiamo fare è dimenticare le nostre radici.