Rivista Anarchica Online
Ma lo stato sono loro
di Andrea Papi
I provvedimenti sulla sanità
rivelano, per il loro carattere antipopolare,
l'inesistenza della pretesa convergenza tra gli interessi del potere e quelli della gente. Indicazioni e limiti dell'immediata
protesta popolare contro i ticket. Forse qualcosa sta per scattare
nell'animo collettivo esacerbato.
I ticket sulla Sanità,
denominati subito tassa dei poveri, sono la parte più
fastidiosamente fiscale del nuovo decretone postpasquale e
preelettorale, specie di pacchetto di rastrellamento a suon di
ulteriori tasse, messo in atto dal governo De Mita, che vorrebbe
frenare l'emorragia di spreco del denaro pubblico. Da subito sono
apparsi quasi una molla inaspettata, capace di ridar fiato
all'opposizione popolare, che sembrava ributtata sotto la sabbia per
chissà quanto tempo. Al popolo italiano non è andata
proprio giù di dover pagare ricoveri in ospedale, analisi,
visite specialistiche e farmaci per andare incontro allo sfascio
finanziario verso cui ci stanno conducendo, uno dopo l'altro, i vari
governi della repubblica. Così, manifestazioni di protesta e
scioperi spontanei sono spuntati come funghi in tutt'Italia,
inaspettati dai politici disaccorti, quasi un chiaro monito a non
esagerare con la tendenza, sempre più evidente, a tassarci
selvaggiamente.
All'inizio i calibri da novanta delle
tre confederazioni sindacali, Bruno Trentin in testa, sono
addirittura rimasti spiazzati. Tanto è vero che, dopo una
riunione congiunta svoltasi alla fine di marzo, uscirono compatti con
tanto di dichiarazione alla stampa, dicendo che lo sciopero generale
non aveva più senso come forma di protesta, per cui non
l'avrebbero appoggiato. Ci hanno poi messo meno di quindici giorni a
cambiare idea e, costretti dalla spontaneità delle lotte,
forse a malincuore han dovuto cavalcare questa tigre inaspettata,
pena una delegittimazione popolare che proprio non ci voleva in
questi tempi un po' bui per le burocrazie sindacali. Loro malgrado,
si son trovati a dover guidare una levata di scudi contro le continue
vessazioni sulle buste paga a base di tassazioni dirette e indirette,
ormai uso e abuso corrente della cosiddetta politica di risanamento.
Una prova generale?
Ciò che più sorprende di
questa commedia amato-demitiana è il costo sociale e politico
che i tecnocrati governativi stanno pagando rispetto al ricavato
reale che ne dovrebbe saltar fuori. Secondo le stime ufficiali di
preventivo, solo con i ticket lo stato dovrebbe riuscire a ingerire
appena circa 2.600 miliardi, facenti parte di un pacchetto di 4.400
che riguarderebbe l'intero decretone che, fra l'altro, escluso per i
ticket, è passato in parlamento con la complicità
contrattata delle "opposizioni". Complessivi 4.400 miliardi
che, secondo le intenzioni dichiarate dei soliti governanti,
dovrebbero frenare l'emorragia di denaro pubblico dalle casse esangui
dello stato. Per dare un'idea, in pochi mesi il disavanzo annuo dai
117.000 miliardi preventivati è aumentato più o meno
fino a circa 135.000. Cosicché, se le cifre che ci forniscono
hanno un senso, hanno creato tutto questo "buttasù"
per rimanere a quota 132.400 di disavanzo. Perché indignare i
cittadini, costringendoli a fare un simile baccano, che costa soldi,
energia e aumento di inefficienza, per una risibile manciata di
spiccioli che, lor signori lo sanno bene, non solo non risolve i
problemi, bensì li conferma? L'unica risposta che il buon
senso mi suggerisce è che probabilmente si tratta di una
prova, più o meno progettata, che possa servire da termometro
per tassazioni succhiasangue ben più grosse di queste. Se
passeranno queste briciole, chissà quali succose "gabelle"
avranno messo in serbo nel cassetto i nostri democratici governanti
socialisti e cristiani.
Un padrone tiranno
Ma il punto è un altro. E qui
non andiamo più a lume di naso. Tutta questa bella protesta
che ci rincuora, che forse riuscirà momentaneamente a bloccare
un avveniristico progetto di future, ma non troppo, ruberie
governative, nonostante sia bella, inaspettata e sembri rinfocolare
speranze che sembravano assopite, è in realtà carica di
grossi limiti. Ha l'aspetto di essere più umorale che
consapevole. Non dà infatti l'idea di mettere in discussione i
presupposti di fondo che sono alla base delle scelte politiche
attorno a cui si stanno muovendo tutti, indistintamente, i
responsabili della gestione della cosa pubblica, compresi quelli che
dicono di rappresentare l'opposizione. L'incazzatura popolare in
realtà a che cosa si rivolge? Con tutta evidenza al fatto che
dobbiamo cominciare a pagare l'assistenza sanitaria ogni volta che ne
abbiamo bisogno, mentre era ormai acquisita la cultura che sia dovere
dello stato assisterci fino in fondo, gratis al momento del consumo e
del bisogno. Lo stato siamo noi, per cui non vogliamo pagare ciò
che non vogliamo perché, sempre secondo noi, non ci spetta. È
una filosofia sulla funzione della struttura statuale acquisita
dall'immaginario collettivo in auge. I provvedimenti fiscali di
questi giorni cozzano pesantemente contro questa ingenua supposizione
collettiva. Mi vien da dire che la vicenda di cui ci stiamo occupando
è qui per dimostrarci la sua assurdità.
Lo stato non siamo noi e neppure lo è
mai stato, mentre sono loro, quelli che di fatto legittimate col voto
che gli date a decidere per voi, su di voi, contro di voi, anzi
contro di noi. Inconsapevolmente si tratta di una legittimazione
dell'ormai noto welfare state, lo stato assistenziale
ipotizzato dall'economista Taylor. Lo stato, attraverso il governo
che esprime, decide e ci impone le sue decisioni, legittimato dal
consenso che gli assicura il voto. Se può ci assiste, ma se
non può, come quasi sempre avviene, per continuare ad esistere
ci succhia ricchezza, denaro, lavoro, consenso, tempo, fregandosene
dei nostri bisogni, della nostra volontà, di ciò che
pensiamo. È un
padrone tiranno, che si differenzia dai padroni e dagli schiavisti
classici perché è un apparato impersonale, una
struttura in cui i responsabili possono cambiare, ma che resta il
vero e totale responsabile. È
la personificazione dell'assurdo, che Kafka descrisse così
bene nei suoi capolavori.
Il solito blabla
La rivolta per la conservazione di uno
stato immaginario di identificazione, ahimè!, è
destinata a finire. Non può portare a nulla di buono e non può
che risolversi in uno dei tanti sfoghi collettivi, che periodicamente
danno un po' di tono al tran-tran del divenire politichese. Il
governo e le strutture dello stato, resi edotti dal casino che hanno
suscitato, troveranno la maniera di far ingoiare al popolo riluttante
la pillola amara delle tasse impopolari. In qualche modo riusciranno
a spiegarci che la situazione è vicina al tracollo economico e
che per uscirne bisogna accettare un periodo più o meno lungo
di sacrifici. Mi sovviene il classico leit-motiv degli imbonitori
politici: "Siamo tutti nella stessa barca, per cui...". Verrà portata qualche modifica
alla regolazione sui ticket, capace di renderli accettabili, e tutto
rientrerà. La gente, nella quasi totalità, ingoierà
il rospo a denti stretti e imprecando rassegnata.
Ma continuerà a proiettare
immaginativamente che, un giorno lontano, verranno tempi migliori in
cui saremo veramente assistiti. Così anche questa nuova
gabella farà parte della normale acquisizione dei
comportamenti collettivi. Fino alla prossima, che ci verrà
propinata con lo stesso ritornello: "È
una congiuntura sfavorevole e si impongono misure d'emergenza.
Superato questo periodo vivremo in mezzo a un vero benessere per
tutti e, bla! bla! bla!". Ma forse mi sbaglio. Qualcosa sta per
scattare nell'animo collettivo esacerbato. Affiora una coscienza
generalizzata che il vero problema sta nell'esistenza stessa dello
stato, questa piovra vorace che, vampirescamente, vive e sopravvive
succhiando la ricchezza sociale, di cui ha sempre più bisogno;
come ha sempre più bisogno di divenire sempre più
grande. La lotta allora cambia di qualità. Non viene più
chiesto l'immaginario welfare-state, ma viene rifiutata ogni
struttura statuale perché è dannosa e. . .
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