Rivista Anarchica Online
Un altro anarchismo
di Giuliana Iurlano
L'apprezzabile operazione culturale degli autori di America
anarchica (1850-1930), a cura di A. Donno, Lacaita, Manduria
1990, secondo volume sull'anarchismo americano (il primo era uscito
nel 1987 presso lo stesso editore col titolo La sovranità
dell'individuo) si caratterizza, soprattutto, per il tentativo
di scandagliare un filone di ricerca poco conosciuto in Italia e sul
quale, purtroppo, ha pesato da sempre un giudizio negativo che, più
che essere storico, risultava troppo spesso soltanto ideologico. Se
da qualche tempo, tuttavia, l'attenzione degli studiosi è
stata rivolta più frequentemente ai movimenti e alle teorie
anarchiche europee, non altrettanto accadeva per quella corrente di
pensiero che ha caratterizzalo l'800 americano e che si presentava
come native american anarchism, un filone estremamente
interessante nell'ambito del pensiero anarchico complessivo, la cui
originalità verte in particolare sul rifiuto consapevole di
alcune categorie interpretative proprie della lettura marxista del
processo storico. Giustamente il curatore del volume ha ben messo in
evidenza come l'affrontare tale tematica costituisca anche
un'operazione culturale finalizzata a colmare uno dei tanti "vuoti"
creatisi a seguito della sistematica metodicità con cui
l'egemonia culturale comunista ha provveduto a distruggere
qualsiasi proposta sociale "diversa". Ne deriva,
perciò, una necessità di riattualizzare alcune di tali
proposte, analizzandone la consistenza teorica e il loro spessore
sociale, ma, soprattutto, ponendole strettamente a confronto con
quelle prodotte dai movimenti anarchici europei, allo scopo di
verificare se esistano eventuali punti di contatto o se, invece, la
distanza sia effettivamente difficile da coprire. L'incontro tra
anarco-individualismo americano e anarco-comunismo europeo non fu,
effettivamente, un incontro facile: spesso comportò, da
entrambe le parti, atteggiamenti di diffidenza e di chiusura, dovuti
in particolar modo all'uso di due linguaggi politici differenti, a
due diverse letture interpretative del futuro della società
anarchica. Da un lato, infatti, gli anarchici americani insistevano
soprattutto sull'aspetto specificatamente etico della loro
proposta che ruotava attorno al basilare concetto di "sovranità
dell'individuo" ed alla corrispondenza tra ordine morale
interno dell'individuo e ordine sociale esterno della
collettività (p.251): come ben afferma Nico Berti nella
Postfazione, "l'individualismo anarchico americano è
la prosecuzione logica ed estrema del liberalismo, dei suoi valori
ultimi intesi come identificazione della libertà quale
individuale libertà di coscienza, e dunque quale irriducibile
momento etico... ; l'anarchismo americano è etico senza
residui perché il momento etico della politica è
già stato risolto dalla rivoluzione democratica come
universalizzazione dei valori del liberalismo" (p. 246).
Dall'altro lato, invece, gli anarchici europei poggiavano la loro
proposta soprattutto sul concetto di rivoluzione, una
rivoluzione che, indubbiamente, cominciava all'interno dell'uomo,
ma che comportava contemporaneamente un radicale mutamento nelle
condizioni sociali ed economiche esterne: in altri termini, lo
spessore etico si sostanziava soprattutto attraverso la
realizzazione oggettiva di una libertà esterna all'individuo,
di un ambiente socio-economico in grado di consentire all'individuo
stesso l'esplicazione piena delle sue potenzialità. La
differenza sta, come si vede, nella consequenzialità naturale
del rapporto individuo/società: per gli anarchici
individualisti americani, la libertà si configurava come
essenzialmente radical e l'individualismo non costituiva
affatto una irruzione arbitraria e soggettiva nella realtà
esterna, quanto piuttosto un riconoscimento di fondo della
sua autenticità ed una estensione naturale della primaria
libertà dell'individuo; per gli anarco-comunisti europei,
invece, tale estensione non era affatto un processo naturale, ma
richiedeva un atto rivoluzionario di fondo. In questo senso,
allora, "il radicale anarchico americano era esattamente il più
autentico antirivoluzionario sociale" (p. 243). Si comprende,
quindi, come l'incontro, avvenuto sul terreno americano tra la
fine dell'800 e i primi del '900, tra le due correnti anarchiche non
sia stato un incontro facile: ciò che distanziava
profondamente i due gruppi era il fatto storico preciso che
costituiva la premessa di fondo delle rispettive proposte sociali, e
cioè il riconoscimento che, in America, una rivoluzione
c'era già stata, una rivoluzione liberal-democratica sancita
dalla Dichiarazione del '76, e che - di conseguenza - si poteva
prolungare il radicalismo originario che l'aveva prodotta,
correggendone di volta in volta gli esiti storici che tendevano
ad allontanarsi dallo spirito dei Padri Fondatori. Gli europei,
che non avevano alle spalle nessuna rivoluzione riuscita o,
comunque, duratura, collocavano in un futuro più o meno
prossimo l'atto rivoluzionario rigeneratore dal quale sarebbe
emersa la futura società anarchica e faticavano a
riconoscere, al di là del rampante capitalismo di fine secolo
e del mito yankee che ne era alla base, l'autentica
libertà che aveva portato all'affermazione non solo teorica,
ma anche reale di un sistema politico-democratico liberal
che, nonostante i suoi aspetti negativi, risultava
comunque correggibile e garante dei principali diritti umani. Su
questa mancata simbiosi si sofferma Gianfranco Bertoli, il quale
pone l'accento non solo sul problema dei mezzi per giungere ad una
società anarchica - ed il rifiuto della violenza allontanò
molti esponenti dell'anarchismo autoctono dagli immigrati
anarchici europei seguaci di Most -, ma anche sul diverso rapporto
con la religione: gli americani, in altri termini, erano e restavano
figli della Riforma e la loro critica all'apparato chiesastico si
nutriva di razionalismo illuministico, senza mai raggiungere i toni
anticlericali e atei degli europei che avevano sperimentato nel
vecchio mondo l'oppressione e la persecuzione della Chiesa. Pure
in questo campo, cioè, la lezione di tolleranza derivante dal
melting pot caratterizzava il filone autoctono
dell'anarchismo, portandolo a differenziarsi, anche per una serie di
problemi di natura psicologica, da quello di importazione, i cui
esponenti tendevano a chiudersi nei gruppi etnici di appartenenza,
pubblicando giornali ed opuscoli nelle rispettive lingue di origine.
Un'eccezione a questa tendenza in qualche modo separatista è
costituita da Emma Goldman e Alexander Berkman, due ebrei russi
emigrati in America negli anni '80 ed approdati all'anarchismo a
seguito dei tragici fatti di Haymarket Square. Il saggio di Anna
Rita Guerrieri sottolinea in particolar modo il "duplice punto
di forza e di debolezza" degli anarco-comunisti americani, da
un lato estremamente esigenti sul piano morale e, dall'altro, spesso
incapaci di comprendere la realtà della classe operaia
americana e le radicali trasformazioni da essa subite in quegli anni
cruciali di fine secolo. Il ritratto di Berkman, delineato dall'A.,
è quello di un personaggio austero, "a volte quasi
fanatico nella coerenza con la sua morale rivoluzionaria" (p.
42) che, portandosi in America il suo bagaglio di cultura radicale a
carattere romantico-populista, è in grado di superare - anche
se con estrema difficoltà - il gap psicologico derivante
dalle conseguenze del suo attentato ad Henry Clay Frick della
Carnegie Ass.: i 14 anni di carcere nel Western Penitentiary della
Pennsylvania, il ripudio del suo gesto da parte della maggior parte
dei compagni anarchici, primo fra tutti Most, ed il certamente
non facile ripensamento della strategia della "propaganda del
fatto" - aiutato in questo dalla Goldman che, nel frattempo,
aveva avuto modo di sviluppare una sua concezione anarchica
originale e, senz'altro, più vicina alla mentalità
radicale americana - porteranno Berkman a rivedere anche il suo
rapporto con l'anarchismo europeo e con i mezzi per giungere ad una
vera società anarchica. In America, intanto, prima della
sua espulsione nel 1919 da parte del governo americano sulla base
dell'Espionage Act e del Sedition Act, egli si
attivizzò in molti campi, dando concretezza alla sua
"vocazione pragmatica" ed intervenendo costantemente
nell'ambito della difesa dei diritti civili e dell'educazione (dando
vita alla prima ferreriana Sunday School a New York), e facendo di
"The Blast" - la sua rivista uscita nel 1916-17 - "una
tappa peculiare nella storia del radicalismo americano del ventesimo
secolo" (p. 51). Ma il percorso di avvicinamento al
liberalism americano delle origini, pur in contesto di
radicalism anarchico, diventa estremamente chiaro di fronte
agli sviluppi della rivoluzione russa, e ciò non solo per gli
anarco-individualisti americani, ma anche per molti rappresentanti
dell'anarco-comunismo di immigrazione. Il saggio di Antonio Donno
esplora proprio questo problema, puntando in particolare
sull'impossibilità di conciliare l'individualismo anarchico,
adeguatamente espresso dalla Dichiarazione del '76, con la
nozione di "massa", propria del marxismo e del
bolscevismo: il mondo anarchico americano - scrive, infatti, l'A. -
si mostrò "convintamente ostile di fronte all'ipotesi di
una società che il bolscevismo andava costruendo", in
quanto essa rappresentava la "negazione più completa non
solo dei più elementari principi dell'anarchismo, ma dello
stesso clima di tolleranza, di partecipazione individuale e di
libero dibattito che aveva informato di sé il tessuto sociale
americano per tutto l'Ottocento" (p. 152). Ed in questo
contesto, l'atteggiamento di Berkman e della Goldman è a dir
poco esemplare, in quanto ebbero entrambi "il coraggio di
rivedere le loro posizioni, individuare gli errori e le tremende
derive del processo rivoluzionario in Russia, opporsi senza sosta al
potere leninista" (p. 157).
Non furono naturalmente i soli: accanto a loro, molti altri
cercarono una plausibile spiegazione di quello che ormai palesemente
si mostrava come il fallimento di un sogno rivoluzionario: le
analisi si concentrarono non soltanto sugli aspetti economici
(Berkman e Goldman), ma anche sugli errori conseguenti al
rovesciamento del governo Kerensky (M. Kelly) e all'applicazione, ad
ogni livello sociale, della pratica della centralizzazione (R.
Rocker). Negli anni dal '20 al '40, l'anarchismo americano - o ciò
che di esso resta negli USA, dopo la esportazione di molti anarchici
immigrati - mostra un profondo disorientamento, al quale tenta di
reagire puntando più sugli aspetti etico-culturali che
politici propri del pensiero anarchico: è questa la tesi di Luisa
Cerundolo che, attraverso l'analisi della rivista "The Road To
Freedom" di Hippolyte Havel, mette in evidenza come lo scopo
fondamentale dei gruppi anarchici negli anni Venti sia soprattutto
quello di ribadire il loro legame con il Native American
Movement, legame che, in un clima di paura e di incertezza
politica, passa necessariamente attraverso principi "di
pacifismo, di sovranità dell'individuo, di non-violenza e di
completa apertura al dibattito politico e culturale contemporaneo"
(p, 141 ).
Nel composito schieramento radical americano non poteva
mancare una rilettura dell'esperienza wobbly: Claudie Roho,
evidenziando analiticamente le testimonianze fornite dalle wobbly
papers, ricostruisce il percorso originale del movimento degli
IWW, i quali - pur facendosi portatori di concezioni tipicamente
europee, basate sulle categorie marxiste di lotta di classe,
rivoluzione e proletariato - si innestarono in maniera estremamente
originale nel filone liberal della cultura americana,
acquisendone alcuni aspetti più significativi e
trasformandoli in strategie di lotta e di intervento radicale in
molti campi: basti pensare all'azione diretta o alle free speech
fights nell'Ovest, al movimentismo sindacale nell'Est, allo
sviluppo del concetto di solidarietà e di internazionalismo
di matrice esclusivamente europea. Lo stesso rifiuto per la teoria e
il privilegiamento della prassi potevano trovare duplice lettura
interpretativa, sia come richiamo alla concezione marxista che come
prolungamento della tradizione pragmatica americana.
L'interrogativo che l'A. si pone sulla natura del movimento
("anarchici o libertari?") trova, comunque, risposta
proprio in questo sfuggire a tutti i costi alle etichette di
qualsiasi tipo da parte degli IWW: probabilmente, non è
importante stabilire una connotazione precisa, quanto cogliere in
questo movimento ideologicamente composito forme e metodi di lotta
senz'altro originali e, soprattutto, "fluidi", capaci cioè
di adattarsi ai vari momenti e alle varie realtà
contestuali. Una novità molto apprezzabile nel campo dei
già limitati studi sull'anarchismo americano è
rappresentata dal lavoro di Furio Biagini, che esamina accuratamente
il ruolo degli immigrati ebrei anarchici negli Stati Uniti tra la
fine dell'800 e i primi del '900, mettendo in risalto soprattutto il
rapporto che si instauro tra la cultura yiddish e alcuni
principi basilari dell'anarchismo; in effetti, come bene fa
rilevare l'A., l'anarchismo ebraico si caratterizzò in
particolar modo come anarchismo etico, come un movimento, cioè,
che paradossalmente applicava da secoli il codice etico
basilare della dottrina anarchica, insistendo sulla superiorità
dei valori morali più che sull'uso della forza bruta,
sull'amore per la libertà e la giustizia più che sulle
conquiste militari e la gloria dei re, sull'insegnamento
profetico di pace, giustizia e solidarietà, da realizzarsi in
un nuovo regno in cui la miseria e lo sfruttamento sarebbero stati
banditi per sempre, grazie al lavoro preparatorio di coloro che,
in pratica e non solo nelle loro preghiere, avrebbero aperto la
strada ad un cambiamento reale del mondo. Si comprende, allora, come
gli immigrati ebrei, immersi per la prima volta nella violenta
realtà dello sfruttamento industriale in America,
ritrovassero quasi naturalmente nelle teorie radicali dell'epoca i
valori tradizionali della solidarietà e del rispetto per la
persona umana, che avevano da sempre costituito la base della loro
educazione: in questo senso, afferma Biagini, "il ribelle e il
rabbino erano più legati tra loro di quanto non potesse
apparire" (p. 197).
L'altro interessante aspetto della questione affrontata dall'A.
riguarda un altro paradosso, questa volta non certo "apparente":
e cioè, il rapporto tra anarchismo e sionismo. Indubbiamente,
il rifiuto anarchico dello stato, portava gli ebrei anarchici a
rifiutare con forza l'esistenza di un problema nazionale, come
sentimento consapevole di appartenenza ad un preciso popolo. Ma,
quando scoppiò il progrom di Kishinev nel 1903, gli
ebrei ne furono traumatizzati ed il problema dell'identità
ebraica tornò immediatamente in primo piano. Gli stessi
anarchici, primo fra tutti Hillel Zolotaroff, furono costretti a
rivedere la loro concezione cosmopolita, anche perché
contemporaneamente prendevano vita in Palestina i Kibbutzim,
i primi esperimenti comunitari socialisti, che
esercitarono particolare fascino sugli anarchici ebrei, che in
essi vedevano "l'embrione di una futura società basata
sul federalismo e sui principi del comunismo libertario" (p.
236).
Non si trattò, naturalmente, solo di un sostegno teorico,
ma - accanto alla raccolta di fondi da inviare in Palestina presero
l'avvio in America una serie di iniziative concrete, di fondazioni
di colonie cooperative (Clarion), di garden cities (Stelton)
o dell'esperimento più completo compiuto sui novemila acri
della Sunrise Co-operative Farm nel Michigan. Non c'è
dubbio che lo sperimentalismo ed il pragmatismo che caratterizza in
vario modo i diversi gruppi radicali e anarchici si inserisce a
pieno titolo in quella tradizione di liberalismo delle origini che,
proprio nella prima metà dell'800, troverà una sua
piena formulazione nell'anarchismo liberal di Josiah Warren. Il
saggio di Antonio Donno apre la galleria dei personaggi e dei gruppi
esaminati nel volume, ma ne costituisce pure il filo conduttore,
attraverso la caratterizzazione, nel suo pensiero, di un
individualismo sovrano come realizzazione storica di un principio
affermatosi durante la Rivoluzione americana. L'antidogmatismo
warreniano, il rapporto fecondo tra idee ed esperienza e la
necessità di modificare continuamente le prime alla luce
della seconda, il rifiuto del concetto di "rivoluzione" e
la sua sostituzione con quello più concreto e fattibile di
"esperimento", il rifiuto del comunismo che "viola
l'individualità" dei singoli e, nello stesso tempo,
l'attuazione di esperienze di vita comunitarie che altro non sono se
non "libere e volontarie associazioni di individui, mai
definitive, il cui scopo principale e dichiarato è la
sperimentazione in altri luoghi e spesso anche con altre persone"
(p. 28), tutto ciò si colloca consapevolmente
nell'alveo della Dichiarazione d'Indipendenza e della tipica
esperienza frontieristica americana, con in più la novità
costituita dalla concezione economica di Warren basata
sull'eguaglianza nello scambio e sul costo come limite del
prezzo, sistema questo sperimentato con successo nel Time Store
di Cincinnati nel 1827. Ma, forse, il punto di forza del pensiero
warreniano, quel filo conduttore che percorre i vari saggi del
volume, è costituito proprio dal cosiddetto tema delle
"differenze": sono proprio le differenze che
contrassegnano in maniera determinante gli individui, facendone dei
soggetti unici ed irripetibili, lontani per natura dal
rischio di appiattimento conformistico, perseguito invece da chi
considera l'Unità del corpo sociale come il massimo obiettivo
da raggiungere. Il pericolo di tale errata concezione dei rapporti
sociali è evidente, soprattutto se applicata ad un sistema
comunistico il cui vizio di fondo sta "nell'irresistibile
impulso verso l'armonia, o la comunione, che si suppone derivi dalla
prima (ma non si realizza mai)", (p.36). Anche se il
comunismo criticato da Warren è quello premarxiano in voga
nella prima metà dell'800, il suo rifiuto drastico delle
utopie sociali totalizzanti costituisce indubbiamente un forte
elemento di attualità, soprattutto se si considera la sua
proposta alternativa, basata invece su un'utopia sottoposta di
continuo alla verifica dell'esperienza, messa incessantemente a
confronto con la realtà e di continuo aggiornata, modificata
e perfezionata. Un'utopia, insomma, che costituisce una
direzione morale, una guida per il comportamento e per il
cambiamento ma, nello stesso tempo, non si perde nell'astrattezza
dell'ideale troppo lontano dalla realtà e perciò,
irrealizzabile.
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