Rivista Anarchica Online
A nous la libertè diario a cura di Felice Accame
L'itinerario della mente alla
sobrietà
In concomitanza all'americanizzazione
più immonda e appestante il Giappone sa mantenere
un'attenzione per le proprie radici culturali con genuinità
d'intenti e profondità di riflessione. Tanto che il suo
cinema, insieme a storie che miscelano supermarket sesso e morte, sa
ancora produrre film come Morte di un maestro del tè di
Kei Kumai, regista dalla mano sicura e leggera, alieno dalle
frivolezze e dalle concessioni alle platee in cerca di comodi
narcotici.
Le foglioline del tè contengono
alcaloidi, come la caffeina e la teofillina, e tannino - in misura
maggiore nel tè verde, torrefatto prima che le foglie
avvizziscano e fermentino; comprensibile, dunque, come la bevanda
potesse essere somministrata a monaci taoisti e praticanti zen
affinché non si addormentassero nella meditazione, o a samurai
in attesa della battaglia perché guerreggiassero con il
massimo furore. La cerimonia del tè - ovverossia le operazioni
con le quali la bevanda viene preparata e offerta - necessita del suo
Maestro, necessita, cioè, di colui che, per carisma personale
e per meriti di saggezza acquisita, nell'officiarla la nobilita e le
conferisce nuovo senso: diventa arte della semplicità e della
sobrietà, addomesticamento dell'io, ricerca e ottenimento
dell'Essenza, forse, meno misticamente, anche pace comune.
Coerentemente all'intero processo
simbolico, il Maestro del tè è guida per il cammino (il
"tao", per l'appunto), e dunque non può stupire se
la sua figura, in certe condizioni storico-sociali, assume valori di
potentato civile e religioso, né più né meno di
tante figure delle chiese cristiane medioevali.
Morte di un maestro del tè
vuole riportarci all'atmosfera mentale di un Giappone negli anni di
passaggio dal 1500 al 1600 e per farlo non ha bisogno di tante
baracconate hollywoodiane: a Kumai sono sufficienti rigorosi e
geometrici interni, il greto sassoso di un torrente, poche centinaia
di metri di natura. È un racconto di racconti. L'allievo, anni
dopo, è indotto a ripensare -e ripensare è un modo per
raccontare a sé ed a chi cerca di sapere tramite lui - il
suicidio del proprio Maestro, con la cui ombra vive la sua giornata
di meditazione e la sua notte di sogni inquieti.
Da una narrazione all'altra, nel
vincere una ritrosia, nel trarre un'implicazione mai osata, si scopre
che i suicidi sono stati tre, tutti decisi in un solo patto, tutti
rivendicativi di una sola illimitabile libertà contro la
protervia del Potere.
Di cinema ce n'è poco o nulla -
di quel cinema, almeno, che agli occhi di chi produce dalle nostre
parti sembra l'unico legittimato ad esistere. C'è la parola,
la parola che si fa racconto e la parola che si fa immagine, c'è
la parola per quel che conta fra gente semplice; c'è
compostezza - dello sguardo, del gesto, del corpo -, una compostezza
che segna i lenti movimenti della macchina da presa come la
recitazione dell'attore (Toshiro Mifune ed Eiji Okuda sembrano più
gli strenui difensori di una Cultura che non due normali attori
ingaggiati per una parte).
Il film fa spettacolo di quell'inezia
che a noi cittadini del quotidiano metropolitano sfugge
irrimediabilmente; una tazza per il tè ed il modo in cui è
manipolata prima di portarla alle labbra; l'utensile per la presa
delle foglioline e per il loro rimescolamento nell'acqua, l'utensile
custode del messaggio del Maestro; il gesto articolato e sequenziale
con il quale viene aperta una porta: un segno ideografico sulla
parete; la ghiaia rastrellata di una tomba; la cura rituale con la
quale si ripiega un fazzoletto. L'elenco potrebbe continuare: in
questo senso, il film - premiato a Venezia con il Leone d'Argento - è
spettacolo sontuoso di gioie pregiate.
L'inezia, nostra e tutta di oggi, ci
viene per così dire riformulata nei termini che più le
sono propri di epoche e persone diverse; riappropriandocene - pure con
le difficoltà che per un occidentale l'impegno comporta -,
scopriamo il tempo che la riproducibilità delle merci moderne
ci ha trafugato, un modo per assegnare una durata ormai sconosciuta
alla vita ed alle sue care suppellettili.
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