Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 22 nr. 189
marzo 1992


Rivista Anarchica Online

Le ossa del Negus
di Carlo Oliva

Sarà una bizzarria, di cui mi scuso fin d'ora, ma confesso di essere stato colpito dalla quasi coincidenza di due episodi che, pur non avendo apparentemente nulla a che fare l'un l'altro, mi sembra possano essere utilmente accostati. Mi riferisco, da un lato, alla nota polemica sulla lettera di Palmiro Togliatti a Vincenzo Bianco e, dall'altro, al rinvenimento, pochi giorni dopo, delle ossa dell'ex imperatore d'Etiopia Haylah Sellase, seppellite sotto una vasca da bagno nell'ufficio di un aiutante da campo del colonnello Menghistu, ex dittatore del paese.
Secondo la versione del movimento monarchico Moa Ambessa, avvalorata dall'attuale governo etiopico, il corpo del re dei re, discendente diretto di Salomone e della Regina di Saba, Leone Vittorioso della Nazione di Giuda, morto per cause ignote il 27 agosto 1975 , era stato seppellito in segreto in quell'insolita ubicazione per evitare manifestazioni antigovernative e per "assicurarsi che il morto non tornasse più dall'oltretomba".
Palmiro Togliatti, invece, è stato seppellito con gran pompa e vasta partecipazione di popolo nell'agosto 1964: i suoi funerali sono stati eternati nel quadro di un celebre artista e su di essi registi di vaglia hanno girato un film. Ma nell'oltretomba, a quanto sembra, non lo si vuole proprio lasciare.
Dopo quasi trent'anni (cinquanta dai fatti cui ci si riferisce) ci si ostina a farne un protagonista del dibattito contemporaneo. Evidentemente, i politici italiani condividono con il colonnello Menghistu la convinzione, già espressa da Omero (Iliade V, 302l/303), che la statura degli uomini del passato sia molto maggiore di quella dei contemporanei, anche se non ne traggono le stesse indicazioni operative.
Uno strano episodio, quello del riciclaggio della lettera a Bianco. Strano, soprattutto, perché fondato su un'evidente forzatura. Io, vi dirò, ai suoi tempi Togliatti non lo potevo soffrire, ma anche allora avrei considerato quel documento abbastanza normale, affatto immeritevole di tanto cancan. In fondo, basta una mediocre conoscenza della storia per convenire che difficilmente il poveraccio, sul problema dei prigionieri italiani in Russia, avrebbe potuto dire qualcosa di diverso. Anzi. Nel complesso la sua sembra una posizione abbastanza equilibrata, e persino coraggiosa, tenendo presente che a Mosca nel'42 un dirigente politico a qualsiasi livello doveva esprimersi con parecchia cautela. E non mi sembra neanche che la seconda versione, quella autentica, sia molto diversa dalla prima, disinvoltamente manipolata non si sa bene se dal professor Andreani o da chi altri.
A parte le sfumature, che dipendono in gran parte da chi legge, il senso delle due versioni è sempre lo stesso. Togliatti dichiara che a favore dei prigionieri italiani di Russia non può fare praticamente nulla: si rammarica perché la loro condizione è "oggettivamente" assai dura (com'erano oggettivamente dure le condizioni generali in Russia nel'42) e auspica che, comunque, la loro sorte chiarisca le idee a qualcuno in Italia sulla funzione e il significato del fascismo. Certo, nella seconda versione si capisce che, a tal fine, i prigionieri italiani lui li avrebbe visti più volentieri vivi che morti, ma non è che dalla prima si dovesse evincere per forza l'invito a sterminarli tutti. Il fatto che storici a mezzo servizio, giornalisti proni al potere, politici faziosi e altri servi della reazione abbiano pasticciato quel testo, confondendo le fotocopie, ritoccando i margini e ripassando a penna le parole che non leggevano bene, mi sembra più una dimostrazione di miseria professionale, analfabetismo di ritorno e generico disinteresse per la verità, che di autentica volontà falsificatoria.
In realtà, l'unico punto su cui sarei pronto a giurare che il falsificatore è intervenuto in quanto tale, in cui proprio non è possibile prendere per buono tutto quel pietoso balbettio su fax poco chiari e scherzi della memoria è quello strano accenno al "divino Hegel", poi ridimensionato in "vecchio Hegel". Lo scambio dei due aggettivi è paleograficamente impossibile e mi sembra difficile che siano associabili in modo da permettere uno scambio inconscio. Ma anche questo particolare interessa soprattutto per quel che rivela sulla mentalità di chi ha ripescato la lettera dagli archivi di Mosca. Togliatti cita Hegel per introdurre, un po' di soppiatto, un concetto discutibile, quello della giustizia immanente nella storia (la sorte dei soldati dell'ARMIR funge, in certo modo, da nemesi per le colpe dell'imperialismo italiano), ma sa che è un concetto, appunto, discutibile, e glissa un po'. Cita sì Hegel, perché un'autorità cui appoggiarsi, quando si dicono certe cose, fa sempre comodo, ma sfuma la citazione. L'aggettivo "vecchio" è una tipica sfumatura: indica al tempo stesso apprezzamento e presa di distanza. Capirete: se cito Hegel e basta, il mio è il richiamo a un principio d'autorità, se cito "il vecchio Hegel" è solo un riferimento colto, elegantemente sospeso. Sì, lui lo dice, ma io non mi comprometto più che tanto.
Se cito il "divino Hegel" naturalmente, mi appiattisco sull'autorità e sono degno del massimo biasimo. Ma visto che Togliatti quell'aggettivo non l'ha usato (e sarebbe bastato un minimo di familiarità con il suo stile, e con i classici del marxismo, per capire che difficilmente avrebbe potuto usarlo), vuol dire che qualcuno lo ha ripescato dal proprio personale retrobottega ideologico e ce lo ha proprio voluto applicare, forzando il testo, a rischio di andare anche stilisticamente sopra le righe e denunciare così il proprio falso con un'ingenuità che un falsificatore provetto non si sarebbe mai concesso. Infatti è stato proprio quel "vecchio" al posto di "divino", che ha colpito l'attenzione del buon Giulietto Chiesa negli archivi di Mosca.
Un caso di malafede e d'inettitudine, dicevo. Si poteva benissimo attaccare Togliatti sulla base dell'aggettivazione "vecchio" o, accusandolo, appunto, di sfumare un po' troppo, di dire e non dire, di citare un'autorità e contemporaneamente di prenderne le distanze, di indulgere a fatue finezze in punta di penna di fronte a un'immane tragedia nazionale: ricalcando, insomma, quella che è l'imputazione standard che da anni a Togliatti si fa, l'accusa di cinismo e doppiezza. Che è stata puntualmente ripresa, certo, ma unita, per sicurezza, a quella di fanatismo e riverenza ideologica, che sono appunto due qualità che i cinici e i duplici non si possono permettere.
Ma queste sono finezze che certa gente non capisce.
Beh, per tornare al nostro punto di partenza ammetterete che l'atteggiamento del colonnello Menghistu era molto più corretto. Lui sapeva che spesso i morti, come avversari politici, sono più pericolosi da morti che da vivi, e considerava mossa sagace confinarli definitivamente nella loro sede ultraterrena, onde precluderne imbarazzanti ritorni. I suoi equivalenti nazionali, le guide indiscusse del nostro infelice paese, sono di tutt'altra pasta. Loro i vecchi nemici nell'oltretomba non li vogliono proprio lasciare. Fanno tutti i possibili sforzi per richiamarli in vita, perché ritornino nell'arengo politico e (essendo morti) si lascino docilmente infilzare, a maggior gloria di quanti li evocano. Ed è abbastanza chiaro perché: tutta la classe di governo italiana del dopoguerra si è definita dialetticamente sulla grande bugia del 18 aprile, sulla necessità di opporsi alla spinta eversiva del comunismo e alla volontà prevaricatrice dell'Unione Sovietica sul piano internazionale. I suoi esponenti hanno saputo creare una (pessima) cultura di governo, e cementare una fin troppo solida rete di interessi materiali, ma non si sono mai preoccupati di motivare loro egemonia sul piano dei valori, di creare un sistema di riferimenti ideologici in cui il cittadino potesse rispecchiarsi senza provare un senso di profonda vergogna. Della contrapposizione con il comunismo ateo e antidemocratico, costoro hanno sempre più bisogno, anche dopo che il movimento comunista è andato a gambe all'aria e l'Unione Sovietica ha chiuso per deficit. Per i nostri governanti, Togliatti è come il Dio di Kant: se non ci fosse stato si sarebbe dovuto inventarlo. Di quel nemico hanno bisogno, perché non saprebbero giustificare in altro modo la loro esistenza.
Che volete che vi dica? A me resta più simpatico il colonnello Menghistu. Era un tiranno, certo, ma almeno si qualificava per tale. Chi ha bisogno, per affermare i propri sporchi progetti, di richiamare in scena le ombre del passato, non si limita a non tener conto del principio di non contraddizione, che anche in politica ha un certo valore. Il fatto è che non si rende conto che chi si accapiglia con i morti finisce con il trovarsi appiccicata addosso una certa puzza di cadavere.