Sarà una
bizzarria, di cui mi scuso fin d'ora, ma confesso di essere stato
colpito dalla quasi coincidenza di due episodi che, pur non avendo
apparentemente nulla a che fare l'un l'altro, mi sembra possano
essere utilmente accostati. Mi riferisco, da un lato, alla nota
polemica sulla lettera di Palmiro Togliatti a Vincenzo Bianco e,
dall'altro, al rinvenimento, pochi giorni dopo, delle ossa dell'ex
imperatore d'Etiopia Haylah Sellase, seppellite sotto una vasca da
bagno nell'ufficio di un aiutante da campo del colonnello
Menghistu, ex dittatore del paese. Secondo la versione
del movimento monarchico Moa Ambessa, avvalorata dall'attuale
governo etiopico, il corpo del
re dei re, discendente diretto di Salomone e della Regina di Saba,
Leone Vittorioso della Nazione di Giuda, morto per cause ignote il
27 agosto 1975 , era stato seppellito in segreto in quell'insolita
ubicazione per evitare manifestazioni antigovernative e per
"assicurarsi che il morto non tornasse più
dall'oltretomba". Palmiro Togliatti,
invece, è stato seppellito con gran pompa e vasta
partecipazione di popolo nell'agosto 1964: i suoi funerali sono
stati eternati nel quadro di un celebre artista e su di essi registi
di vaglia hanno girato un film. Ma nell'oltretomba, a quanto sembra,
non lo si vuole proprio lasciare. Dopo quasi trent'anni
(cinquanta dai fatti cui ci si riferisce) ci si ostina a farne un
protagonista del dibattito contemporaneo. Evidentemente, i
politici italiani condividono con il colonnello Menghistu la
convinzione, già espressa da Omero (Iliade V,
302l/303), che la statura degli uomini del passato sia molto
maggiore di quella dei contemporanei, anche se non ne traggono le
stesse indicazioni operative. Uno strano episodio,
quello del riciclaggio della lettera a Bianco. Strano,
soprattutto, perché fondato su un'evidente forzatura. Io,
vi dirò, ai suoi tempi Togliatti non lo potevo soffrire, ma
anche allora avrei considerato quel documento abbastanza normale,
affatto immeritevole di tanto cancan. In fondo, basta una mediocre
conoscenza della storia per convenire che difficilmente il
poveraccio, sul problema dei prigionieri italiani in Russia,
avrebbe potuto dire qualcosa di diverso. Anzi. Nel complesso la
sua sembra una posizione abbastanza equilibrata, e persino
coraggiosa, tenendo presente che a Mosca nel'42 un dirigente
politico a qualsiasi livello doveva esprimersi con parecchia
cautela. E non mi sembra neanche che la seconda versione, quella
autentica, sia molto diversa dalla prima, disinvoltamente
manipolata non si sa bene se dal professor Andreani o da chi
altri. A parte le sfumature,
che dipendono in gran parte da chi legge, il senso delle due
versioni è sempre lo stesso. Togliatti dichiara che a favore
dei prigionieri italiani di Russia non può fare praticamente
nulla: si rammarica perché la loro condizione è
"oggettivamente" assai dura (com'erano oggettivamente dure
le condizioni generali in Russia nel'42) e auspica che, comunque,
la loro sorte chiarisca le idee a qualcuno in Italia sulla
funzione e il significato del fascismo. Certo, nella
seconda versione si capisce che, a tal fine, i prigionieri
italiani lui li avrebbe visti più volentieri vivi che morti,
ma non è che dalla prima si dovesse evincere per forza
l'invito a sterminarli tutti. Il fatto che storici a mezzo
servizio, giornalisti proni al potere, politici faziosi e altri
servi della reazione abbiano pasticciato quel testo, confondendo le
fotocopie, ritoccando i margini e ripassando a penna le parole che
non leggevano bene, mi sembra più una
dimostrazione di miseria professionale, analfabetismo di ritorno e
generico disinteresse per la verità, che di autentica volontà
falsificatoria. In realtà,
l'unico punto su cui sarei pronto a giurare che il falsificatore è
intervenuto in quanto tale, in cui proprio non è possibile
prendere per buono tutto quel pietoso balbettio su fax poco chiari
e scherzi della memoria è quello strano accenno al "divino
Hegel", poi ridimensionato in "vecchio Hegel". Lo
scambio dei due aggettivi è paleograficamente impossibile e
mi sembra difficile che siano associabili in modo da permettere uno
scambio inconscio. Ma anche questo particolare interessa
soprattutto per quel che rivela sulla mentalità di chi ha
ripescato la lettera dagli archivi
di Mosca. Togliatti cita Hegel per introdurre, un po' di soppiatto,
un concetto discutibile, quello della giustizia immanente nella
storia (la sorte dei soldati dell'ARMIR funge, in certo modo, da
nemesi per le colpe dell'imperialismo italiano), ma sa che è
un concetto, appunto, discutibile, e glissa un po'. Cita sì
Hegel, perché un'autorità cui appoggiarsi, quando si
dicono certe cose, fa sempre comodo, ma sfuma la citazione.
L'aggettivo "vecchio" è una tipica sfumatura: indica
al tempo stesso apprezzamento e presa di distanza. Capirete: se cito
Hegel e basta, il mio è il richiamo a un principio
d'autorità, se cito "il vecchio Hegel" è
solo un riferimento colto, elegantemente sospeso. Sì, lui
lo dice, ma io non mi comprometto più che tanto. Se cito il "divino
Hegel" naturalmente, mi appiattisco sull'autorità e
sono degno del massimo biasimo. Ma visto che
Togliatti quell'aggettivo non l'ha usato (e sarebbe bastato un
minimo di familiarità con il suo stile, e con i classici del
marxismo, per capire che difficilmente avrebbe potuto usarlo), vuol
dire che qualcuno lo ha ripescato dal proprio personale
retrobottega ideologico e ce lo ha proprio voluto applicare,
forzando il testo, a rischio di andare anche stilisticamente sopra
le righe e denunciare così il proprio falso con un'ingenuità
che un falsificatore provetto non si sarebbe mai concesso. Infatti è
stato proprio quel "vecchio" al posto di "divino",
che ha colpito l'attenzione del buon Giulietto Chiesa negli
archivi di Mosca. Un caso di malafede e
d'inettitudine, dicevo. Si poteva benissimo attaccare Togliatti
sulla base dell'aggettivazione "vecchio" o, accusandolo,
appunto, di sfumare un po' troppo, di dire e non dire, di citare
un'autorità e contemporaneamente di prenderne le distanze,
di indulgere a fatue finezze in punta di penna di fronte a
un'immane tragedia nazionale: ricalcando, insomma, quella che è
l'imputazione standard che da anni a Togliatti si fa, l'accusa di
cinismo e doppiezza. Che è stata puntualmente ripresa,
certo, ma unita, per sicurezza, a quella di fanatismo e riverenza
ideologica, che sono appunto due qualità che i cinici e i
duplici non si possono permettere. Ma queste sono finezze
che certa gente non capisce. Beh, per tornare al
nostro punto di partenza ammetterete che l'atteggiamento del
colonnello Menghistu era molto più corretto. Lui sapeva che
spesso i morti, come avversari politici, sono più pericolosi
da morti che da vivi, e considerava mossa sagace confinarli
definitivamente nella loro sede ultraterrena, onde precluderne
imbarazzanti ritorni. I suoi equivalenti nazionali, le guide
indiscusse del nostro infelice paese, sono di tutt'altra
pasta. Loro i vecchi nemici nell'oltretomba non li vogliono proprio
lasciare. Fanno tutti i possibili sforzi per richiamarli in vita,
perché ritornino nell'arengo politico e (essendo morti) si
lascino docilmente infilzare, a maggior gloria di quanti li
evocano. Ed è abbastanza chiaro perché: tutta la
classe di governo italiana del dopoguerra si è definita
dialetticamente sulla grande bugia del 18 aprile, sulla necessità
di opporsi alla spinta eversiva del comunismo e alla volontà
prevaricatrice dell'Unione Sovietica sul piano internazionale. I
suoi esponenti hanno saputo creare una (pessima) cultura di
governo, e cementare una fin troppo solida rete di interessi
materiali, ma non si sono mai preoccupati di motivare loro
egemonia sul piano dei valori, di creare un sistema di
riferimenti ideologici in cui il cittadino
potesse rispecchiarsi senza provare un senso di profonda vergogna.
Della contrapposizione con il comunismo ateo e antidemocratico,
costoro hanno sempre più bisogno, anche dopo che il
movimento comunista è andato a gambe all'aria e l'Unione
Sovietica ha chiuso per deficit. Per i nostri governanti,
Togliatti è come il Dio di Kant: se non ci fosse stato si
sarebbe dovuto inventarlo. Di quel nemico hanno bisogno, perché
non saprebbero giustificare in altro modo la loro esistenza.
Che volete che vi
dica? A me resta più simpatico il colonnello Menghistu. Era
un tiranno, certo, ma almeno si qualificava per tale. Chi ha
bisogno, per affermare i propri sporchi progetti, di richiamare in
scena le ombre del passato, non si limita a non tener conto del
principio di non contraddizione, che anche in politica ha un certo
valore. Il fatto è che non si rende conto che chi si
accapiglia con i morti finisce con il trovarsi appiccicata addosso
una certa puzza di cadavere.