L'intreccio perverso mafia-politica, che si alimenta
reciprocamente perché corruzione, degrado, violenza, sono elementi fisiologici, ormai, del dominio
statuale, potrà essere spezzato radicalmente spazzando il campo dai duellanti e intraprendendo una
ritica del dominio di segno libertario. E' questa la tesi di fondo dell'intervento del nostro collaboratore Salvo
Vaccaro. Completano l'analisi quattro storie di altrettante vittime della violenza mafiosa.
Diversi anni orsono, una casa editrice anarchica, che si fece conoscere per la
ripubblicazione di alcuni "classici" del pensiero anarchico e per l'innovazione in campo teorico,
scelse di chiamarsi Antistato per segnare la carica di opposizione irriducibile allo stato, sino ad immaginare una
condizione sociale caratterizzata dall'assenza di tutto ciò che sa (dipende, deriva, è affine,
odora, ecc.) di stato. Nonostante la particella anzi possa far pensare ad una posizione speculare, contraria in
senso antagonista, in quel nome viveva l'utopia anarchica della estraneità
assoluta, della radicale alterità dallo stato.
Oggi, l'usura della storia logora non solo le parole e le cose, per parafrasare Foucault, ma anche i concetti.
Vulgata corrente denomina, e marchia con bollo d'infamia, Cosa nostra, vale a dire la mafia siciliana, ma anche
organizzazioni analoghe quali la 'ndrangheta calabrese, la camorra campana e la Sacra Corona Unita pugliese,
con l'etichetta onnicomprensiva di antistato.
La mafia lontana parente degli anarchici? La mafia contro lo stato come gli anarchici?
Il rapporto che lega mafia e politica è assimilabile al rapporto degli anarchici con la politica (nel senso
istituzionale del termine)?
Per diradare le nebbie della confusione, proviamo ad analizzare il nodo mafia-politica, osservandolo da
diverse angolazioni. Anticipiamo il risultato per rasserenare il lettore di cose anarchiche: Cosa nostra è
un para-stato, un sub-stato, uno stato nascente (dentro un altro stato), ma non certamente un antistato, sebbene
talvolta lo scontro aspro e violento tra entità già statuali (come nelle guerre) o aspiranti tali
può dare l'impressione contraria.
I termini del discorso
Quando si affronta il tema del rapporto tra mafia e politica, occorre preliminarmente specificare i termini del
discorso. Per "politica”, si intende quella sfera che regolamenta la vita delle istituzioni centrali e
periferiche, sia pubbliche (enti locali), miste (enti economici) che private (sindacati, partiti, ecc.), le quali hanno
una refluenza disciplinare (nel senso foucaultiano) sulla società, cioè “ordinano"
le manifestazioni ed i rapporti tra i soggetti assoggettati, tra di loro (è la sfera legislativa, cioè
politica, a decidere su questioni private, personali, attinenti alla sfera del singolo io), nei confronti delle
istituzioni, per quanto riguarda l'intricata relazione improntata sul modello domande/risposte, diritti/doveri, ed
i rapporti tra categorie sociali nei confronti della pubblica amministrazione di cui quelle sono utenti postulanti
l'esecuzione di un atto qualsiasi loro dovuto.
Il degrado che ha investito questo rapporto (in Italia ma anche fuori), dando luogo a malcostume, a figure
inedite di reato, a colpevoli lentezze e negligenze burocratiche che invocano quasi per necessità la
deviazione dalle regole, ad assurdità logiche elevate all'ennesima potenza, specie nel campo dei diritti
individuali, riconosciuti ma scarsamente rispettati da chi ne ha il dovere giuridico, o nel campo dei servizi
sociali improntati al favore clientelare o alla caritatevole elargizione di diritti maturati, meriterebbe un dossier
a parte, sulla qualità della vita democratica. Già, perché corruzione, clientelismo,
peculato, scambi di favore, ecc. costituiscono manifestazioni continue del tran tran giornaliero della democrazia,
e non degenerazioni patologiche.
La mafia si innesta a maggior ragione in tale contesto; però non ogni malcostume o corruzione o
disservizio ha motivazione mafiosa. Il degrado investe regimi e zone in cui la presenza malavitosa, speculativa
e clientelare esiste senza assumere specificità mafiosa
(nuovamente, in Italia ma anche fuori).
Mentre nel contesto di questa riflessione, per “mafia” si intende propriamente quelle
organizzazioni criminali, illegali, che compiono illeciti, anche nella sfera politica, funzionali a proprie strategie
di affermazione, fondate, diversamente dalla politica statale, sull'uso distorto di tre risorse politiche rispetto ad
altri attori presenti nella scena.
Qualunque regime democratico usa le risorse del consenso, della forza o violenza e della ricchezza secondo
modalità storicamente determinate. Cosa nostra usa tali risorse secondo modalità differenti
rispetto al regime democratico, pur avendo la medesima necessità logica di perseguirne l'acquisizione.
Riguardo al consenso lo stato democratico organizza gare di acquisizione, anche truccate e periodiche, con
procedure definite. Cosa nostra strappa il consenso in via tradizionale, su base ristretta, grazie al controllo
immediato del territorio.
Se la democrazia ha, in un certo qual senso, neutralizzato un esercizio quotidiano e spinto della forza e
della violenza, monopolizzandone l'uso legittimo e riservandone l'esercizio in determinate occasioni, Cosa
nostra è arcaica in tale misura poiché è ancora incapace di selezionare i propri quadri
senza regolare i conti a lupara.
Infine, riguardo alla ricchezza, la democrazia si concede oneri sociali (anche grazie a lotte rivendicative
emergenti dal basso) verso cui Cosa nostra è indifferente, mirando esclusivamente ad accumulare in
tutti i modi possibili, leciti ed illeciti, ricchezza per sé senza elargire briciole in nome di un sia pur
fittizio e illusorio "interesse generale”, cosa che le democrazie borghesi devono fare poiché
fondano la propria legittimazione, almeno in buona parte, proprio su questo simulacro dagli effetti reali.
Pratica e metafora del racket
Una delle prime forme dell'accumulazione, che consente la nascita di economie e sistemi capitalistici, consiste
nella estorsione. La minaccia di violenza, del ricorso alla forza armata e omicida da parte di signori
feudatari che si galvanizzano grazie ai propri eserciti mercenari, fu una delle condizioni della formazione di
enormi ricchezze che poi divennero ricchezze di stato quando alla guerra continua si arrivò alla pace
(armata) tra i vari signorotti in concorrenza che eleggevano un primus inter pares, un monarca non
più assoluto o benedetto dal potere spirituale
bensì condizionato da complessi equilibri e, spesso, sotterranee alleanze di potere (i cosiddetti
arcana imperii).
Poi il re diventò il più forte di tutti perché riuscì a rendere effettiva la
coscrizione obbligatoria in un esercito permanente ed a legalizzare l'estorsione chiamandola prelievo fiscale:
nacque così nel XVI-XVII secolo - insieme ad altre circostanze altrettanto rilevanti, beninteso - lo stato
moderno.
Oggi come ieri, e questa succinta riepilogazione storica di processi durati diversi anni con diverse
vicissitudini (e tanto sangue innocente) non fallisce in nulla una altrettanto succinta ma veritiera lettura del
nostro stato contemporaneo. Eccettuato l'ultimo passaggio (ancora
prematuro?), la similitudine con la violenza mafiosa è impressionante: estorsione, controllo del
territorio, eserciti contrapposti di clan, concorrenza spietata regolata a lupara e kalashnikov, faide familiari
infinite e trans-generazionali, precaria pax mafiosa dopo una guerra di mafia (e sino alla prossima), il
"papa" come primus inter pares nella “cupola", e via dicendo.
Al di là dei termini e dei contesti, è evidente che la violenza armata statuale impregna di
sé ogni forma organizzata di forza che mira al predominio.
Cosa nostra è uno stato in formazione, osservata da questo punto di vista: vuole controllare il
territorio su cui esercita la propria attività perché ogni formazione sovrana statuale necessita
di un proprio territorio, di confini che li delimitano e di popolazioni
assoggettate (lo dice pure la Costituzione).
Cosa nostra necessita di un volume di fuoco perché è ancora in concorrenza con forze
intestine e con forze esterne ad essa rivali: lo stato legale è una di queste, ecco la differenza di rilievo
rispetto al periodo che vide la nascita dello stato moderno.
Allora si era in presenza di piccoli principati, vassallati, feudi, comunque di territori soggetti a
sovranità delimitata e di ampie zone “vergini" sottratte al diritto, alla legge giuridica, al
controllo di qualcuno.
Il primo che se ne impossessava, dava il via al conflitto per il controllo interno, militare, fiscale, sociale,
culturale (cosa che alla mafia interessa relativamente. Sotto l'aspetto della tradizione omertosa, ad esempio,
oppure dell'odio inveterato verso le forze dell'ordine costituito).
Oggi, invece, l'estorsione mafiosa non diventa prelievo fiscale legittimo perché la
legittimità dello stato si oppone alla sottrazione della propria competenza monopolistica in materia. A
questo livello il conflitto è all'ultimo sangue. Ma si tratta di importanti questioni simboliche di
legittimità, poiché sul piano pratico, controllo del territorio e accumulazione da estorsione (o
da traffico illecito in genere, in tale ottica è la stessa cosa) si misurano nei fatti.
Ed i fatti narrano di ampie zone soggette al racket, all'intimidazione mafiosa, pur di sopravvivere, di ampie
zone in cui sono le forze dell'ordine legale a muoversi come se fossero in territorio straniero, anzi nemico, alle
prese con l'ostilità della gente sia pure minacciata e con le pattuglie armate (magari le une contro le
altre) al soldo di Cosa nostra.
L'accumulazione di ricchezza è una risorsa politica importantissima per chi si candida a gestire
il potere assicurandosi il consenso dei dominati, siano essi cittadini ai quali capita di vivere in un determinato
ordinamento, che deve periodicamente rinnovare la richiesta di legittimazione di se stesso, in quanto soggetto
assoggettante, siano essi familiari o delle famiglie di Cosa nostra ai quali ricambiare l'omertà con la
distribuzione di reddito che compensi e sfrutti al contempo le inefficienze e le insufficienze del regime locale,
le cui promesse non mantenute in fatto di occupazione, lavoro, reddito, favoriscono l'acquisizione di consenso
alla mafia.
I rapporti tra mafia e politica In una fase antecedente di relativa ristrettezza strategica di Cosa nostra - ristrettezza quanto a forza
organizzata, ad accumulazione di ricchezza, a popolazioni assoggettate, a orizzonti strategici, ad appetiti di
profitto, ad esigenze di sopravvivenza meno alte - il nodo del
rapporto mafia-politica era leggibile attraverso una condizione di scambio reciproco.
Un do ut des tra alcuni politici e la mafia relativamente a carriere politiche, a pacchetti elettorali,
a favori trasversali, ad appoggi ed agganci sfruttabili
in qualsiasi momento, a risorse economiche di partenza.
Talvolta il do ut des era limitato: voti in cambio di appalti, voti in cambio di favori; talaltra diventa
una sorta di contratto patrizio, una alleanza a medio e lungo termine, che costruiva carriere (del politico in
ascesa, ad esempio, e della famiglia e del boss a lui collegato, e la caduta dell'uno si ripercuoteva
inesorabilmente sul destino dell'altro, sovente contemporaneamente). Altre volte, infine, poteva dar luogo a
forme di organicità vera e propria con l'organizzazione mafiosa, che riteneva opportuno delegare ad
alcuni partiti o personaggi politici la propria rappresentanza negli enti istituzionali, ai vari livelli centrali e
periferici. I politici diventavano così portavoce, elementi di congiunzione organica tra sfera della
politica e interesse criminale.
I primi esempi noti delineavano altresì figure nette di reati penali: corruzione, interesse privato,
peculato, e via dicendo, in cui era chiaro – ovviamente
una volta scoperto e dimostrato con prove valide di fronte a una corte l'intreccio - chi corrompe chi, per quale
motivo, con quale esito, secondo quali modelli, in quale modo.
Oggi le cose stanno cambiando. In linea con l'espansione della volontà di potere della
mafia, derivata da ambizioni strategiche, da maggiori capacità di ricchezze da più forti
meccanismi accumulativi, da più alti interessi da difendere per garantire il livello conseguito di
sopravvivenza, Cosa nostra non intende più delegare la propria rappresentanza politica nello stato (a
tutti i livelli) a persone e partiti in fin dei conti estranei all'organizzazione e suscettibili specialmente in questi
tempi, a rifondare anche in superficie la propria attività, pena la loro stessa esistenza (in altri termini,
chiamati a decidere tra autoconservazione come ceto politico e mafia, alcuni partiti possono scegliere a denti
stretti di scontrarsi con la mafia per auto-perpetuarsi).
Così se a livello centrale si rinnovano contiguità cointeressate, alleanze e patti organici
con alcuni esponenti politici e con alcune fette di partiti governativi (ovviamente, anche se ci sono casi di
elementi e coinvolgimenti con forti partiti d'opposizione), a livello periferico la mafia intende mandare propri
elementi a gestire il potere politico, per replicare alla rivolta ed alla indignazione dell'opinione pubblica (nel
caso perforasse la corazza impermeabile
dei partiti pigliatutto): per gestire direttamente, per acquisire conoscenze immediate, per garantirsi privilegi
rispetto alla concorrenza intestina.
In tal senso, Cosa nostra non è affatto un antistato ma dimostra di avere bisogno di sfruttare la
politica per acquisire quelle porzioni di potere reale e di ricchezze reali che derivano dall'esercizio del potere
statale, non surrogabile altrimenti mediante il controllo illegittimo del territorio e le attività criminali
di arricchimento illecito.
Chi manipola chi In un ipotetico bilancio di saldo attivo e passivo sulle collusioni tra mafia e politica, non si sa chi è
in credito con chi.
A prima vista, un tempo era il politico a beneficiare, sul piano politico, dell'appoggio mafioso, al quale
ricambiava con favori per lo più di carattere economico (opportunità di affari leciti tramite
privilegi illeciti nell'acquisizione di appalti, autorizzazioni amministrative, licenze, ecc.).
Certamente qui si innesca una spirale perversa di potenziali ricatti incrociati. che talvolta pone il mafioso
nel ruolo di burattino di astute strategie politiche nelle quali egli gioca il ruolo di mero galoppino elettorale e
di ricettatore di piccole porzioni di ricchezza indotta.
A volte, però, il mafioso gioca il ruolo di burattinaio, ricattando il politico grazie al pacchetto di
voti sufficiente a stroncare una carriera politica; il che costringe il politico a ossequiare in tutti i modi le
richieste provenienti dal "padrino" di turno.
Oggi sembra che questo gioco abbia visto la frantumazione di una dimensione controllabile. Abbiamo
assistito non solo a politici assassinati, a carriere incredibilmente accelerate, a metamorfosi politiche, a
sostituzioni familiari (il figlio che prende automaticamente il posto del padre ,"chiacchierato" in
un dato parlamentino). Ma anche a inquietanti collusioni tra piste mafiose e presenze di servizi segreti: nel caso
Chinnici, in relazione a ipotetici traffici di armi scoperti dal consigliere istruttore in cui erano coinvolti spezzoni
di Cosa nostra (Nitto Santapaola) e servizi esteri implicati nella polveriera mediorientale; d'altronde il congegno
a distanza che ha ucciso "alla libanese" Chinnici non era certamente un telecomando da televisore
qualunque. Nel caso Dalla Chiesa si ricordi la sparizione di documenti riservati dalla cassaforte dell'abitazione
del super-prefetto a pochi minuti dall'omicidio; per quanto concerne la strage natalizia del rapido 904 sono
accertati i contatti tra destra eversiva, camorra e Pippo Calò; stesso scenario nel caso Mattarella, mentre
è risaputo che Pio La Torre era stato oggetto di indagini continuate dei servizi segreti italiani sino alla
metà degli anni settanta, sospese e poi riprese due mesi prima del suo omicidio.
Il sospetto è che in queste attività, sia lo stato occulto a manipolare Cosa nostra
(così come successo durante la strategia della tensione e l'era P2, nei confronti dell'estrema destra),
intersecando le strategie mafiose, depistando le proprie operazioni per camuffarle e addebitarle alla mafia,
grazie a operazioni di isolamento e disinformazione accurate che preparano l'opinione pubblica a percepire e
ad accettare un'evidenza: il salto di qualità della mafia, l'attacco della piovra allo stato, il fantomatico
terzo o quarto livello, mai raggiunto, nonostante pentiti e infiltrati.
Il sospetto che questo vortice nasconda giochi perversi ben al di sopra del livello intellettuale degli
strateghi mafiosi, della cupola di Cosa nostra e dei consigliori, si aggrava quando qualcuno di questi boss viene
scoperto, arrestato e incriminato: sembrano figure incapaci di elaborare e gestire complicate operazioni
finanziarie geograficamente estese per tanti stati. Senza dubbio Pippo Calò o Ciancimino, ai quali pure
si addebitano nefandezze non da poco, sembrano solo esecutori di strategie che solo Marcinkus, Sindona o Calvi
(tanto per fare alcuni nomi tra loro collegati e connessi con Cosa nostra) potevano progettare districandosi
abilmente tra triangolazioni, traffici di armamenti e tecnologie militari, riciclaggio di denaro sporco, norme
finanziarie poli-nazionali e via dicendo.
Pertanto, tra Cosa nostra e la politica si instaurano relazioni reciproche di convivenza e contiguità
non certo casuali e contingenti, che allignano nel degrado della politica contemporanea pur essendone un effetto
e non una causa; comunque i rapporti esistevano anche quando la politica non era pervenuta a quel quadro
fisiologico di corruzione in cui la scissione ferrea da regole etiche, la frammentazione egoistica e antisolidale
delle miriadi di corporazioni astutamente l'una contro l'altra scagliate ad opera di una burocrazia amministrativa,
l'iper-machiavellismo cinico elevato all'infinito, insieme ad altre motivazioni, costituiscono probabilmente il
modello visivo e leggibile della politica contemporanea, segnando una tappa rilevante e preannunciando forme
di cambiamento ancora inesplorate dal punto di vista della sua agonia, della sua metamorfosi, dell'emergenza
di nuove dimensioni a seguito del disfacimento del corpo politico-amministrativo del regime democratico.
L'esile filtro dell'auto regolamentazione In tale contesto, resterebbe possibile, in mera astrazione logica, estirpare il cancro mafioso a patto di dare
per stabile una situazione di degrado fisiologico e non patologico della sfera politico-amministrativa; ma
mutando punto di osservazione, risulta nodo inestricabile il connubio mafia-politica poiché si
alimentano a vicenda e la loro eliminazione passa attraverso la loro
distruzione combinata e simultanea.
A tal proposito, risultano palliativi meramente dissuasivi le norme di autoregolamentazione etica della
politica, in occasione di elezioni, candidature, esercizio di cariche pubbliche, raccomandate da comitati,
commissioni, ecc. interne alla sfera della politica, giacché non di infiltrazione o penetrazione mafiosa
si tratta, bensì di innervatura intima dettata
non tanto da debolezze e fragilità umane (il politico corrotto dalla mafia da sostituire con l'onesto
funzionario), né di astuzie strategiche o facili permeabilità (Cosa nostra che ramifica dentro gli
enti locali), bensì di relazione necessaria tra due corpi "simbiotici" per poter continuare ad
esistere all'interno di un contesto caratterizzato democraticamente secondo quegli elementi sopra
sommariamente evidenziati.
L'impotenza dell'etica sul piano preventivo è figlia dell'accentuazione sul piano repressivo, e quindi
penale, di un approccio statuale a fenomeni di devianza dalla norma. I codici di auto-regolamentazione,
suggeriti ai partiti riguardo alla proposizione di candidati, onesti e in regola con la legge, in competizioni
elettorali, valgono in quanto accettati nella pratica della definizione delle liste, il che, si è visto, non
è facile dare per scontato. In secondo luogo, prescrivono la impresentabilità di candidati
indagati per fatti di mafia che abbiano già subito una incrinatura del principio presuntivo di innocenza
con qualche condanna penale o amministrativa (pur non passata in giudicato in maniera definitiva) per reati di
mafia o di corretta gestione amministrativa.
In un mondo in cui, tra l'altro, si regola per norma pure il colore delle schede elettorali, per non parlare di
questioni attinenti esclusivamente la sfera personale, tali regole sono inefficaci, ovviamente anche per
responsabile e apprezzabile senso del garantismo, invocato in questi eventi a gran voce (diversamente dai fatti
di terrorismo), di fronte a candidati e personaggi “chiacchierati", come sono la stragrande
maggioranza degli uomini politici venuti a contatto non
casuale, in un modo o in un altro, per un motivo o per un altro, con personaggi mafiosi (acclarati o supposti tali).
La "vox populi” fa calunnia, non è penalmente rilevante ed è formalmente
inutilizzabile per i codici istituzionali di auto-regolamentazione.
A meno che non si traducano le precauzioni etiche, che vorrebbero comunque la sospensione e la
impresentabilità, a metro di misure legislative per normare l'istanza morale di pulizia. Il che, tuttavia,
è difficile perché non tutto ciò che è eticamente corretto viaggia su binari
compatibili con la ferrea logica giuridica, che vede solo in bianco e nero, senza graduazioni di tinte che invece
sono recepite nel giudizio etico.
Di questo dovrebbero ricordarsi gli elettori, se si votasse liberamente sulla base di principi etici. Ma questa
è un'altra favola.
Ascesa e declino della mafia Tutto ciò, in astratto, segna il punto più alto della potenza mafiosa, quando cioè
arriva ad esautorare il potere legittimo dello stato democratico (o supposto tale, visti Gladio , la P2, Kossiga,
Moro, Andreotti).
Ma tutto ciò potrebbe segnare anche il declino di una organizzazione criminale forte e la nascita
di una formazione che aspira a farsi stato, e quindi ad onerarsi di tutto un carico di responsabilità
(politiche, amministrative, assistenziali) che a lungo andare indeboliscono lo stato poiché lo costringono
ad assumere iniziative dissipative che bruciano ricchezze senza contropartite.
Per ora la mafia conosce pochi elementi dissipativi, cioè fattori di indebolimento politico ed
economico, giacché le guerre di mafia sono, per lo più, guerre di espansione e di crescita
fisiologica, e i bilanci di cosa nostra riguardo alla voce di spesa
improduttiva per mantenere il consenso dei propri assoggettati sono relativamente onerosi (garantire la
sopravvivenza degli elementi organici, famiglie incluse, che non dispongono di reddito per "incidenti di
percorso": arresto, latitanza processo a carico, scomparsa, assassinio, ecc. ) .
Se cosa nostra conquistasse la macchina statale, sarebbe costretta ad assumere in proprio tante e tali spese
improduttive che fallirebbe come, nei fatti, è fallito lo stato, dal punto di vista di una sana finanza
pubblica. A meno che non ricorra all'estorsione generalizzata (ma se diventasse stato, la mafia dovrebbe
abbandonare quella illecita legalizzandola sotto forma di prelievo fiscale, che non può superare una data
soglia prima di rendersi inefficace e controproducente), alla dittatura oppressiva (che dura relativamente poco
come dimostrano le odierne dittature), allo sterminio della concorrenza (ma se diventasse stato sul serio il
contesto internazionale, ancora più forte di Cosa nostra sul piano della forma organizzata sarebbe un
vincolo che per adesso si riflette solo relativamente nelle strategie planetarie della mafia, ammesso che siano
veritiere le ipotesi di coordinamento tra i vertici di Cosa nostra statunitense e
siciliana, e comunque le mafie a livello mondiale sono tante così come gli stati, e ciò sarebbe
sempre un vincolo ineludibile, per giunta sotto ipoteca nucleare).
In ultima analisi, a Cosa nostra non conviene farsi stato, bensì rimanere un sub-stato egemone,
ricco, altamente produttivo nei margini di profitto e di accumulazione di capitali.
La sola idea di una mafia senza stato rende la vita stessa di Cosa nostra impossibile. Senza lo stato la mafia
non esisterebbe in quanto organizzazione criminale che fa della violenza dispiegata l'elemento forte di ricchezza
politica, sociale ed economica.
Cosa nostra vive di appalti pubblici, vive anche per le inefficienze sociali dello stato, vive perché
certe norme ne favoriscono l'illecito, come per la diffusione della droga.
Inoltre, Cosa nostra è aliena da t tta una serie di oneri che lo stato invece è costretto ad
assumere per legittimare se stesso. Il prezzo da pagare per la relativa neutralizzazione della violenza
monopolizzata da parte dello stato (secondo la celebre definizione di Max Weber) consiste in una serie di
procedure di acquisizione di legittimazione e consenso per via democratica che si arricchiscono in misura
proporzionale all'estendersi dell'orizzonte statuale nei modi di affrontare e risolvere i problemi. Per cui le
socialdemocrazie mondiali, siano esse riformiste o liberali, continentali o nordamericane, hanno fatto fronte a
istanze provenienti dal basso normandole e statalizzandole in politiche sociali dai costi alti e spesso
improduttivi.
Un certo crollo dello stato Di tutto ciò Cosa nostra è esonerata; per lei, i problemi sociali si riducono ad alcuni assi
di intervento ben delimitati: controllo, parziale redistribuzione di ricchezza, isolati casi di elargizione di reddito
assistenziale, legate in ultima analisi all'obiettivo minimo di salvaguardare l'omertà e la
passività degli assoggettati al dominio mafioso.
Se crolla lo stato, crolla la mafia. Ma è anche vero che per affermarsi la mafia, una certa incrinatura
del governo statale in determinati campi del proprio ordinamento deve essere già avvenuta. L'esercizio
del potere non tollera il vuoto di potere, cioè una precisa scelta anarchica non legata a fattori contingenti
bensì è un diverso modo di organizzare le relazioni umane, gli interessi e le strategie di sviluppo
sociale ed economico.
In contesti di dominio, il vuoto aperto dallo stato è colmato da Cosa nostra, che lo riempie, a volte,
restaurando elementi arcaici di gestione efferata del
potere in funzione attuale (lo stato ha smesso, in linea di massima, di eliminare la concorrenza intestina
disciplinando "democraticamente" la corsa alla leadership, cosa che alla mafia, ripetiamo, riesce
ancora difficile da praticare senza lupara e kalashnikov).
. I valori regressivi della gestione del potere mafioso non sono equiparabili ai disvalori moderni della
gestione del potere statale. Per gli anarchici i valori veicolati dal potere legittimo sono negativi perché
comunicano trasmissione di autorità, sfruttamento dei deboli, privilegio antisolidale, ingiustizia e
iniquità diffuse, incancrenimento dei problemi sociali la cui
risoluzione è affidata verticalmente al ricorso costante al potere, uso della guerra come esito politico
praticabile, militarizzazione del territorio.
Il crollo parziale dello stato in determinati territori dove spadroneggia Cosa nostra, tuttavia, non è
di quei crolli auspicati dagli anarchici, anzi.
Il dominio mafioso, nelle sue similitudini con quello dello stato, non deve illudere sul grado di violenza,
efferatezza, controllo militare del territorio, condizionamento sociale, sfruttamento brutale degli assoggettati,
incitamento alla passività ed alla rassegnazione “fatale”.
Ecco perché, nel passato come nel presente, gli anarchici, nei limiti delle loro forze e
possibilità, senza appiattirsi sull'opposizione "di
Sua Maestà" (stato, governo, forze istituzionali e filo-istituzionali, hanno espresso e praticato (e
talvolta pagato col sangue, come nel secondo dopoguerra) una ferma e irriducibile opposizione al dominio
mafioso, che fa ripiombare i rapporti umani ai tempi in cui la vita e la sicurezza individuale erano segnate da
fattori casuali e arbitrari, alla mercé della forza e della violenza di pochi.
Ma poi, lo stato può sconfiggere Cosa nostra? E gli conviene veramente? Certamente sì
se Cosa nostra fosse solamente un mero concorrente nella gestione del potere.
Ma la mafia, al di là di Cosa nostra, è solo emblema della violenza? O con essa, la
cosiddetta società civile intravede un'organizzazione delle
relazioni sociali improntate a valori regressivi, ed allora l'opinione pubblica indignata si appiattisce sullo stato
nella ricerca di strategie militari e sociali idonee a sconfiggerla?
Oppure - e qua sta la sfida lanciata dagli anarchici - nell'intersezione del duro conflitto tra Cosa nostra e
stato (che colpisce però anche chi non appartiene a nessuno dei due schieramenti), la società
civile riuscirà a cogliere il nucleo di una organizzazione sociale fondata sulla violenza, sul dominio e
sullo sfruttamento, al di là del soggetto concorrente che lotta, per esercitare il ruolo di gestore di tale
violenza, sia esso stato o mafia?
In tale prospettiva, tuttora non compiutamente dischiusa e approfondita, la rivolta morale può
trasformare l'indignazione in energia progettuale tesa alla ricerca ed alla sperimentazione di nuove
modalità di auto-organizzazione della cosa pubblica, di approccio e di risoluzione dei problemi
emergenti, attraverso metodologie dirette, orizzontali, solidali, antiautoritarie.
In tal modo, l'intreccio perverso mafia-politica, che si alimenta reciprocamente perché corruzione,
degrado, violenza sono elementi fisiologici, ormai, del dominio statuale, al di là, ripetiamo, se ad
esercitarlo sia lo stato a Roma o Cosa nostra a Palermo, potrà essere spezzato radicalmente spazzando
il campo dai duellanti e intraprendendo una critica del dominio che dia luogo a innovative teorie libertarie
idonee a organizzare i rapporti sociali differentemente da come la struttura statuale, di cui si alimenta pure Cosa
nostra, ha fatto finora.
Contro lo stato, contro la mafia L'estraneità anarchica alle istituzioni ed alla sfera
della politica in generale è ribadita dal costante impegno alla non-partecipazione ai riti
elettorali che simbolicamente rilegittimano lo stato e concretamente vincolano il raggio di libertà
d'azione e di immaginazione dei cittadini all'interno del sacro recinto statuale, dove i problemi sociali provocati
dalla infelice organizzazione autoritaria e iniqua subiscono la beffa del peggioramento per via di un approccio
e di una fittizia risoluzione – in realtà dislocazione nel tempo e nello spazio - attraverso quelle
stesse logiche e azioni che ne motivano l'insorgenza.
La vanificazione della politica e dello stato sarebbe un colpo mortale anche per la mafia. La
decentralizzazione di risorse decisionali ed economiche; la trasparenza di una gestione amministrativa depurata
da qualsiasi forma di elargizione di diritti o di concessione di privilegi, ma ricondotta a mero interfaccia tra
istituzioni decentrate e vicine a popolazione autogestita e portatrice di facoltà effettive di controllo; la
capillarità di organismi popolari che autogestiscono i servizi quotidiani della vita pubblica senza
sottostare all'imperio di una norma vincolante sovra-storicamente,astrattamente universale, disattenta alle
differenze uniformate al paradigma giuridico; la rotazione di incarichi di responsabilità per quanto
concerne la gestione decentrata di particolari funzioni collettive; questi ed altri elementi ancora di una
società libera, orizzontale e statuale scombinerebbero i piani di Cosa nostra, che non troverebbe
più alcun punto di riferimento cui far leva per ottenere illecitamente quelle prestazioni lecite da parte
della sfera della politica, complementari alle proprie attività criminali.
Indubbiamente il conflitto si sposterebbe sul piano della forza fisica delle armi, ma almeno si eliminerebbe
un potente fattore di illusione e dissuasione che impedisce, di fatto, un reale e fattivo impegno contro la mafia
da parte dell'opinione pubblica coalizzata, oggi sconcertata da sapienti operazioni ad effetto soporifero e
disaffettivo, o quantomeno che cercano di incanalare indignazione e protesta unicamente verso la mera rivolta
verbale ed effimera nei confronti solo di un corno del dilemma, cioè verso quelle parti ormai bruciate
di Cosa nostra, sconfitte doppiamente dal ramo vincente ed utilizzate come paravento dallo stato, a mo' di capro
espiatorio di tutte le criminalità mafiose del passato, nell'attimo in cui non si devono approfondire o
investigare quelle presenti.
Una soluzione radicale, che distrugga stato e mafia, complici pur nell'esercizio diversificato della medesima
logica e pratica della violenza e del dominio spietato, va elaborata e avanzata da parte di tutti quei soggetti stufi
di essere spettatori passivi di conflitti di potere la cui posta in palio è pur sempre il dominio di pochi
sui molti assoggettati.
E' questa, tra l'altro, la chiave per smuovere l'indifferenza pubblica alla spettacolarizzazione del conflitto
mafia-stato: essa è riconducibile alla percezione certamente non peregrina che si tratta di un conflitto
aspro all'interno di un medesimo campo, la cui soluzione non apporterebbe nulla di realmente diverso (la
cosiddetta “alternativa civile”) nella vita quotidiana della gente comune. Una ennesima
telenovela, come quella di Kossiga, di Gladio, della P2: polveroni abilmente suscitati per distogliere la
concentrazione su obiettivi importanti da perseguire unitariamente tra tutti coloro che hanno a cuore le sorti
della libertà
.
Storie da non dimenticare
ROCCO CHINNICI Via Pipitone Federico, la mattina del 29 luglio 1983, sembrava la periferia di Beirut: una cinquecento imbottita
di tritolo era esplosa mentre Rocco Chinnici stava per entrare in macchina seguito dalla scorta. Un massacro
di uomini, un agglomerato di macerie; e poi calcinacci un po' dovunque, lamiere contorte, vetri infranti, briciole
di muri sopra i lenzuoli che coprivano i cadaveri; tutt'intorno come spettri gli investigatori e i magistrati,
smarriti e increduli, intenti ad aggirarsi confusamente in mezzo a quel macello, a passarsi la mano sulla fronte,
a maledire il caldo afoso di un'altra estate di sangue. Chinnici era un magistrato con le idee chiare: a capo dell'ufficio istruzione di quel palazzo di giustizia in cui -
dopo la morte dell'amico Gaetano Costa - non si fidava ormai di nessuno, aveva deciso di andare fino in fondo
e di colpire duro laddove più alti e più forti erano gli interessi di Cosa Nostra. "La Regione Siciliana? Il sessanta, settanta per cento dei fondi erogati alle aziende agricole finisce nelle mani
di famiglie direttamente o indirettamente legate alla mafia", aveva detto; e ancora: "Oggi non c'è opera pubblica
in Sicilia che non costi quattro o cinque volte quello che era stato il costo preventivato, non già per la
lievitazione dei prezzi ma perché così vuole l'impresa mafiosa, impresa alla quale è spesso interessato anche
un 'colletto bianco'". Parole come pietre, soprattutto se a pronunciarle è un magistrato che lavora e indaga sui mille misteri di una
città come Palermo. Chinnici vuol vederci chiaro sugli omicidi di Mattarella e La Torre e, tra le altre cose, fa
sequestrare migliaia di documenti al Comune, continuando le indagini che stava conducendo il collega Costa;
a un certo punto vola a Roma sotto falso nome, va al CSM e denuncia: "Ci sono indagini che non si voleva si
facessero..." Il magistrato non nasconde di sentirsi isolato nella conduzione di queste indagini "scomode": anche l'ufficiale
della Guardia di Finanza che stava lavorando a questo filone d'inchiesta è stato trasferito. Passa qualche
settimana, ma Chinnici - testardo - è ancora lì che indaga, che mette insieme tassello su tassello per costruire
un grande affresco di mafia e grandi complicità nella politica e nell'alta finanza, spingendo il piede
sull'acceleratore dell'attività dei suoi collaboratori; era sul punto di arrestare i Salvo, spiegherà più tardi il
commissario Ninni Cassarà. Ma per Rocco Chinnici già qualcuno ha pronto il benservito con un centinaio di
chili di tritolo. Riesce appena in tempo a visitare la vedova di Pio La Torre per dirle: "Adesso il caso La Torre è chiaro. Dica
alla sua amica Irma Mattarella che presto la manderò a chiamare, perché queste novità riguardano anche lei...".
Le carte su cui il consigliere istruttore Chinnici avrebbe voluto svolgere l'ultima parte della sua inchiesta sono
ancora sigillate in un armadio di palazzo di giustizia di Palermo: da quel giorno della sua morte nessuno ha
pensato di aprirle. Anche sulla strage di Via Pipitone Federico si attende ancora che la giustizia faccia il suo corso: c'è di mezzo
un informatore doppiogiochista, legato ai servizi segreti e alla mafia internazionale; c'è di mezzo una serie di
telefonate che indirettamente annunciavano la strage; c'è un'infinita serie di imprecisioni, dilettantismi ed
inesattezze nelle indagini; c'è di mezzo uno strano depistaggio, pilotato attraverso la pubblicazione su certa
stampa locale dell'amaro diario personale del magistrato. E, tuttavia, sulle cause e sugli autori della morte di
Rocco Chinnici non c'è ancora una verità attendibile.
PIERSANTI MATTARELLA A livello nazionale, ormai tutti lo vedono come il naturale successore di Aldo Moro sul piano politico ed
istituzionale: in casa democristiana, mentre ancora tanti sono gli interrogativi aperti sul sequestro e l'assassinio
dello statista DC, Piersanti Mattarella si è deciso a continuare sulla linea politica che dovrebbe portare il PCI
al governo. Decide di provare in Sicilia, nonostante siano forti - più o meno manifestamente - le resistenze e
le opposizioni dei tanti che intravedono in questa decisione il rischio di una progressiva "destabilizzazione" del
sistema di potere democristiano nell'isola. Figli odi quel Bernardo Mattarella tirato in ballo da Gaspare Pisciotta come mandante della strage di Portella
delle Ginestre, il giovane statista fin dall'inizio della sua carriera fa di tutto per sbarazzarsi di un'eredità
imbarazzante e scomoda, che tenta di lasciarsi alle spalle ispirando la propria carriera politica a principi di
correttezza e rigore, arrivando alla presidenza della Regione con quel chiodo fisso di cambiare registro nella
gestione amministrativa della spesa pubblica in Sicilia: trasparenza negli appalti, rotazione dei funzionari,
riprogrammazione della spesa pubblica. Il tutto, da realizzare anche attraverso l'alleanza "anomala" col PCI. Lo ammazzano il giorno dell'epifania del 1980, prima ancora che il suo disegno politico sia stato messo in atto;
con la sua morte si chiude in Sicilia ogni prospettiva di governo aperto ai comunisti e la gestione della Regione
Siciliana torna saldamente in mano alla corrente andreottiana della DC. Le indagini sono complesse e difficili; dopo quasi tre anni di lavoro, il consigliere istruttore Rocco Chinnici fa
ufficiosamente sapere di essere giunto a delle conclusioni che legano in un unico filone d'inchiesta i delitti
Mattarella e La Torre. Chinnici morirà dopo pochi giorni dilaniato dall'esplosione di un'autobomba. A Palermo, l'inchiesta per l'omicidio Mattarella torna in alto mare. Le indagini, tuttavia, ricevono nuovo
impulso grazie all'attività giudiziaria e d'inchiesta svolta presso altre città d'Italia; i giudici di Bologna, in
particolare, nel corso delle indagini sulla strage del 2 agosto '80 si imbattono in una pista che tra interessi
mafiosi, massoneria e P2, porta dritta dritta ai presunti esecutori materiali del delitto: i "neri" Fioravanti e
Cavallini. "Sia Valerio (Fioravanti) che Concutelli - racconta ai giudici Angelo Izzo - mi dissero che erano la mafia e gli
ambienti imprenditoriali legati alla massoneria, nonché esponenti romani della corrente democristiana avversa
a quella di Mattarella, a volere la morte dell'onorevole...". La magistratura palermitana, Falcone in testa a tutti, decide di acquisire il materiale dei colleghi bolognesi: ci
si aspetta giungano novità importanti. Ma, dopo undici anni di lavoro, durante i quali poco o nulla è stato fatto
per dare il benché minimo approfondimento ai filoni più inquietanti e oscuri dell'inchiesta, a Palazzo di giustizia
la requisitoria sull'omicidio Mattarella - firmata dai giudici Giammanco, Falcone, Schiacchitano, Pignatone o
Lo Forte - viene chiusa senza che venga spiegata la contraddittoria e ambigua presenza di mafia ed eversione
fascista, uniti in una stretta e singolare alleanza per assassinare un Presidente della Regione scomodo. Sul
possibile ruolo della P2 e dei servizi segreti, sulla pista "interna" e sui diversi collegamenti esistenti con altri
omicidi eccellenti dell'epoca, nessuna spiegazione.
PIO LA TORRE La Torre lo aveva chiesto con insistenza e ottenuto quell'incarico in Sicilia, alla segreteria regionale del
maggiore partito d'opposizione, per riprendere in mano le sorti e "bonificarlo" da una situazione di diffuso
incancrenimento consociativo col sistema di potere democristiano. Formato alla scuola di Girolamo Li Causi,
Pio La Torre è uomo-simbolo della lotta per la terra e della grande battaglia per l'occupazione dei feudi
nell'isola; il cuore e la mente di quel movimento dei lavoratori che negli anni del dopoguerra era entrato in
aperto scontro con i gabelloti e i campieri, con la mafia agraria e rurale. La Torre torna in Sicilia anche con un enorme bagaglio di conoscenze ed analisi sul fenomeno mafioso e su
isuoi occulti e ramificati collegamenti con la politica e la finanza; sua, infatti, è la poderosa relazione di
minoranza presentata al Parlamento al termine dei lavori della prima Commissione antimafia, in cui elenca
minuziosamente per nome e cognome gli autori del sacco edilizio, i padroni degli appalti, i boss emergenti e
quelli da poco spodestati. Passano i giorni e La Torre, malvisto anche da alcuni settori del PCI isolano per la sua radicale scelta di
trasparenza nell'azione politica, non fa mistero di temere qualcosa o qualcuno: chiede il porto d'armi, cambia
orari e abitudini, è guardingo e sospettoso. Sa di essere nel mirino per tante ragioni: in pieno clima governativo filo-americano, ha costruito e guida un
movimento pacifista attraverso cui è riuscito a portare 200.000 persone a Comiso, per protestare contro
l'installazione dei missili americani Cruise; ha messo gli occhi su affari poco chiari di alcuni imprenditori
catanesi a Palermo; guarda con sospetto all'attività di alcune "cooperative rosse" nel mercato degli appalti
pubblici e dell'agricoltura; ma, soprattutto, segue con crescente attenzione l'evoluzione della situazione relativa
al traffico degli stupefacenti ed al riciclaggio del denaro sporco attraverso i canali dell'alta finanza, dei servizi
segreti e dell'alta politica. Si interessa, in particolare, del caso Sindona e finisce - pare - col mettere gli occhi su flussi di denaro che
portano a Calvi e alle banche vaticane. Uno squadrone di macellai mafiosi lo massacreranno insieme all'autista Rosario Di Salvo il 30 aprile 1982,
quando sono stati da poco definiti i dettagli per l'insediamento del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a
Prefetto di Palermo. Le indagini sull'omicidio segneranno il passo per nove anni; nove anni all'insegna di perizie fatte male o -
addirittura - sbagliate, di testimoni sentiti dopo anni di inerzia, di negligenze e leggerezze non si sa se
occasionali o premeditate. Solo su impulso della parte civile si scopre che La Torre era spiato dai servizi segreti "ufficiali" ma anche da
un loro organo "occulto" di cui nulla di più si riesce a sapere; i periti di parte civile - contraddicendo le perizie
ufficiali - scoprono che l'assassinio è stato compiuto con proiettili militari, mentre si viene a sapere che dei due
periti nominati dal tribunale, uno è sospettato di essere un ex-"gladiatore" coinvolto nell'inchiesta sulla strage
di Peteano, mentre il secondo è accusato dal pentito Calderone di essere "colluso" con Cosa Nostra. Alla fine, i giudici Giammanco, Falcone, Schiacchitano, Pignatone e Lo Forte depositano la requisitoria,
dedicata per un terzo alla singolare indagine sui possibili mandanti "interni" al partito stesso in cui La Torre
militava. Su tutto il resto, cala il sipario. O, almeno, così sperano in molti.
GIUSEPPE INSALACO Giuseppe "Peppuccio" Insalaco lo ammazzano a colpi di P38 la sera del 12 gennaio 1988 in una strada della
città-bene; già uomo potente della DC siciliana, dopo quella sua deposizione all'Antimafia in cui aveva parlato
di Ciancimino, dei suoi complici e dei misteri dei grandi appalti comunali, Insalaco era improvvisamente
divenuto ingombrante per il suo partito e per tutti gli amici che l oavevano sostenuto per "ben" novanta giorni
all'incarico di sindaco di Palermo. Novanta giorni in cui Peppuccio si era intestardito a fare di testa sua: aveva
chiuso l'Ufficio d'Igiene perché troppo sudicio, aveva decretato la chiusura di 300 negozi non in regola con le
norme annonarie, aveva fatto mettere i sigilli al prestigioso circolo "Lauria", ritrovo della borghesia danarosa
del capoluogo. Ma, soprattutto, non aveva voluto ascoltare i consigli che gli venivano da più parti, su come gestire il grande
business degli appalti di strade, fogne ed illuminazione cittadine. Fu allora che i padroni di Palermo, quelli che
dirigono fuori dalle stanze del Comune, decisero di silurarlo. Qualcuno, addirittura, gli tirò anche un brutto
scherzo, riesumando le carte di una storia di tangenti e assegni, per l'occasione presentate al magistrato con un
bell'esposto anonimo. Insalaco, in quell'occasione, ebbe modo di ripensare al suo futuro al chiuso di una cella d'isolamento, in carcere. Da allora cominciò a sentirsi braccato, preoccupato per l'incolumità personale: "Ho paura, sono terrorizzato..."
ebbe modo di confidare a qualche conoscente rimastogli ancora vicino. Uomo ambiguo, risultato in testa alle preferenze elettorali proprio nelle borgate ad alta densità mafiosa, non
estraneo ai più cinici giochi di potere, con una voglia di scalare il successo che gli era costata una grande
notorietà ma anche molti nemici di grande spessore; e Insalaco, quasi a volersi prendere una rivincita a futura
memoria, ne aveva elencato alcuni in un memoriale-testamento che gli investigatori gli trovarono in casa dopo
morto. Una lista di buoni e cattivi che, pochi giorni dopo l'omicidio, comparbe anche sui giornali e - a tratti - riesce
a dipingere ancora oggi il volto di quella Palermo dei grandi misteri, di cui tutti bisbigliano sottovoce ma di cui
nessuno è disposto a parlare ad alta voce. Sull'omicidio la polizia intraprese subito un'indagine puntigliosa e penetrante; il commissario Saverio
Montalbano riuscì a presentare ai superiori un rapporto in cui parlava chiaro: quello Insalaco era un omicidio
politico-mafioso. L'aggettivazione netta contenuta in quel rapporto scatenò una baraonda anche all'interno delle
strutture investigative cittadine; ma poi - alla fine - scomparve. Montalbano, dopo una serie di vicissitudini, venne mandato a dirigere un commissariato di frontiera in uno dei
quartieri più "difficili" della città. Intorno al nome di Insalaco sorgono nuovi dubbi, nuove incertezze quando gli trovano un tesserino del
Ministero degli Interni: che ci fa un politico con un documento simile? L'agente segreto? E le indagini tornano
a segnare il passo ancora oggi. I mandanti? Ignoti. I killer? Ignoti. Il movente? Scegliete voi tra i tanti. Sull'omicidio Insalaco pesano mille interrogativi, mille perché, tutti accavallati gli uni sugli altri lungo la strada
di una carriera politica democristiana esemplare nei metodi e negli scopi: ma non nel finale.