Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 21 nr. 183
giugno 1991


Rivista Anarchica Online

Un altro anarchismo
di Giuliana Iurlano

L'apprezzabile operazione culturale degli autori di America anarchica (1850-1930), a cura di A. Donno, Lacaita, Manduria 1990, secondo volume sull'anarchismo americano (il primo era uscito nel 1987 presso lo stesso editore col titolo La sovranità dell'individuo) si caratterizza, soprattutto, per il tentativo di scandagliare un filone di ricerca poco conosciuto in Italia e sul quale, purtroppo, ha pesato da sempre un giudizio negativo che, più che essere storico, risultava troppo spesso soltanto ideologico. Se da qualche tempo, tuttavia, l'attenzione degli studiosi è stata rivolta più frequentemente ai movimenti e alle teorie anarchiche europee, non altrettanto accadeva per quella corrente di pensiero che ha caratterizzalo l'800 americano e che si presentava come native american anarchism, un filone estremamente interessante nell'ambito del pensiero anarchico complessivo, la cui originalità verte in particolare sul rifiuto consapevole di alcune categorie interpretative proprie della lettura marxista del processo storico. Giustamente il curatore del volume ha ben messo in evidenza come l'affrontare tale tematica costituisca anche un'operazione culturale finalizzata a colmare uno dei tanti "vuoti" creatisi a seguito della sistematica metodicità con cui l'egemonia culturale comunista ha provveduto a distruggere qualsiasi proposta sociale "diversa". Ne deriva, perciò, una necessità di riattualizzare alcune di tali proposte, analizzandone la consistenza teorica e il loro spessore sociale, ma, soprattutto, ponendole strettamente a confronto con quelle prodotte dai movimenti anarchici europei, allo scopo di verificare se esistano eventuali punti di contatto o se, invece, la distanza sia effettivamente difficile da coprire. L'incontro tra anarco-individualismo americano e anarco-comunismo europeo non fu, effettivamente, un incontro facile: spesso comportò, da entrambe le parti, atteggiamenti di diffidenza e di chiusura, dovuti in particolar modo all'uso di due linguaggi politici differenti, a due diverse letture interpretative del futuro della società anarchica. Da un lato, infatti, gli anarchici americani insistevano soprattutto sull'aspetto specificatamente etico della loro proposta che ruotava attorno al basilare concetto di "sovranità dell'individuo" ed alla corrispondenza tra ordine morale interno dell'individuo e ordine sociale esterno della collettività (p.251): come ben afferma Nico Berti nella Postfazione, "l'individualismo anarchico americano è la prosecuzione logica ed estrema del liberalismo, dei suoi valori ultimi intesi come identificazione della libertà quale individuale libertà di coscienza, e dunque quale irriducibile momento etico... ; l'anarchismo americano è etico senza residui perché il momento etico della politica è già stato risolto dalla rivoluzione democratica come universalizzazione dei valori del liberalismo" (p. 246). Dall'altro lato, invece, gli anarchici europei poggiavano la loro proposta soprattutto sul concetto di rivoluzione, una rivoluzione che, indubbiamente, cominciava all'interno dell'uomo, ma che comportava contemporaneamente un radicale mutamento nelle condizioni sociali ed economiche esterne: in altri termini, lo spessore etico si sostanziava soprattutto attraverso la realizzazione oggettiva di una libertà esterna all'individuo, di un ambiente socio-economico in grado di consentire all'individuo stesso l'esplicazione piena delle sue potenzialità. La differenza sta, come si vede, nella consequenzialità naturale del rapporto individuo/società: per gli anarchici individualisti americani, la libertà si configurava come essenzialmente radical e l'individualismo non costituiva affatto una irruzione arbitraria e soggettiva nella realtà esterna, quanto piuttosto un riconoscimento di fondo della sua autenticità ed una estensione naturale della primaria libertà dell'individuo; per gli anarco-comunisti europei, invece, tale estensione non era affatto un processo naturale, ma richiedeva un atto rivoluzionario di fondo. In questo senso, allora, "il radicale anarchico americano era esattamente il più autentico antirivoluzionario sociale" (p. 243). Si comprende, quindi, come l'incontro, avvenuto sul terreno americano tra la fine dell'800 e i primi del '900, tra le due correnti anarchiche non sia stato un incontro facile: ciò che distanziava profondamente i due gruppi era il fatto storico preciso che costituiva la premessa di fondo delle rispettive proposte sociali, e cioè il riconoscimento che, in America, una rivoluzione c'era già stata, una rivoluzione liberal-democratica sancita dalla Dichiarazione del '76, e che - di conseguenza - si poteva prolungare il radicalismo originario che l'aveva prodotta, correggendone di volta in volta gli esiti storici che tendevano ad allontanarsi dallo spirito dei Padri Fondatori. Gli europei, che non avevano alle spalle nessuna rivoluzione riuscita o, comunque, duratura, collocavano in un futuro più o meno prossimo l'atto rivoluzionario rigeneratore dal quale sarebbe emersa la futura società anarchica e faticavano a riconoscere, al di là del rampante capitalismo di fine secolo e del mito yankee che ne era alla base, l'autentica libertà che aveva portato all'affermazione non solo teorica, ma anche reale di un sistema politico-democratico liberal che, nonostante i suoi aspetti negativi, risultava comunque correggibile e garante dei principali diritti umani. Su questa mancata simbiosi si sofferma Gianfranco Bertoli, il quale pone l'accento non solo sul problema dei mezzi per giungere ad una società anarchica - ed il rifiuto della violenza allontanò molti esponenti dell'anarchismo autoctono dagli immigrati anarchici europei seguaci di Most -, ma anche sul diverso rapporto con la religione: gli americani, in altri termini, erano e restavano figli della Riforma e la loro critica all'apparato chiesastico si nutriva di razionalismo illuministico, senza mai raggiungere i toni anticlericali e atei degli europei che avevano sperimentato nel vecchio mondo l'oppressione e la persecuzione della Chiesa. Pure in questo campo, cioè, la lezione di tolleranza derivante dal melting pot caratterizzava il filone autoctono dell'anarchismo, portandolo a differenziarsi, anche per una serie di problemi di natura psicologica, da quello di importazione, i cui esponenti tendevano a chiudersi nei gruppi etnici di appartenenza, pubblicando giornali ed opuscoli nelle rispettive lingue di origine.
Un'eccezione a questa tendenza in qualche modo separatista è costituita da Emma Goldman e Alexander Berkman, due ebrei russi emigrati in America negli anni '80 ed approdati all'anarchismo a seguito dei tragici fatti di Haymarket Square. Il saggio di Anna Rita Guerrieri sottolinea in particolar modo il "duplice punto di forza e di debolezza" degli anarco-comunisti americani, da un lato estremamente esigenti sul piano morale e, dall'altro, spesso incapaci di comprendere la realtà della classe operaia americana e le radicali trasformazioni da essa subite in quegli anni cruciali di fine secolo. Il ritratto di Berkman, delineato dall'A., è quello di un personaggio austero, "a volte quasi fanatico nella coerenza con la sua morale rivoluzionaria" (p. 42) che, portandosi in America il suo bagaglio di cultura radicale a carattere romantico-populista, è in grado di superare - anche se con estrema difficoltà - il gap psicologico derivante dalle conseguenze del suo attentato ad Henry Clay Frick della Carnegie Ass.: i 14 anni di carcere nel Western Penitentiary della Pennsylvania, il ripudio del suo gesto da parte della maggior parte dei compagni anarchici, primo fra tutti Most, ed il certamente non facile ripensamento della strategia della "propaganda del fatto" - aiutato in questo dalla Goldman che, nel frattempo, aveva avuto modo di sviluppare una sua concezione anarchica originale e, senz'altro, più vicina alla mentalità radicale americana - porteranno Berkman a rivedere anche il suo rapporto con l'anarchismo europeo e con i mezzi per giungere ad una vera società anarchica. In America, intanto, prima della sua espulsione nel 1919 da parte del governo americano sulla base dell'Espionage Act e del Sedition Act, egli si attivizzò in molti campi, dando concretezza alla sua "vocazione pragmatica" ed intervenendo costantemente nell'ambito della difesa dei diritti civili e dell'educazione (dando vita alla prima ferreriana Sunday School a New York), e facendo di "The Blast" - la sua rivista uscita nel 1916-17 - "una tappa peculiare nella storia del radicalismo americano del ventesimo secolo" (p. 51). Ma il percorso di avvicinamento al liberalism americano delle origini, pur in contesto di radicalism anarchico, diventa estremamente chiaro di fronte agli sviluppi della rivoluzione russa, e ciò non solo per gli anarco-individualisti americani, ma anche per molti rappresentanti dell'anarco-comunismo di immigrazione.
Il saggio di Antonio Donno esplora proprio questo problema, puntando in particolare sull'impossibilità di conciliare l'individualismo anarchico, adeguatamente espresso dalla Dichiarazione del '76, con la nozione di "massa", propria del marxismo e del bolscevismo: il mondo anarchico americano - scrive, infatti, l'A. - si mostrò "convintamente ostile di fronte all'ipotesi di una società che il bolscevismo andava costruendo", in quanto essa rappresentava la "negazione più completa non solo dei più elementari principi dell'anarchismo, ma dello stesso clima di tolleranza, di partecipazione individuale e di libero dibattito che aveva informato di sé il tessuto sociale americano per tutto l'Ottocento" (p. 152). Ed in questo contesto, l'atteggiamento di Berkman e della Goldman è a dir poco esemplare, in quanto ebbero entrambi "il coraggio di rivedere le loro posizioni, individuare gli errori e le tremende derive del processo rivoluzionario in Russia, opporsi senza sosta al potere leninista" (p. 157).
Non furono naturalmente i soli: accanto a loro, molti altri cercarono una plausibile spiegazione di quello che ormai palesemente si mostrava come il fallimento di un sogno rivoluzionario: le analisi si concentrarono non soltanto sugli aspetti economici (Berkman e Goldman), ma anche sugli errori conseguenti al rovesciamento del governo Kerensky (M. Kelly) e all'applicazione, ad ogni livello sociale, della pratica della centralizzazione (R. Rocker). Negli anni dal '20 al '40, l'anarchismo americano - o ciò che di esso resta negli USA, dopo la esportazione di molti anarchici immigrati - mostra un profondo disorientamento, al quale tenta di reagire puntando più sugli aspetti etico-culturali che politici propri del pensiero anarchico: è questa la tesi di Luisa Cerundolo che, attraverso l'analisi della rivista "The Road To Freedom" di Hippolyte Havel, mette in evidenza come lo scopo fondamentale dei gruppi anarchici negli anni Venti sia soprattutto quello di ribadire il loro legame con il Native American Movement, legame che, in un clima di paura e di incertezza politica, passa necessariamente attraverso principi "di pacifismo, di sovranità dell'individuo, di non-violenza e di completa apertura al dibattito politico e culturale contemporaneo" (p, 141 ).
Nel composito schieramento radical americano non poteva mancare una rilettura dell'esperienza wobbly: Claudie Roho, evidenziando analiticamente le testimonianze fornite dalle wobbly papers, ricostruisce il percorso originale del movimento degli IWW, i quali - pur facendosi portatori di concezioni tipicamente europee, basate sulle categorie marxiste di lotta di classe, rivoluzione e proletariato - si innestarono in maniera estremamente originale nel filone liberal della cultura americana, acquisendone alcuni aspetti più significativi e trasformandoli in strategie di lotta e di intervento radicale in molti campi: basti pensare all'azione diretta o alle free speech fights nell'Ovest, al movimentismo sindacale nell'Est, allo sviluppo del concetto di solidarietà e di internazionalismo di matrice esclusivamente europea. Lo stesso rifiuto per la teoria e il privilegiamento della prassi potevano trovare duplice lettura interpretativa, sia come richiamo alla concezione marxista che come prolungamento della tradizione pragmatica americana.
L'interrogativo che l'A. si pone sulla natura del movimento ("anarchici o libertari?") trova, comunque, risposta proprio in questo sfuggire a tutti i costi alle etichette di qualsiasi tipo da parte degli IWW: probabilmente, non è importante stabilire una connotazione precisa, quanto cogliere in questo movimento ideologicamente composito forme e metodi di lotta senz'altro originali e, soprattutto, "fluidi", capaci cioè di adattarsi ai vari momenti e alle varie realtà contestuali.
Una novità molto apprezzabile nel campo dei già limitati studi sull'anarchismo americano è rappresentata dal lavoro di Furio Biagini, che esamina accuratamente il ruolo degli immigrati ebrei anarchici negli Stati Uniti tra la fine dell'800 e i primi del '900, mettendo in risalto soprattutto il rapporto che si instauro tra la cultura yiddish e alcuni principi basilari dell'anarchismo; in effetti, come bene fa rilevare l'A., l'anarchismo ebraico si caratterizzò in particolar modo come anarchismo etico, come un movimento, cioè, che paradossalmente applicava da secoli il codice etico basilare della dottrina anarchica, insistendo sulla superiorità dei valori morali più che sull'uso della forza bruta, sull'amore per la libertà e la giustizia più che sulle conquiste militari e la gloria dei re, sull'insegnamento profetico di pace, giustizia e solidarietà, da realizzarsi in un nuovo regno in cui la miseria e lo sfruttamento sarebbero stati banditi per sempre, grazie al lavoro preparatorio di coloro che, in pratica e non solo nelle loro preghiere, avrebbero aperto la strada ad un cambiamento reale del mondo. Si comprende, allora, come gli immigrati ebrei, immersi per la prima volta nella violenta realtà dello sfruttamento industriale in America, ritrovassero quasi naturalmente nelle teorie radicali dell'epoca i valori tradizionali della solidarietà e del rispetto per la persona umana, che avevano da sempre costituito la base della loro educazione: in questo senso, afferma Biagini, "il ribelle e il rabbino erano più legati tra loro di quanto non potesse apparire" (p. 197).
L'altro interessante aspetto della questione affrontata dall'A. riguarda un altro paradosso, questa volta non certo "apparente": e cioè, il rapporto tra anarchismo e sionismo. Indubbiamente, il rifiuto anarchico dello stato, portava gli ebrei anarchici a rifiutare con forza l'esistenza di un problema nazionale, come sentimento consapevole di appartenenza ad un preciso popolo. Ma, quando scoppiò il progrom di Kishinev nel 1903, gli ebrei ne furono traumatizzati ed il problema dell'identità ebraica tornò immediatamente in primo piano. Gli stessi anarchici, primo fra tutti Hillel Zolotaroff, furono costretti a rivedere la loro concezione cosmopolita, anche perché contemporaneamente prendevano vita in Palestina i Kibbutzim, i primi esperimenti comunitari socialisti, che esercitarono particolare fascino sugli anarchici ebrei, che in essi vedevano "l'embrione di una futura società basata sul federalismo e sui principi del comunismo libertario" (p. 236).
Non si trattò, naturalmente, solo di un sostegno teorico, ma - accanto alla raccolta di fondi da inviare in Palestina presero l'avvio in America una serie di iniziative concrete, di fondazioni di colonie cooperative (Clarion), di garden cities (Stelton) o dell'esperimento più completo compiuto sui novemila acri della Sunrise Co-operative Farm nel Michigan.
Non c'è dubbio che lo sperimentalismo ed il pragmatismo che caratterizza in vario modo i diversi gruppi radicali e anarchici si inserisce a pieno titolo in quella tradizione di liberalismo delle origini che, proprio nella prima metà dell'800, troverà una sua piena formulazione nell'anarchismo liberal di Josiah Warren. Il saggio di Antonio Donno apre la galleria dei personaggi e dei gruppi esaminati nel volume, ma ne costituisce pure il filo conduttore, attraverso la caratterizzazione, nel suo pensiero, di un individualismo sovrano come realizzazione storica di un principio affermatosi durante la Rivoluzione americana. L'antidogmatismo warreniano, il rapporto fecondo tra idee ed esperienza e la necessità di modificare continuamente le prime alla luce della seconda, il rifiuto del concetto di "rivoluzione" e la sua sostituzione con quello più concreto e fattibile di "esperimento", il rifiuto del comunismo che "viola l'individualità" dei singoli e, nello stesso tempo, l'attuazione di esperienze di vita comunitarie che altro non sono se non "libere e volontarie associazioni di individui, mai definitive, il cui scopo principale e dichiarato è la sperimentazione in altri luoghi e spesso anche con altre persone" (p. 28), tutto ciò si colloca consapevolmente nell'alveo della Dichiarazione d'Indipendenza e della tipica esperienza frontieristica americana, con in più la novità costituita dalla concezione economica di Warren basata sull'eguaglianza nello scambio e sul costo come limite del prezzo, sistema questo sperimentato con successo nel Time Store di Cincinnati nel 1827. Ma, forse, il punto di forza del pensiero warreniano, quel filo conduttore che percorre i vari saggi del volume, è costituito proprio dal cosiddetto tema delle "differenze": sono proprio le differenze che contrassegnano in maniera determinante gli individui, facendone dei soggetti unici ed irripetibili, lontani per natura dal rischio di appiattimento conformistico, perseguito invece da chi considera l'Unità del corpo sociale come il massimo obiettivo da raggiungere. Il pericolo di tale errata concezione dei rapporti sociali è evidente, soprattutto se applicata ad un sistema comunistico il cui vizio di fondo sta "nell'irresistibile impulso verso l'armonia, o la comunione, che si suppone derivi dalla prima (ma non si realizza mai)", (p.36). Anche se il comunismo criticato da Warren è quello premarxiano in voga nella prima metà dell'800, il suo rifiuto drastico delle utopie sociali totalizzanti costituisce indubbiamente un forte elemento di attualità, soprattutto se si considera la sua proposta alternativa, basata invece su un'utopia sottoposta di continuo alla verifica dell'esperienza, messa incessantemente a confronto con la realtà e di continuo aggiornata, modificata e perfezionata. Un'utopia, insomma, che costituisce una direzione morale, una guida per il comportamento e per il cambiamento ma, nello stesso tempo, non si perde nell'astrattezza dell'ideale troppo lontano dalla realtà e perciò, irrealizzabile.