Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 19 nr. 164
maggio 1989


Rivista Anarchica Online

Ma lo stato sono loro
di Andrea Papi

I provvedimenti sulla sanità rivelano, per il loro carattere antipopolare, l'inesistenza della pretesa convergenza tra gli interessi del potere e quelli della gente. Indicazioni e limiti dell'immediata protesta popolare contro i ticket. Forse qualcosa sta per scattare nell'animo collettivo esacerbato.

I ticket sulla Sanità, denominati subito tassa dei poveri, sono la parte più fastidiosamente fiscale del nuovo decretone postpasquale e preelettorale, specie di pacchetto di rastrellamento a suon di ulteriori tasse, messo in atto dal governo De Mita, che vorrebbe frenare l'emorragia di spreco del denaro pubblico. Da subito sono apparsi quasi una molla inaspettata, capace di ridar fiato all'opposizione popolare, che sembrava ributtata sotto la sabbia per chissà quanto tempo. Al popolo italiano non è andata proprio giù di dover pagare ricoveri in ospedale, analisi, visite specialistiche e farmaci per andare incontro allo sfascio finanziario verso cui ci stanno conducendo, uno dopo l'altro, i vari governi della repubblica. Così, manifestazioni di protesta e scioperi spontanei sono spuntati come funghi in tutt'Italia, inaspettati dai politici disaccorti, quasi un chiaro monito a non esagerare con la tendenza, sempre più evidente, a tassarci selvaggiamente.
All'inizio i calibri da novanta delle tre confederazioni sindacali, Bruno Trentin in testa, sono addirittura rimasti spiazzati. Tanto è vero che, dopo una riunione congiunta svoltasi alla fine di marzo, uscirono compatti con tanto di dichiarazione alla stampa, dicendo che lo sciopero generale non aveva più senso come forma di protesta, per cui non l'avrebbero appoggiato. Ci hanno poi messo meno di quindici giorni a cambiare idea e, costretti dalla spontaneità delle lotte, forse a malincuore han dovuto cavalcare questa tigre inaspettata, pena una delegittimazione popolare che proprio non ci voleva in questi tempi un po' bui per le burocrazie sindacali. Loro malgrado, si son trovati a dover guidare una levata di scudi contro le continue vessazioni sulle buste paga a base di tassazioni dirette e indirette, ormai uso e abuso corrente della cosiddetta politica di risanamento.

Una prova generale?
Ciò che più sorprende di questa commedia amato-demitiana è il costo sociale e politico che i tecnocrati governativi stanno pagando rispetto al ricavato reale che ne dovrebbe saltar fuori. Secondo le stime ufficiali di preventivo, solo con i ticket lo stato dovrebbe riuscire a ingerire appena circa 2.600 miliardi, facenti parte di un pacchetto di 4.400 che riguarderebbe l'intero decretone che, fra l'altro, escluso per i ticket, è passato in parlamento con la complicità contrattata delle "opposizioni". Complessivi 4.400 miliardi che, secondo le intenzioni dichiarate dei soliti governanti, dovrebbero frenare l'emorragia di denaro pubblico dalle casse esangui dello stato. Per dare un'idea, in pochi mesi il disavanzo annuo dai 117.000 miliardi preventivati è aumentato più o meno fino a circa 135.000. Cosicché, se le cifre che ci forniscono hanno un senso, hanno creato tutto questo "buttasù" per rimanere a quota 132.400 di disavanzo. Perché indignare i cittadini, costringendoli a fare un simile baccano, che costa soldi, energia e aumento di inefficienza, per una risibile manciata di spiccioli che, lor signori lo sanno bene, non solo non risolve i problemi, bensì li conferma? L'unica risposta che il buon senso mi suggerisce è che probabilmente si tratta di una prova, più o meno progettata, che possa servire da termometro per tassazioni succhiasangue ben più grosse di queste. Se passeranno queste briciole, chissà quali succose "gabelle" avranno messo in serbo nel cassetto i nostri democratici governanti socialisti e cristiani.

Un padrone tiranno
Ma il punto è un altro. E qui non andiamo più a lume di naso. Tutta questa bella protesta che ci rincuora, che forse riuscirà momentaneamente a bloccare un avveniristico progetto di future, ma non troppo, ruberie governative, nonostante sia bella, inaspettata e sembri rinfocolare speranze che sembravano assopite, è in realtà carica di grossi limiti. Ha l'aspetto di essere più umorale che consapevole. Non dà infatti l'idea di mettere in discussione i presupposti di fondo che sono alla base delle scelte politiche attorno a cui si stanno muovendo tutti, indistintamente, i responsabili della gestione della cosa pubblica, compresi quelli che dicono di rappresentare l'opposizione. L'incazzatura popolare in realtà a che cosa si rivolge? Con tutta evidenza al fatto che dobbiamo cominciare a pagare l'assistenza sanitaria ogni volta che ne abbiamo bisogno, mentre era ormai acquisita la cultura che sia dovere dello stato assisterci fino in fondo, gratis al momento del consumo e del bisogno. Lo stato siamo noi, per cui non vogliamo pagare ciò che non vogliamo perché, sempre secondo noi, non ci spetta. È una filosofia sulla funzione della struttura statuale acquisita dall'immaginario collettivo in auge. I provvedimenti fiscali di questi giorni cozzano pesantemente contro questa ingenua supposizione collettiva. Mi vien da dire che la vicenda di cui ci stiamo occupando è qui per dimostrarci la sua assurdità.
Lo stato non siamo noi e neppure lo è mai stato, mentre sono loro, quelli che di fatto legittimate col voto che gli date a decidere per voi, su di voi, contro di voi, anzi contro di noi. Inconsapevolmente si tratta di una legittimazione dell'ormai noto welfare state, lo stato assistenziale ipotizzato dall'economista Taylor. Lo stato, attraverso il governo che esprime, decide e ci impone le sue decisioni, legittimato dal consenso che gli assicura il voto. Se può ci assiste, ma se non può, come quasi sempre avviene, per continuare ad esistere ci succhia ricchezza, denaro, lavoro, consenso, tempo, fregandosene dei nostri bisogni, della nostra volontà, di ciò che pensiamo. È un padrone tiranno, che si differenzia dai padroni e dagli schiavisti classici perché è un apparato impersonale, una struttura in cui i responsabili possono cambiare, ma che resta il vero e totale responsabile. È la personificazione dell'assurdo, che Kafka descrisse così bene nei suoi capolavori.

Il solito blabla
La rivolta per la conservazione di uno stato immaginario di identificazione, ahimè!, è destinata a finire. Non può portare a nulla di buono e non può che risolversi in uno dei tanti sfoghi collettivi, che periodicamente danno un po' di tono al tran-tran del divenire politichese. Il governo e le strutture dello stato, resi edotti dal casino che hanno suscitato, troveranno la maniera di far ingoiare al popolo riluttante la pillola amara delle tasse impopolari. In qualche modo riusciranno a spiegarci che la situazione è vicina al tracollo economico e che per uscirne bisogna accettare un periodo più o meno lungo di sacrifici. Mi sovviene il classico leit-motiv degli imbonitori politici: "Siamo tutti nella stessa barca, per cui...".
Verrà portata qualche modifica alla regolazione sui ticket, capace di renderli accettabili, e tutto rientrerà. La gente, nella quasi totalità, ingoierà il rospo a denti stretti e imprecando rassegnata.
Ma continuerà a proiettare immaginativamente che, un giorno lontano, verranno tempi migliori in cui saremo veramente assistiti. Così anche questa nuova gabella farà parte della normale acquisizione dei comportamenti collettivi. Fino alla prossima, che ci verrà propinata con lo stesso ritornello: "È una congiuntura sfavorevole e si impongono misure d'emergenza. Superato questo periodo vivremo in mezzo a un vero benessere per tutti e, bla! bla! bla!".
Ma forse mi sbaglio. Qualcosa sta per scattare nell'animo collettivo esacerbato. Affiora una coscienza generalizzata che il vero problema sta nell'esistenza stessa dello stato, questa piovra vorace che, vampirescamente, vive e sopravvive succhiando la ricchezza sociale, di cui ha sempre più bisogno; come ha sempre più bisogno di divenire sempre più grande. La lotta allora cambia di qualità. Non viene più chiesto l'immaginario welfare-state, ma viene rifiutata ogni struttura statuale perché è dannosa e. . .