Scrivo per esprimere la mia fondamentale solidarietà con
le idee principali contenute nella lettera del compagno Antonio
Pasquale, pubblicata nel n. 183 della Rivista Anarchica. Data la
mia scarsa familiarità con la lingua italiana, devo
specificare che la mia espressione di solidarietà con i
contenuti della lettera del compagno Pasquale si basa su di una
traduzione non perfetta di quanto vi è esposto, ma il
punto di vista espresso dalla lettera è tale che, per quanto
sono in grado di giudicare, lo sosterrei senz'altro anch'io se
facessi parte del movimento italiano. E' chiaro che con il crollo
del socialismo statale e dei movimenti ad esso collegati, come il
PCI, si è aperto un vuoto nella vita politica italiana. Da
quello che ho potuto ricavarne leggendo la stampa americana,
milioni di italiani nutrono una profonda diffidenza verso lo stato
centralizzato e sembrano aspirare, anche se in maniera vaga, ad una
maggiore democrazia a livello locale e ad una accentuazione delle
autonomie regionali. Ritengo che il movimento anarchico italiano si
trovi ad avere a portata di mano una rara, forse addirittura
storica, opportunità - l'opportunità di portare
il municipalismo libertario, con la sua accentuazione anarchica
della democrazia locale e del confederalismo regionale, al centro
dell'attenzione politica italiana. Forse, oggi più che mai
nel nostro recente passato, i nostri compagni hanno un'occasione per
dare nuovo vigore alle migliori idee di Proudhon e in particolare
alla sua idea finale di una "Comune dei comuni" - se
saranno pronti ad assumersi la responsabilità di coraggiose
iniziative politiche, anche a livello elettorale locale,
mirate alla creazione di assemblee pubbliche e di confederazioni di
cittadine e città contro lo stato-nazione e le forme
reazionarie di "regionalismo". Mi è fin troppo
familiare l'argomento con il quale molti nostri compagni obiettano
alla validità della proposta di un municipalismo
libertario in Italia: la forte penetrazione dello stato-nazione
nelle città italiane, le distinzioni di classe tra le
varie municipalità e le difficoltà dell'applicazione
del municipalismo libertario in metropoli come Milano e Roma. Ma
a questi problemi bisognerebbe guardare come a delle sfide con le
quali ci si deve confrontare nel corso di lotte e non
come ineluttabili "fatti della vita" ai quali ci
dobbiamo passivamente rassegnare. Perché porsi come obiettivo
la fine del capitalismo, che come imponente sistema sociale pone
degli ostacoli molto più impegnativi ai nostri sforzi -
per poi, magari, ritirarsi in una vita marginale, che ci separa
completamente dalla sfera pubblica? Dobbiamo forse ignorare che
la gente soffre quotidianamente gli effetti del collasso
ecologico, dell'alienazione, della costante sottrazione dei
propri poteri, del fardello della burocrazia, problemi che aprono la
possibilità di una nuova politica, in cui il nostro
approccio libertario, decentralinista e confederale, con la sua
accentuazione di una democrazia partecipativa, possa registrare una
significativa risposta, perfino una risposta di massa, da parte
della gente lungo tutta la penisola italiana? Sono fortemente
preoccupato del fatto che molti compagni guardino al municipalismo
libertario come ad un equivalente del "parlamentarismo"
e dello statalismo. Niente è più lontano dalla
verità di questo atteggiamento. Perfino Bakunin, nel 1870,
era preparato a distinguere tra la sfera municipale della vita
politica e lo stato-nazione: "(La gente) dimostra un salutare,
pratico buon senso quando deve occuparsi di questioni a livello
comunale. E' sufficientemente bene informata e sa come
selezionare al suo interno i funzionari più capaci. Questa è
la ragione per cui le elezioni municipali sono quelle che
riflettono sempre meglio quali sono la posizione e la volontà
reale della gente".
Ad essere sinceri, io stesso non andrei così lontano: il
municipalismo libertario punta ad una ristrutturazione più
radicale delle municipalità rispetto a quella prevista da
Bakunin, anche se è interessante quanto i nostri teorici
"fondatori" fossero più flessibili alla fine del
secolo scorso, di quanto non lo siano i loro seguaci al giorno
d'oggi. E' così forte la paura di una politica localista, di
qualsiasi tipo essa sia - di sorpassare la mistica linea di
demarcazione tra "non votare" e "votare" - che
il rifiuto della attività elettorale, anche se limitata alla
località in cui si vive, è diventato un dogma
paralizzante. Sarebbe una terribile prova della nostra impotenza, se
il vuoto venuto a crearsi venisse riempito non dagli anarchici, ma
dalle leghe "populiste" che mescolano
federalismo, autodeterminazione, regionalismo e controllo diretto
della società con razzismo e opportunismo, l'obiettivo di
una maggiore produttività industriale e delle politiche
fiscali egoistiche. La mia opinione è che, per il nostro
movimento, la scelta di rimanere ai margini degli attuali sviluppi
in corso in Italia, a causa di un dogmatico "antielettoralismo",
grossolanamente confuso con l'"antiparlamentarismo",
sarebbe un grave errore politico e morale. Mi dispiace che i
compagni italiani non abbiano accesso ai miei recenti libri sul
municipalismo libertario, che cercano di esplorare in profondità
le differenze tra una nuova politica basata sul livello locale e
il parlamentarismo basato sullo stato-nazione. Purtroppo,
l'"alternativa" di cui si è parlato nel n.183 della
Rivista Anarchica e dalle edizioni Eleuthera,
consiste in un confuso corpo di idee denominato "bioregionalismo".
Mi riferisco in particolare a Le regioni della natura di
Kirpatrick Sale edito da Eleuthera (una traduzione insoddisfacente
del titolo originale inglese, come esporrò in breve più
avanti). L'irrisione del compagno Pasquale all'istanza delle
leghe "populiste, di "uno stato più piccolo in modo
che noi possiamo così controllare meglio le tasse e tutto
andrà bene" potrebbe essere con altrettanta efficacia
indirizzata al "bioregionalismo" di Sale, senza parlare
poi di tutta la sua retorica ecologica. Quando il compagno
Pasquale dice che dovremmo chiedere alle leghe di spiegare il
contenuto politico delle "piccole entità" a cui si
riferiscono, la stessa domanda potrebbe essere posta a Sale, che
confonde crusca e farina e accosta le nozioni più generiche,
frutto di tendenze completamente contraddittorie all'interno del
movimento ecologista. Nel libro di Sale si parla in continuazione
dei mali della gerarchia, dell'etica della complementarità,
della comunità come luogo in cui vengono prese le decisioni,
della cittadinanza, di una "legge della diversità" -
in breve, una schiera di idee rubate dall'ecologia sociale - ma non
vi si trova una vera politica. Quando si cerca di cogliere il
nocciolo del pensiero "bioregionalista" di Sale, si scopre
che "il concetto di scala in fondo (è) l'unica
determinante critica e decisiva di tutte le strutture
umane, siano essi edifici, sistemi o società, (i corsivi sono
miei - M.B.). Ci si potrebbe ragionevolmente domandare in cosa
questa generica "struttura" differisca dalle idee
avanzate dalle leghe "populiste".
Se il "bioregionalismo" emerge nel nostro movimento come
alternativa al municipalismo libertario, il nostro movimento farà
un grosso passo indietro - assumendo in pratica una posizione
passiva di fronte ad una situazione che sembra raggiungere in Italia
le dimensioni di una crisi. Cosa è, in fin dei conti, una
"bioregione", nel vocabolario di Kirpatrick Sale? Sale,
che negli Stati Uniti viene considerato come colui che ha dato la
definizione più "concisa" del termine, descrive
la "bioregione" come un luogo definito dalle sue forme di
vita, dalla sua topografia, piuttosto che dai dettami umani; una
regione governata (!) dalla natura e non dalla legislatura. Anche
se sembra una formulazione "antiparlamentarista" ("non
una legislatura"), in realtà Sale e i "bioregionalisti"
americani hanno largamente subordinato gli esseri umani, la cultura,
la lingua, le condizioni sociali e la società stessa ad un
rozzo naturismo che, nei fatti, distoglie l'attenzione del lettore
dalla necessità di un'azione politica. Se si guarda dietro
alla melma delle idee che combinano ecologia sociale ed "ecologia
profonda", il secolarismo con il misticismo, il malthusianismo
con la pietà cristiana (le idee di James Lovelok, l'inventore
dell'ipotesi "Gaia" che è un rozzo malthusiano,
mischiate a quelle del Rev. Thomas Berry, che predica una forma
revisionata di ecologismo religioso), una dose massiccia di teorie
sulle leggi naturali con un pizzico di teoria anarchica, si scopre
che il mondo dovrebbe restare affascinato non dai "dettami
umani", ma da una nozione mistica, perfino deificata, della
"Natura". Nel mondo di "Gaia" a cui fanno
riferimento i "bioregionalisti" americani - tra i quali di
sicuro vi è anche Sale - gli esseri umani sono dei meri
"coinquilini" dei topi, delle zanzare, dei conigli,
oppure, se vi piacciono le specie più eroiche, dei lupi, dei
grizzly e delle balene. Non sorprende quindi il fatto che
l'edizione originale americana del libro di Sale sia misticamente
intitolata Dwellers in the land (Gli abitatori della
terra) - vale a dire che noi "dimoriamo" sulla terra,
non ci viviamo in una maniera attiva - un modo di esprimersi
passivamente ricettivo del vocabolario di Heidegger, che ha
contaminato una buona fetta del movimento ecologista americano nel
corso degli anni più recenti con la sua disapprovazione del
concetto di specie umana come unica nel suo genere e come
potenzialmente razionale.
Non sorprende allora che, alcuni anni fa, un congresso
bioregionale abbia nominato o eletto tra le sue fila dei
"rappresentanti" incaricati di fare da "portavoce"
per le piante, gli uccelli, i mammiferi e così via, i
quali, nella stravagante teoria "bioregionale" sono
"cittadini" della "comunità bioregionale"
alla pari degli esseri umani. Non ci sorprende nemmeno che nessun
esponente del movimento "bioregionalista" degli Stati
Uniti sia sufficientemente sicuro di cosa sia una "bioregione",
perlomeno in termini strettamente naturalistici. Uno spartiacque? Un
lago o un gruppo di laghi simili? Una catena di montagne? Una
valle? Cosa allora? Molte di queste definizioni biofisiche possono
essere nel Nord America così ampie da includere grandi aree
dell'Europa occidentale, come la "bioregione" dei Grandi
Laghi o le praterie dell'ovest. Non è questa la sede in
cui posso sperare di esporre una critica dettagliata del
"bioregionalismo" - ovviamente nella versione che ne danno
negli Stati Uniti un Kirpatrick Sale o molti altri "bioregionalisti"
bene intenzionati. A rischio di ripetermi, vorrei sottolineare
ancora una volta che le teorie sul bioregionalismo, così come
è inteso negli Stati Uniti, dove tale concetto è stato
formulato per la prima volta da Allen Van Newkirk - una persona del
tutto a posto, ma un po' ingenua che ho conosciuto personalmente
negli anni '60 - distolgono gli attivisti del movimento
ecologista dall'azione sociale, indirizzandoli verso una forma di
pastoralismo d'evasione. Negli Stati Uniti, dove non incombono
all'orizzonte minacce di serie crisi, saremo forse in grado di fare
fronte a queste futilità, ma per gli anarchici italiani
sostituire il municipalismo libertario con questo tipo
di naturalismo sarebbe, a mio parere, un errore dalle serie
conseguenze. In Italia vi trovate ad affrontare, cari compagni,
una crisi seria, che può portare ad una delegittimazione
dello stato-nazione. La tendenza popolare alla decentralizzazione e
al regionalismo richiedono un'azione politica che sia coerente con i
nostri principi anarchici e non una ritirata nel pastoralismo
"bioregionale". Se la sinistra libertaria non è in
grado di rappresentare uno sfogo adeguato a questi impulsi
potenzialmente anarchici, con un programma ricco e con delle analisi
sociali che possano essere tradotte in un'azione concreta, la destra
aumenterà il suo ascendente e ci relegherà ai margini.
Andremo incontro, ahimè, ad un'ennesima sconfitta causata da
una rigidità e da una inflessibilità dogmatiche.
Murray Bookchin (Burlington - USA) (traduzione
di Andrea Ferrario)