Rivista Anarchica Online
Memorie dal sottosuolo
di Gianni Sartori
"Non è colpa mia se avevo sedici anni nel '68". (Andrea Gobetti,
"Una frontiera da immaginare").
Questo non è un contributo tardivo alle "celebrazioni" per il ventennale. Fin troppi in quella
occasione si sono affannati per riciclare e rivendere le loro membra, sparlando di "rivolte
verticali" (ossia contro mamma e papà), cospargendosi il capo di cenere, pavoneggiandosi sotto i
riflettori... L'ingenuo che scrive è invece allibito assistendo alla trasmutazione di tanti
ex-sessantottini: da stalinisti a
socialdemocratici. Uomini o camaleonti? È soltanto il tentativo di ripercorrere, "rintracciare" una
doppia, contemporanea iniziazione; o forse una soltanto:
la mia. Un omaggio alla beata incoscienza con cui transitavo, ricoperto dei medesimi panni, da una grotta
ad una
manifestazione. Senza soluzione di continuità. Inseguendo lo stesso sogno ad occhi aperti.
Così era cominciata... Il 19 aprile 1968, mentre tornavo a valle con
un prezioso bottino di denti fossili di Carcharadon, capitai a
Valdagno nel bel mezzo della rivolta operaia contro il feudatario locale. Avevamo trovato un passaggio
dalle parti della "Montagna Spaccata" e fui l'unico a scendere, affidando zaino,
casco, lampada a carburo ecc. agli amici (eccellenti speleologi ma alquanto refrattari ai conflitti di
classe). A distanza di tempo i ricordi di quella sera si confondono con quelli del giorno successivo (ritornai,
recidivo):
le vetrine infrante, le decine di manichini scaraventati nel greto dell'Agno, la statua abbattuta (addirittura le
lettere del basamento scalpellate via e conservate come cimelio...) , i capannelli dei trentini in trasferta (completi
di accessori: barbe, eschimi, patacche maoiste...). Era solo l'inizio ma prometteva bene... Intanto il
sottoscritto, allora giovanissimo, si aggirava curioso, insaccato in una tuta mimetica ricoperta di fango
con indosso il solito giaccone verdeoliva. Nessun richiamo romantico alle guerriglie sudamericane (non
consciamente almeno); quello era l'abituale abbigliamento di uno speleologo fine anni sessanta. Dimenticavo
gli immancabili anfibi, più grandi di almeno due misure e con la punta in su. Qualche altro ricordo
in cui speleologia e "impegno" socio-politico si confondono. In ottobre, sempre 1968, dopo una incursione
alla ancora integra "Spluga dei Gracchi", rimonto in sella (della
bici) e compio una "casuale" digressione in quel di Arzignano. Faccio un po' di slalom tra accenni di
barricate e copertoni fumanti "negligentemente" abbandonati qua e là e
mi aggrego, educatamente, ad una folta "delegazione" di operai e popolane in procinto di occupare il
Comune. La scena è ben impressa, nella mente e nel cuore: le "masse" sedute per terra, accalcate
nella sala e il Sindaco,
nella duplice veste di proprietario di una delle manifatture in agitazione, appollaiato sul suo scanno a
tergiversare e divagare in attesa che l'arrivo della "Benemerita" ponga termine all'"increscioso episodio" (come
riportò un cronista di passaggio). Altro flashback, un paio di mesi dopo... stiamo organizzando la
spedizione verso alcune grottine nei dintorni
di Monteviale; le spelonche hanno ormai pochi giorni di vita per l'implacabile espandersi delle cave circostanti
ma in sede di Catasto farebbero ancora testo e numero. Passa un compagno in lambretta e dopo poche e scarne
battute (come da manuale) pianto tutto e vado a distribuire il volantino di protesta per l'eccidio di Avola. In
quelle grotte ci entrai soltanto verso sera, quando ormai era più buio fuori che dentro. Rientrai a notte
fonda
con il casco acceso e una pila attaccata con il moschettone dietro lo zaino (viste le disastrose condizioni
dell'impianto di illuminazione della mia "trocana"). A distanza di tanto tempo mi rincresce ancora di non
aver insistito maggiormente perché le cavità appena
esplorate e rilevate venissero dedicate a Giuseppe Scibilia e Angelo Sigoma, due
nomi destinati ben presto a
scomparire sia dalla Storia che dalla memoria; esattamente lo stesso destino delle grotte in questione. Anvedi
la coincidenza...
Memorie dal sottosuolo Nonostante a volte abbia adottato l'espressione
"Ventre della Bestia" per descrivere i meandri bui di qualche
spelonca particolarmente repulsiva, le mie "proiezioni" nei riguardi di grotte, voragini, foibe e doline erano per
lo più positive. Con il senno di poi mi rendo conto di aver cercato attraverso la speleologia di
"rappresentare"
e alimentare un mio innato, congenito rifiuto dell'universo consumista, mercantile e spettacolare. A quel tempo
la speleologia, più ancora del relativamente nobile alpinismo, era praticata da reietti e disadattati.
Fermamente
decisi a restare tali. Altro fattore decisivo nel mantenere alta la mia partecipazione alle spedizioni del C.S.P.
(club speleologico
proteo) era l'ingenua speranza (presto disillusa) di poter sperimentare una socialità diversa;
impregnata di slanci
individuali e sforzi collettivi, di solidarietà ed emulazione... senza contraddizione. Con qualche altro
demente, ugualmente dedito ad entrambe le pratiche devianti, arrivai anche a teorizzare
avventuristiche varianti ipogee del "maquis". Nel nostro immaginario "sovversivo" le grotte potevano
elegantemente sostituire la "Montagna", luogo canonico di ogni tellurica Resistenza. A parziale
giustificazione va comunque riportato che i partigiani nostrani si erano scavati, a suo tempo,
chilometri e chilometri di camminamenti e rifugi sotterranei per sfuggire ai rastrellamenti. Evidentemente c'era
qualcosa di atavico sedimentato nel codice genetico...
La storia di Vallesinella Ma, tra le molteplici "memorie del sottosuolo" che
si affacciano alla mente, in simbiosi con inquieti spettri delle
passate rivolte e ribellioni una ne emerge con particolare nitidezza. Collocata in una estate ormai lontana, verso
la fine del luglio '68. Ormai in procinto di dissolversi in struggente, melanconica nostalgia. Per tutto quello che
è stato ma soprattutto per tutto quello che poteva essere. E che non fu. Alle prime luci dell'alba
arrancavo sulla solita bici sotto il peso di uno zaino affardellato e stracolmo: viveri per
una settimana, quota personale di scalette in alluminio (oggi come oggi veri reperti archeologici), pesantissimo
elmetto in ferro (cimelio autentico della seconda guerra mondiale) con faro frontale saldato di fresco, ecc. I
"Falchi" (mitico gruppo speleo veronese guidato dall'indimenticabile Mario Cargnel) avevano esteso l'invito
della prossima spedizione al modesto, quasi neonato, gruppo vicentino di cui facevo parte. Alla stazione mi
ritrovai con l'allora presidente del "Proteo" (peraltro destinato ad auto-succedersi senza soluzione di
continuità
fino ai nostri giorni). Era l'unico che non se l'era sentita di declinare l'invito (a parte il giovane incosciente
di allora che scrive). Dal suo sguardo assorto e preoccupato si poteva dedurre che ne avrebbe fatto
volentieri a meno, ben sapendo
come l'anno precedente alla "Preta" più di un vicentino fosse sopravvissuto a stento ai
ritmi e alle prestazioni
richiesti dal gruppo scaligero. Certo, l'idea di trascorrere parecchi giorni nelle viscere del Torrione di
Vallesinella era alquanto inquietante... Comunque ci riunimmo tutti (vicentini, montefalconesi e veronesi)
a Verona, senza registrare diserzione alcuna.
Poi risalimmo con incoscienza e tracotanza le valli trentine.
In cammino verso l'antro Disceso dalla mia prima e ultima seggiovia al passo
del Grostè mi incamminai con il resto del branco in
direzione del Tuckett, verso il nostro incerto destino. Banchi di nebbia in continuo movimento ci
consentirono una marcia quasi interamente dedicata
all'introspezione. Ricordo una specie di limbo pietoso, dai contorni incerti e cangianti, che servì
a non farci rimpiangere troppo
la luce del sole da cui stavamo per separarci... Quando ormai mancava solo un quarto d'ora al famoso
rifugio Tuckett, abbandonammo il comodo sentiero per
inerpicarci su un ghiaione alla nostra sinistra. Lo risalimmo per cinquecento metri fino a giungere sotto alla
"Parete Anna", versante ovest del Torrione di Vallesinella. Ormai agghindati con caschi, lampade e accessori
vari aspettammo con rassegnazione il momento di inerpicarci. Potevamo intravedere l'imbocco (alto e largo
due metri circa) che si spalancava a circa trenta metri sopra le
nostre teste. A quel tempo era considerata la grotta più alta della penisola (a 2350 m. di
altitudine). Ancora impregnato del sudore versato durante la marcia di avvicinamento mi issai con una certa
"palpitazione",
buttando il cuore oltre l'ostacolo. Fu l'unica occasione in cui potei approfittare del lusso di una tradizionale
sicura a spalla. Per tutto il resto della spedizione mi ritrovai a scendere e risalire pozzi e pozzetti in "libera"
perenne (oltreché incosciente). Giunto alla bocca dell'antro fui colto da un estremo ripensamento.
Paventando
(e agognando nel contempo) "il timore, il sudore e lo stupore" a venire. La citazione quasi dotta non vi lasci
interdetti: è mia precisa convinzione che la speleologia sia anche una forma degradata (a "livello di
massa") di
antichi riti iniziatici. Appena varcata la soglia si veniva investiti dalle gelide raffiche di vento sotterraneo.
. .
Bivacco infernale Per una ben calcolata quanto cinica manovra la
distribuzione dei "campi-base" era già avvenuta e stabilita. Il
sottoscritto capitò insieme ad altri 4-5 disgraziati in quello più avanzato; apparentemente era
il più comodo per
partire quotidianamente in esplorazione dei misteriosi sconosciuti recessi. In realtà era l'unico da cui
non fosse
ragionevolmente possibile concedersi di tanto in tanto una sortita fino all'imbocco, per godere dei raggi del sole.
Ricordo in modo particolare l'istinto omicida che ci invadeva ascoltando i resoconti delle altrui sortite; ci
raccontavano, le carogne, di come quotidianamente assistessero dall'alto al passaggio di camosci e marmotte,
beatamente distesi sulla cengia esterna. Tra l'altro questa collocazione decentrata rispetto all'uscita
comportò una ulteriore, gelida e noiosa permanenza
al momento della risalita. Dovemmo infatti attendere che tutti avessero traslocato e uscire per ultimi. I risultati
non si fecero attendere. In quella gelida e forzata convivenza, addossati all'umida parete o rannicchiati attorno
ad un fuocherello di meta, si alimentarono sordi rancori, innescati da conflitti ideologici e faide
campanilistiche. Bastava un pretesto: ricordo che stavo per venire alle mani con un irriverente reazionario
che si ostinava a
parlare del "CHE" (morto neanche un anno prima) come di un "delinquente comune". Eravamo quasi sul
punto di scaraventarci reciprocamente giù per un pozzo quando ci comunicarono di tenerci
pronti per aggregarci alla nostra squadra. Dopodiché ognuno seguì il corso del meandro
assegnatogli e quello
dei propri pensieri... Comunque l'esplorazione del vasto complesso carsico fu tutt'altro che infruttuosa. Vennero
tra l'altro "scoperti" (uso il termine, dal sapore vagamente coloniale, con riserva) tre immensi saloni. Denotando
una certa mancanza di fantasia vennero reciprocamente dedicati alle tre città dei partecipanti. Se
non ricordo male la stampa triveneta riportò per esteso fatti, fasti e nefasti dell'avventurosa impresa (a
quell'epoca universalmente considerata di livello europeo e come tale riportata negli annali della
speleologia). Era in programma perfino una visita della TV di stato. Poi la cosa saltò per mancanza
di esperienza sotterranea
da parte degli operatori; con grande rammarico degli organizzatori che nell'impresa avevano investito sforzi e
prestigio. Da parte mia avevo già maturato precise opinioni in merito alla "Società dello
Spettacolo" e ringraziai
sentitamente gli Dei Inferi per aver scoraggiato la troupe. Ormai, dopo tanti anni e tanto travagliati, nei
ricordi prevale la sensazione di un vagare indistinto e
sonnambulesco; come di zombie malridotti e maleodoranti, in fila indiana come bruchi tra i vapori dell'acetilene.
Ognuno al seguito dei quarti posteriori di uno sconosciuto, anonimo e indistinto compagno di spedizione.
Rigorosamente carponi. Nel dormiveglia silenziose processioni di gnomi ctoni si alternano
ai ricordi elettrizzanti di illusorie
"scoperte"... Ancora capaci di restituire la sensazione di essere ad una spanna dal Segreto primordiale che
alberga nelle viscere della Madre Terra. Si procedeva con lo sguardo fisso al suolo (potenzialmente infido),
sperando inconsciamente di trovare qualche misterioso reperto, prova tangibile dell'esistenza di antiche
civiltà
sotterranee. Quello che altri cercano tra le pagine di Lovercraft, per intenderci.
Sopra una lanterna ritrovata E in effetti qualcosina da conservare per gli eredi
riuscii anche a trovarlo... Ancora adesso non riesco a capacitarmi di come abbia potuto scorgere
quell'oggetto opaco, ricoperto dal fango,
del tutto identico alle pietre trasportate periodicamente dalle piene sotterranee... Ma forse così era
scritto. Fatto sta che mi ritrovai tra le mani una vecchia lampada a carburo. Niente di particolare; "desain"
di quelle che
avevamo in dotazione; buona per andare a rane di notte... Soltanto un banale souvenir ma conservato poi
con l'affetto che si riserva ai ricordi più cari. Ma la storia della
lampada a carburo inaspettatamente rinvenuta nella parte inesplorata di Vallesinella ha un seguito. A dieci
anni di distanza (primavera avanzata del '78) ritornavo a Madonna di Campiglio su una vecchia vespa
sovraccarica di zaini, piccozze , corde, ramponi ecc. La stagione invernale era finita e quella estiva non dava
segni di vita. Aggiungete a questo interregno
un'atmosfera piovigginosa, il cielo plumbeo, la neve sfatta, fradicia... Da affondarci almeno fino alle ascelle,
visto che non avendo mai imparato a sciare mi ostino a "pestare" neve con un paio di racchette primordiali.
Insomma: era il momento migliore per andarsene in giro per le Dolomiti di Brenta senza fare incontri di nessun
genere. E celebrare degnamente il decimo anniversario, in completa solitudine.
Gilio alimonta Infatti girai per una settimana senza incontrare nessuno. Con
un'unica eccezione. Una sera, mentre la notte si
apprestava a divorare un pallido sole avvolto da miasmi luminescenti, intravidi un'ombra staccarsi dalle ombre
del bosco e venire nella mia direzione trasportata da un paio di corti sci. Un incontro che solo dei materialisti
volgari potrebbero considerare casuale. Dopo lo scontato "scambio di battute" ci incamminammo verso
un'osteria in servizio anche fuori stagione. Si trattava nientemeno che di Alimonta Gilio (padre
e nonno dei
degni discendenti). Costui, oltre che lo scopritore della grotta del Torrione di Vallesinella, era stato il
proprietario della lampada. Mi raccontò di come gli fosse sfuggita dalle mani, scomparendo in una
fessura, mentre percorreva (verso la
metà degli anni '50) uno stretto budello del complesso sistema di pozzi, faglie e fessure denominato
"dell'Acheronte". In quel punto una serie di diramazioni a vario livello rendono quanto mai complicata la
planimetria della cavità. Come impararono a proprie spese i rilevatori. Durante l'esplorazione del
'68 mi trovai ad aggirarmi per un "ramo" inesplorato, posto evidentemente sotto a
quello principale percorso a suo tempo da Alimonta. Come poi mi raccontò il Genio incorporato,
una sera che era in vena di confidenze, la lampada se ne era rimasta
in attesa per tutti quegli anni. Finché non ero giunto a liberarli entrambi dal fango, dal gelo, dal buio
e dagli incubi tenebrosi del sottosuolo. Quanto alla grande guida alpina Gilio Alimonta, una volta
rassicurato sulla sorte della sua vecchia lampada, mi
tracciò una esauriente cronaca delle varie spedizioni esplorative succedutesi al Torrione Vallesinella,
prima di
quella epocale del '68. Era stato lui il primo ad intravedere la cavità, posta sulla parete di fronte,
mentre con il compagno di cordata
Serafino Serafini si stava allenando sul versante settentrionale del Castelletto Inferiore. Intrapresero la
prima esplorazione (in "stile alpino": senza scale ma con corde, chiodi e moschettoni) il 12
agosto 1949, raggiungendo e discendendo il pozzo, profondo una quindicina di metri, che oggi porta il suo nome
(Pozzo Alimonta). Ritornarono sei giorni dopo con Giancarlo Gallarati Scotti, Lapo Niccolini è
Azzolino Carrega (un tipico
cognome veneto-trentino italianizzato in omaggio al tricolore). Il gruppo faceva degnamente parte del Gotha
alpinistico dell'epoca. Raccontò Gilio: "Discendemmo facilmente,
in libera, lungo il "Pozzo Alimonta" e restammo sorpresi vedendo come sul fondo si fossero formate larghe
chiazze di ghiaccio, derivate dallo stillicidio". Ricordo infatti che anche in piena estate la temperatura si
manteneva costantemente attorno allo zero. Poi continuò: "Percorso un breve, sinuoso cunicolo
arrivammo ad un secondo pozzo (quello poi denominato
"Azzolino" n.d.r.) dalla modesta profondità di quattro o cinque metri ma relativamente impegnativo in
quanto
a strapiombo." La parte successiva del percorso Alimonta se l'era un po' scordata. Posso comunque
rimediare dato che conservo
un ricordo vivido (anzi meglio: viscido) e preciso di quei venti-trenta metri prima dello "slargo"
pomposamente
denominato "Sala da Pranzo".
Striscia ragazzo, striscia Si tratta quasi sicuramente dei più luridi,
stretti e disagevoli metri di cunicolo che il padre Eterno abbia mai
posto sulla terra a espiazione dei nostri peccati. Bisogna strisciare sul fianco per passare, in
qualche tratto in discesa. Ogni tanto una svolta brusca ...Il tutto
trascinando e spingendo le sacche con il materiale... Comunque in quella occasione i "pionieri," Alimonta
& C. giunsero fino al Pozzo Acheronte, emblematico
punto d'accesso alla parte centrale del sistema sotterraneo. Realizzarono una nuova spedizione nel 1950,
verso la fine di agosto. Stavolta superarono sia l'Acheronte (con una variante rispetto al percorso adottato
dalle spedizioni successive)
che il "Gericke", un pozzo profondo una decina di metri così chiamato in onore di un nuovo
partecipante. E così, pozzo dopo pozzo, giunsero, ormai senza più un solo
metro di corda disponibile, davanti al "Gallarati
Scotti" (il pozzo, non il Giancarlo). Così venne battezzato soltanto l'anno dopo, in occasione di un
ennesimo sopralluogo organizzato dal Gruppo
Grotte della S.A.T. (Società Alpinisti Trentini). Naturalmente Alimonta, Serafini e Gallarati Scotti
furono della
partita. Disceso finalmente il "Pozzo Gallarati Scotti" (9 metri) la spedizione si arrestò dopo
neanche venti metri,
bloccata da una frana che ostruiva il percorso. Anche a questo dovemmo pensarci noi nel 1968. Sempre nel
1951 si appurò che dall'Acheronte parte un'altra galleria, dal fondo ricoperto da una caratteristica
argilla. Questa galleria, dopo la "Sala delle Sorprese" presenta una variante d'accesso alla base del Gericke
(previa discesa lungo un pozzo di circa quindici metri).
Inquieti spettri Ma la "Sala delle Sorprese" ne aveva in serbo altre di maggior
portata. Seguendo all'inverso la direzione di una
forte corrente d'aria vennero individuate le cosiddette "Nuove Diramazioni". Nel '68, raccogliendo
l'eredità morale e le precise indicazioni in proposito dei nostri predecessori illustri,
esplorammo questa area con particolare dedizione. Giungemmo a scoprire e rilevare la "Sala del Cordino", il
"Corridoio delle Scaglie" e un ramo poi denominato "Attivo". Non a caso. Conservo ricordi piuttosto vaghi
di tutti quei budelli, vene , orifizi... brulicanti di puntolini luminosi (le luci
frontali) e ombre ectoplasmatiche. Il "Ramo Attivo" tra l'altro era particolarmente inquietante. Tutto
ricoperto da una inconfondibile mota; quella
depositata dalle piene e relativi allagamenti. Uniformemente spalmata sul fondo, sulle pareti e (almeno in certi
tratti) anche sulla volta, suscitava una comprensibile apprensione. Cosa sarebbe accaduto se
fuori scoppiava un nubifragio? Tra il fango affioravano piccole ossa, minuscoli crani,
brandelli mummificati di qualche patagio... Reliquie degli ignari chirotteri che qualche piena primaverile
aveva anticipatamente strappato ai sogni del
letargo. Tutto contribuiva a suggestionare, ad evocare gli inquieti spettri che si aggirano per l'inconscio
(collettivo ed individuale): forse a causa della stanchezza qualcuno asserì di aver intravisto un
minuscolo
ominide dal buffo copricapo rosso fiammante recitare il monologo di Amleto tenendo in mano un teschio di
pipistrello... altri si videro inseguiti (o meglio pedinati) da Gnomi e Troll in bicicletta. Freddo,
umidità, mancanza di sonno, ecc. non bastano a spiegare le straordinarie, ricorrenti coincidenze con le
"allucinazioni" descritte da altri speleisti. Quanto alla reale portata delle piene in questi meandri, chiunque
abbia percorso la valle sottostante (Vallesinella
per l'appunto) in periodo di disgelo ha potuto farsi un'idea ben precisa di quanta "sorella acqua" fuoriesca dai
poderosi strati soprastanti di Dolomia ("principale del Norico" per la cronaca). Non mancavano nemmeno
le leggende locali, sapientemente spacciate ai turisti creduloni, in merito ad un
misterioso lago sotterraneo. Non si può nemmeno escludere che il suo rinvenimento fosse nelle
segrete e riposte speranze di qualcuno degli
organizzatori della spedizione "sessantottina". Anche se non se ne parlò mai esplicitamente, per
tutta la durata della nostra spedizione si accennò ad un
misterioso involucro compreso tra i "bagagli" faticosamente issati e trasportati su e giù per la caverna.
Sembra
confermato che contenesse proprio un canotto. Per ogni evenienza. Comunque non era la paura di dover
sentire il rumore sordo dell'onda di piena riversarsi lungo i meandri oscuri
quello che turbava e rendeva inquieti i nostri meritati riposi. Piuttosto l'implacabile stillicidio che al
"mattino" (come chiamavamo per convenzione il momento di rialzarci)
ci faceva uscire fradici da un sacco a pelo altrettanto fradicio. Quanto al telo di "nailon" che mi ero portato
appresso per ripararmi dal gocciolio perenne, preferii utilizzarlo come protezione, almeno simbolica, contro
l'umidità gelida e malsana che trasudava dal giaciglio di sassi ammucchiati sopra alla solita coltre sottile
di
ghiaccio. Nessuna velleità di imitare il Poverello d'Assisi: quella era l' attrezzatura in dotazione, roba
rimediata
nei mercatini dell'usato. Solo alcuni vecchi volponi, già esperti, si erano procurati l'amaca.
Provvidenziale.
Sala Monfalcone Tra il "Corridoio delle Scaglie" e il "Ramo Attivo" iniziava
una misteriosa diramazione. Con pochi altri
ardimentosi mi avviai verso l'ignoto. Percorremmo un interminabile cunicolo che sembrava dover proprio
concludersi in una saletta dal fondo
ricoperto d'acqua. Dopo le sorsate e abluzioni di rito, venne seduta stante "battezzata": "Saletta dell'Acqua
Santa". Evidentemente piogge acide e/o radioattive non avevano ancora degradato e smitizzato nell'immaginario
collettivo l'archetipo "ACQUA", casta e pura per definizione. In odore di virginale
santità. All'altezza dei miei occhi (180 cm circa) si apriva una sottile feritoia. Facendo pressione
sulla parete opposta
cercai di infilarmici (e qui Archetipi e Simboli si sprecano) contando sulla allora mia "magra figura". Stessa
altezza odierna ma 15 (quindici) chili in meno. Dopo il primo infruttuoso tentativo levai il giaccone
paramilitare e poi, di seguito nell'ordine: il primo maglione,
la tuta mimetica, il secondo maglione... alla fine, tra spinte e contorcimenti, riuscii a sgusciare oltre. In anfibi
mutande e canottiera (infatti, contravvenendo alle direttive materne, non avevo indossato la maglia di lana per
cui ora ne pago il fio, a base di reumi). Durante tutta la complicata operazione-svestizione tenevo stretta
tra i denti l'indispensabile pila. Superata la
strettoia e recuperati velocemente indumenti e casco (tirava 'na bava...) strisciai ancora un po' (mai sazio) e mi
ritrovai su di una specie di balcone panoramico. Ero all'incirca a metà altezza di una parete
incombente su un vasto salone dai contorni indistinti. Riconoscevo
sul fondo caotico enormi massi accatastati e verso l'alto l'ampia volta immersa nelle tenebre. Senz'altro
indegnamente ero il primo essere umano che stava ammirando quella che poi venne chiamata "Sala
Monfalcone" (e non "Caverna del Popolo" come timidamente suggerii). Proseguendo per il "Ramo Attivo"
si giunse invece ad una sala chiamata del "Quadrivio" per una serie di
interessanti diramazioni. La più promettente ci condusse fino all'ancora anonima "Sala Verona".
Il cammino sembrava voler proseguire
ben oltre la poderosa muraglia di macigni che dal pavimento della sala andava "verticalizzandosi" addossata
alla parete di fondo. Nonostante l'equilibrio dei macigni apparisse quanto mai precario cercai di risalire
l'erta frana assieme ad un
"anonimo compagno". L'episodio venne poi riportato dalla stampa vicentina. Perfino. Ricordo che ad
un certo punto me ne stavo aggrappato ad un masso. Proprio nel momento scelto da quest'ultimo
per cambiare la scomoda posizione in cui versava da millenni, presumibilmente. Mi scansai appena in
tempo: precipitò rovinosamente rimbalzando lungo la parete e smuovendo altri macigni. Puntava
verso il fondo della grotta dirigendosi con intelligenza demoniaca proprio verso il punto da cui partiva
il cono di luce di una pila frontale. Improvvisamente si vide il fascio luminoso scansarsi con un guizzo
repentino, tra il rombo assordante (e il
relativo rimbombo) del crollo. In considerazione della mia giovane e verde età non venni
sommariamente giustiziato sul posto ma ogni mio
ulteriore tentativo di risalire la frana in cerca del fatidico "passaggio a nord-ovest" venne impedito con la
forza. Comunque sono sicuro che la prosecuzione c'è. L'ho sentita e percepita. Resta a disposizione
di chi vorrà
cercare.
E l'amor mio non muore.. Ma non vorrei dilungarmi su Vallesinella; anche
se il materiale non manca. Meglio concludere dicendo che mi
rendo conto benissimo di quanto siano personali e datate queste "memorie dal/del sottosuolo annata '68". A
quel tempo tra i giovani dediti all'alpinismo e alla speleologia e quelli che militavano nel "Movimento" in
genere non correva buon sangue. Indifferenza reciproca nella migliore delle ipotesi. Il caso descritto è
quindi
abbastanza anomalo. Ma qualcosa doveva presto cambiare: non per niente Andrea Gobetti
inserì nella sua avventurosa biografia
("Una frontiera da immaginare") le giornate del maggio '75, dopo la morte di Varalli, Zibecchi,
Miccichè
(quest'ultimo amico personale di Andrea) e un alpinista al livello di Manolo (all'anagrafe
Maurizio Zanolla)
dedicò una nuova via di 6°+ a Franco Serantini, il giovane anarchico ucciso dalla polizia
sul lungarno
Gambacorti di Pisa (maggio '72). Controllate sulla parete sud-ovest del Dente del Rifugio in Val Canali, Pale
di san Martino. Poi tutto sembrò "rifluire"... ma mi conforta pensare che un fiume carsico
sprofonda, scompare... e poi riemerge,
d'improvviso, quando meno te lo aspetti. . . E intanto, là sotto, scava, scava, scava...
Il buio
illuminato
Dentro la grotta per sentire noi stessi in uno spazio nuovo, in una
dimensione in cui tutto il nostro corpo e
tutta la nostra mente sentono, respirano, giocano e si muovono insieme. Dentro alla grotta...in percezioni essenziali e "pulite", nella fusione fra soggetto e
oggetto verso un vissuto
metafisico. Un cammino per conoscere il simbolismo della grotta,
nell'esperienza dei suoi volti, realtà
opposte e contrarie: buoi e luce, vita e morte, un luogo di passaggio dalla terra al cielo, ma anche dal cielo
alla terra; centro del pericolo, dei mostri e delle streghe, ma dove si può udire l'oracolo e ricevere
energie
nella storia magica; la caverna come rappresentazione dell'io interiore e dell'io primitivo, come luogo di
sepoltura o messaggio di rinascita e di iniziazione. Dentro
alla grotta...lungo un percorso emozionale ed affettivo fatto di:
- sensazioni tattili in cui la persona non pone resistenze, si lascia
e si ritrova, prende forma situandosi con
la roccia, l'acqua, l'aria e il vuoto...in contatto continuo con il suolo e con le pareti, in un dialogo per poi
liberarsi conquistando volumi, spazi ed equilibri sempre più precari oltre i limiti per il piacere di
muoversi
e di agire;
- percezioni di rumori, precisi, come riempimento di spazi,
rallentati, ritmati; silenzi che avvolgono lo
speleologo, silenzi pieni, echi fatti d'acqua, di vento, di pietre e di voci;
- ricerca di odori che permangono, ma altri fluttuano o svaniscono,
le terre, il guano, l'umido, la roccia, le
muffe, l'acqua in una relazione di risposte e regole;
- immagini percepite nell'assenza, nel buio, nelle ombre, nelle luci:
"...nel tuo campo visivo metti a fuoco
un piccolo e sottile tubicino. Calcoli la sua distanza dal tuo naso: forse puoi spezzarlo con un soffio. La
punta è un minuscolo ovoide di cristallo liquido avido di luce e tu sei già là che scivoli
come un
microscopico frammento...".
Carla Sartori |
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