Rivista Anarchica Online
La voce tonante del potere
di Elena Petrassi
E' già passato più di un anno dalla fine della Guerra del Golfo
e ognuno di noi porta rinchiusa nella sua memoria
la sua Guerra personale, quella che si è andata costruendo giorno dopo giorno attraverso l'apparente
obiettività
delle immagini televisive, così vorticose e incalzanti da essere diventate un'unica immagine fissa al
centro dei
pensieri, un unico momento in cui la realtà ha squarciato la bolla di sapone in cui di solito noi
occidentali
viviamo immersi. Io ho un ricordo di notti insonni, con la televisione accesa ininterrottamente e il telefono
sempre vicino alla
mano, avevo a quell'epoca un caro amico a Gerusalemme, e ogni volta che le sirene di allarme suonavano in
Israele sussultavo, con gli occhi chiusi potevo immaginare "la stanza della salvezza" quel locale che grazie alla
televisione tutti sanno cosa sia, un locale dalle porte e finestre ermeticamente sigillate, che avrebbe dovuto
garantire la sopravvivenza in caso di attacco chimico da parte dell'lrak - quella stessa stanza era stata la mia
l'anno precedente nel corso di un viaggio in Israele, lì mi ero svegliata per giorni di seguito, sentendo
il canto
degli uccellini in giardino e guardando il primo sole che filtrava dalle finestre socchiuse.
Potevo anche rivedere i visi delle "donne in nero" di Gerusalemme, che da alcuni anni protestano contro
l'occupazione della Cisgiordania e di Gaza, e cercavo di immaginare dove fossero e cosa stessero facendo. E
mi ricordavo di molti visi di donna che avevo visto al mercato arabo di Betlemme, donne di età
indefinita che
se ne stavano sedute con le loro mercanzie davanti e chiacchieravano veloci e un po' diffidenti se qualche
occidentale si attardava a guardarle. E mi ricordavo di un uomo altissimo e vestito di nero che saliva la
scalinata
del mercato e sentivo risuonarmi nelle orecchie gli schiamazzi dei bambini che giocavano in strada. Di tutti
loro io avevo visto i visi, di tutti loro, ebrei o arabi che fossero, li sapevo chiusi nelle case, prigionieri
della stessa angoscia, e l'averli visti, avere visto i luoghi mi permetteva di immaginare, di essere presente in
qualche modo. Come altri in quei giorni mi ero dibattuta nell'angoscia e in una domanda alla quale, il fatto
di non avere saputo
rispondere subito con decisione, mi ha creato disgusto di me stessa. Mi sono domandata se quella che si
stava
combattendo fosse una guerra giusta, io stessa ero caduta nella trappola delle parole retoriche che, impetuose
come un fiume in piena, ci raccontavamo in quei giorni. La guerra fu data come giusta e necessaria, quindi
combattuta.
Il vuoto delle parole, e la pulizia che certe espressioni come "bombardamento chirurgico," potevano suscitare,
hanno lasciato molte coscienze assopite davanti a quelle televisioni, e in fin dei conti i nostri militari più
che
lanciare bombe su un nemico invisibile non hanno fatto. Ma in una di quelle notti trascorse davanti alla
televisione quasi in stato di trance, mentre ripensavo a coloro
i quali avevo "visto" e all'"invisibilità" del nemico, ho capito e ho visto nella mia mente le migliaia di
senza
volto, dei quali non avrei mai saputo nulla, dei quali non avrei mai sentito la voce o incrociato lo sguardo. Si
può uccidere un altro uomo solo se lo si considera alieno alla specie umana. Se disumanizzo un uomo,
se lo
rendo inferiore, se lo immagino diverso e pericoloso, io posso cancellare il suo volto e ucciderlo, colpirlo come
se fosse pietra e non carne viva, posso cancellare con un solo gesto tutto quanto lui è ed è stato,
e con lui
uccidere il ricordo che egli porta in sé: persone, città, case, fiumi, cieli sconosciuti. Nel
cielo di Baghdad, invece, vedevamo brillare le esplosioni delle nostre bombe chirurgiche, e sotto quel cielo
io finalmente avevo potuto immaginare le moltitudini senza volto che stavano morendo. Ora dentro di me avevo
chiaro e visibile l'orrore della guerra, orrore di cui non riuscivo a parlare, orrore della mia stessa indecisione.
Non è vero che la Storia è maestra di vita, non è vero che il tempo ci fa capire quel che
è successo: il tempo
ci ruba il senso delle cose e della verità. Alla guerra del Golfo si sono accavallate altre tragedie
e un'altra guerra vissuta in diretta grazie alla televisione,
si è imposta ai nostri occhi. Non abbiamo forse anche visto le ultime immagini riprese da un uomo che
stava
per essere ucciso?
L'immagine televisiva appiattisce alla stessa stregua ciò che è reale e ciò che non lo
è, vedere un film di guerra
o una guerra vera non ha, in fin dei conti, effetti diversi sulla nostra vita. E' una menzogna che la televisione
ci renda vicini, che ci renda tutti abitanti del "villaggio globale". La televisione crea distanza, perché
ci dà
illusione di essere presenti, ma non c'è alcuno sforzo mediatico da parte nostra, messaggio e mezzo
coincidono,
a noi non resta che inglobare. Della mia guerra del Golfo, nonostante avessi infine rifiutato logica e fini
e rifiutato soprattutto l'idea di guerra
in quanto tale, non sono riuscita a parlare sino a quando un libro ha dato, molto meglio di quanto potrei io, voce
alle riflessioni, al dolore che dalla fine della guerra in poi, avevo lasciato dormire in me. Il libro è
Dalle ceneri
dello scrittore magrebino di lingua francese Tahar Ben Jelloun (Il Melograno, Milano 1991, pagg. 65, lire
10.000), che da quando l'ho scoperto è uno tra quelli che più amo. Ma non è degli altri
suoi libri che intendo
scrivere ora. Ora voglio e devo parlare della grande emozione che il suo poema ha suscitato in me. Ben Jelloun
rivendica la necessita e l'urgenza della poesia, la funzione irrinunciabile della poesia, la sua bellezza e la sua
utilità. "Una volta che si è stesa una coperta di sabbia e di cenere su migliaia di corpi
anonimi, si coltiva l'oblio. E'
allora che la poesia si solleva. Per necessità. Diventa parola urgente nel disordine in cui la
dignità dell'essere
viene calpestata. Ma le parole restano pallide quando la ferita è profonda, quando il caos programmato
è brutale
e irreversibile". Contro tutto ciò: le parole. E cosa possono ottenere? "Tra il silenzio mortificato e il
balbettamento disperato, la poesia si intestardisce a dire. Il poeta grida o sussurra; sa che tacere potrebbe
sembrare un delitto, un crimine". Noi non sappiamo, né mai potremo conoscerli, i nomi dei morti
senza volto, di quella e di tutte le guerre, non
potremo mai conoscere i volti dei torturati, degli scomparsi, dei bruciati nei forni crematori, dei soffocati nelle
stive delle navi alla ricerca di un'impossibile salvezza, ma una voce di poeta, una voce sommessa, piena di
dolore e di rispetto, ci ridà le voci di alcuni di quei morti, e ricostruisce i loro corpi, ormai sfatti, con
l'inchiostro
e la carta e la forza delle parole, l'unica arma con la quale è lecito combattere.
Ognuna di queste voci è un uomo, una storia, una città che i nostri occhi non potranno mai
vedere. E ognuna
di queste voci è stata soppressa dalla voce tonante del Potere in una delle sue molteplici
incarnazioni: "Ci siamo persi. Lo siamo da tanto tempo. Le nostre guide ci camminano sulle
spalle.
Sono sempre armate.
Non sanno né cantare né danzare ma scrivono poemi di circostanza e discorsi
opachi.
Sputano sulle facce anonime
come nei festini dei tempi antichi".
Queste voci sono le voci di tutti gli umiliati, gli sconfitti, i perdenti, le vittime, i senza volto che ovunque hanno
condiviso il medesimo destino.
"Quanti popoli hanno conosciuto il nostro esilio
tra fagotti e reticolati
hanno vissuto sulla terra degli altri
hanno pregato un dio assente
hanno pianto una patria perduta
e i loro figli hanno sputato sulle lacrime".
Ma l'umiliato, la vittima è comunque l'Uomo vitale che non si arrende, che torna di continuo:
"Quell'uomo è tutti gli uomini. Ha fatto tutte le guerre. E' morto tante volte. Non smette di rinascere.
Sempre
uguale, crede nell'anima, nel pensiero e nelle cose: una prateria fiorita, un parasole per l'amore, il riso e
l'amicizia, l'infanzia e il coraggio... E' da migliaia di giorni e di stagioni che cammina. Dicono che sia
maniacalmente errabondo. Dicono che sia pazzo. Ma la sua bocca è chiusa su secoli di parole. I suoi
occhi,
grandi e scintillanti, restano aperti. Guardano lontano, al di là dei muri e delle montagne. Al di
là di ogni silenzio".
Ed è contro il silenzio e l'oblio che dobbiamo combattere incessantemente, combattere il tempo ladro
e la
menzogna, combattere la nostra pigrizia mentale. Ma se anche "Il nostro bisogno di consolazione è
impossibile
da saziare," come scriveva Stig Dagermann, come riscrive Tahar Ben Jelloun, come voglio riscrivere anche io,
contro il silenzio e l'oblio possiamo e dobbiamo opporre la forza delle nostre parole e la tenacia della nostra
memoria.
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