E' uno dei dati
"nuovi" dello stantio panorama politico-elettorale
nostrano. Dal patto di Segni
al partito degli onesti di a Malfa, fino alla nuova lega proposta da
Scalfari. Eppure, nonostante
tanto clamore, di nuovo e veramente interessante c'è davvero
poco. Quasi niente
La trasversalità
in politica è davvero ormai una moda. Ma prima di diventare
una moda era già un dato di fatto. Da tempo
i partiti tradizionali hanno cessato di essere punti forti di
identificazione ideologica, mentre ora si qualificano piuttosto per
scelte relative al periodo delle segreterie di turno. In altre
parole non sono più da tempo poli aggregativi con la funzione
organizzata di realizzare idee forza, che ne facevano la vera
ragion d'essere. Quando sorsero, i loro aderenti abbracciavano
innanzitutto l'idea, o l'ideale che dir si voglia. Così,
prima di ogni altra cosa, i repubblicani credevano nella giustezza
dell'ideale repubblicano, i socialisti nel socialismo, i cristiani in un
cristianesimo realmente democratico, i comunisti nell'avvento
millenaristico del comunismo; l'adesione abbracciava l'utopia
ammantata da forti tensioni etiche. Solo dopo si entrava a far parte
dell'organizzazione di parte, cioè il partito, il quale, per
le sue scelte operative e ideali, tendeva a portare avanti
proposizioni coerenti con l'idea di cui era il portavoce
legittimo. Storicamente è questa, non altra,la genesi dei
partiti. Oggi la loro struttura
fisiologica non è più quella genetica. In questa
sede non ci interessa analizzare come se ne è determinato il
mutamento, ma ci basta constatare il dato di fatto che non si tratta
più di organizzazioni di parte, portatrici legittime di
ipotesi e visioni ampie, atte a realizzare alternative politiche. Ci limitiamo a dire
che, nel tempo, ha preso piede ciò che era latente al loro
sorgere, talmente connesso e intrinseco al loro modo di essere,
che ne ha determinato un cambiamento irreversibile, snaturandone
per sempre il senso originario. Si tratta del distacco
istituzionalizzato tra i ruoli dirigenti e la base che dovrebbero
rappresentare. Un distacco talmente forte, che nella pratica
quotidiana a lungo andare è divenuto una vera e propria
lacerazione, non solo con la base stessa, ma soprattutto con
l'ideale di riferimento. Così hanno avuto la meglio le
scelte trasformiste delle varie segreterie e dei vari comitati
centrali che, in assenza totale di un controllo e di un rapporto
reali con le rispettive basi, hanno finito per fare letteralmente i
fatti loro, fino a non essere più portavoce delle idee
per cui i partiti erano sorti. Venuta meno
l'identificazione legata all'idea di partenza, di conseguenza ha
preso piede la cosiddetta trasversalità. Oggi, forti del
consenso quantitativo espresso sia dagli iscritti che
dall'elettorato, gli ex-partiti sono più che altro degli
apparati di potere, ben radicati all'interno del sistema di dominio
vigente, ma le cui scelte non hanno più niente a che vedere,
se non casualmente, con ciò che ancora simbolicamente
rappresenta il loro nome. Non essendo più
differenziati dal senso ideale, che era una vera e propria
identificazione specifica, facilmente possono convergere su alcuni
punti delle loro scelte momentanee, come con la stessa facilità
possono divergere, senza che ciò abbia più nulla a che
fare con le scelte di fondo che li distinguevano. Ecco allora
sorgere e definirsi la cosiddetta trasversalità,
consistente nelle convergenze specifiche che appartengono
indifferentemente a uomini di diversi apparati partitici, mentre
per altre cose, senza contraddirsi, possono benissimo trovarsi su
fronti contrapposti.
Primi, i radicali
Intendiamoci bene, a
mio avviso questo fatto non è di per sé né un
bene né un male; più semplicemente è, e ne
prendo atto. Ciò che veramente mi importa è capire cosa
succede sullo scacchiere politico, possibilmente senza apriorismi
o pregiudizi. Il mio giudicare del resto, sia come persona sia come
individuo che ha abbracciato l'ideale anarchico, è
genericamente antitetico alle forme del partito, che da sempre
considero ingabbianti e fuorvianti rispetto al tipo di
realizzazioni sociali cui auspico. Giudicare come se fosse un male
quella che può essere considerata una degenerazione dei
partiti, vorrebbe dire che a suo tempo mi ero illuso su ciò
che avrebbero potuto fare, magari cose utili e confacenti alle
prospettive sociali del mio immaginario. Mentre da essi non mi
sono mai aspettato nulla che mi coinvolgesse. Le loro evoluzioni, o
involuzioni che dir si voglia, mi lasciano indifferente dal punto
di vista del coinvolgimento, quindi nel giudizio di bene e di male
che ne potrei dare. I primi che in Italia
hanno teorizzato e tentato di realizzare la trasversalità,
dimostrando un notevole intuito, sono stati i radicali; ma non sono
riusciti a scalfire la partitocrazia, né sono ormai più
una forza che conta. Anche i verdi da subito si sono sentiti
trasversali, più come fatto definitorio che come vera
strategia politica però; affermano di non appartenere né
alla destra né alla sinistra e pensano di non essere un vero
partito. Di fatto, anch'essi sono rimasti ai margini, forse perché
non hanno né voluto né saputo proporre un'idea forza
che li identificasse quali propugnatori di una
strutturazione sociale alternativa, come nemmeno sono riusciti a
raccogliere uomini e tendenze che si sentono verdi all'interno dei
partiti. In questo senso la partitocrazia è stata astuta,
perché, senza teorizzarlo, si è servita delle pratiche
trasversali ai propri fini spartitori e clientelari, mettendo in
atto, di volta in volta bellamente, alleanze, accordi e
patteggiamenti funzionali al mantenimento del potere già
posseduto. All'interno di questo
processo che ha inesorabilmente investito le forze politiche
tradizionali, generatore sembra, almeno secondo la visione proposta
quotidianamente dai mass-media, di un diffuso malcontento al
livello delle masse che dovrebbero continuare ad assicurarne il
consenso, si colloca l'ultimo tentativo di forza trasversale che
Samarcanda, con notevole acume propagandistico, ha tradotto con lo
slogan "il partito che non c'è". Al di là
delle sue dichiarazioni, personalmente l'ho visto come una quasi
proposta, anzi una finta proposta, abbastanza scopertamente
pretenziosa, sorretta dall'intento, non detto chiaramente, di formare
un'aggregazione nuova per un'eventuale futura alternativa di
governo. Si tratta del patto
proposto dal democristiano Mario Segni ai candidati alle prossime
elezioni politiche, finalizzato alle riforme elettorali e del
parlamento e per limitare l'invadenza dei partiti nelle
istituzioni. Una sorta di giuramento politico che, nelle intenzioni,
dovrebbe condizionare i candidati prima di essere eletti, non
importa a quale partito appartengano, impegnandoli appunto ad
essere coerenti con gli impegni assunti, anche contro eventuali
e future scelte del partito di cui sono parte. Questo patto fa
seguito alla proposta del segretario repubblicano La Malfa per il
partito degli onesti ed a quella, lanciata attraverso il quotidiano
La Repubblica, del suo direttore Eugenio Scalfari per una lega
nazionale atta a realizzare le riforme e a moralizzare la vita
politica nazionale. Sia La Malfa che Scalfari si sono poi detti
consenzienti col patto di Segni. Tutte e tre le proposte, di cui
la più articolata è senz'altro quella del
democristiano, più che a fondare un nuovo partito tendono ad
aggregare trasversalmente le forze "buone", gli onesti
appunto, di ogni partito senza esclusione di
sorta, al fine di superare lo stallo dell'attuale classe politica,
di chiaro stampo forlaniano-craxiano-andreottiano.
Come un'azienda
Le caratteristiche di
questa nuova tendenza trasversale sembrano sostanzialmente due. La
prima è la non messa in
discussione delle identità partitiche esistenti, forse perché
ormai sono soprattutto clientelari e affaristiche, non più
ideologiche. La seconda è la costituzione di una specie di
lobby che attraversi letteralmente le forze politiche, con
l'illusione di ridare dignità etica e spessore politico
all'azione delle stesse, attraverso una poco definita opera
riformatrice. Una nuova tendenza che si definisce e tenta di
costituirsi non attraverso nuovi assunti ideologici, bensì
sul terreno della rifondazione dell'etica nella politica. Personalmente non
azzardo previsioni sulla sua sorte futura, ma soprattutto non mi
interessa giudicarla sulla base di eventuali successi o insuccessi. Sono comunque convinto
che non farà molta strada, almeno se rimane nei termini in
cui si è definita, perché la ritengo molto debole alla
radice. Infatti non si pone né programmaticamente né
strategicamente in una logica innovativa, capace di dare spazio a un
nuovo modo di essere nella politica fattiva. Inoltre non ha una
visione di ampio respiro, in grado di proiettarsi oltre i ristretti
confini del presente. Bensì volontariamente vi si colloca
all'interno e assume come dato di fatto irrinunciabile l'attuale
stato di cose. Più semplicemente e, aggiungerei,
semplicisticamente, si pone l'obiettivo di renderlo migliore e più
efficiente. E' una logica di aggiustamento del transatlantico, non
messo in discussione, perché parte dal presupposto che ha
solo bisogno di essere rammodernato, attraverso modalità
diverse di voto, con un parlamento fornito di procedure più snelle e possibilmente
monocamerale, con una gestione pubblica più tecnica e
manageriale, non più partitica. In sostanza mi sembra una
ristrutturazione, come nel caso di un'azienda non più
competitiva, che viene resa più efficiente nella produzione
e nella distribuzione del prodotto finito, mentre rimane intatto
tutto il contesto sociopolitico che fa sì che continui ad
essere luogo di sfruttamento, di divisione sociale, di produzione
di privilegi e di ingiustizie. Uno sguardo più
ampio rivelerebbe che il problema da risolvere non è quello
della competizione sul mercato, legato al profitto, ma quello della
giustizia sociale, di un'equa distribuzione della ricchezza e, non
ultimo, quello della libertà.