Rivista Anarchica Online
Tagli alla gola
di Carlo Oliva
In una società solidale la
malattia del singolo è un male comune, cui la società
stessa deve porre rimedio. La logica che sottende l'"operazione ticket
" -
e in genere la politica sociale del governo - è di segno
opposto. Soprattutto per questo i ticket
si rivelano odiosi: perché sono un ulteriore colpo al
presupposto che la salute è un bene sociale.
In uno dei film che Marco Ferreri
realizzò in Spagna alla fine degli anni '50, El cochecito,
con Jósé Isbert, il protagonista, un vecchietto
abbastanza arzillo e in ottima salute, desiderava disperatamente, per
dei motivi, in ultima analisi, piuttosto futili, una motocarrozzella
da paraplegico. Quando i famigliari, con ovvia ragionevolezza, gliela
negavano, li sterminava in massa.
Era un bel film, d'evidente discendenza
búnuelesca, in cui l'allora giovine regista voleva
probabilmente far esercizio di surrealismo, avendo imparato dal suo
maestro che il surrealismo è un ottimo strumento per affermare
molte cose spiacevoli sulla realtà sociale che ci circonda.
D'altronde, l'idea base, quella dell'uomo sano che vuole, per un
motivo o per l'altro, comportarsi da malato, ha una sua profondità
psicologica, risponde a un modello che in qualche modo trova
fondamento nelle nostre procedure mentali.
Eppure, non credo si possa negare che
quel modello è stato sviluppato con eccessiva consequenzialità
dal presidente De Mita, dal ministro Amato e dagli altri membri del
patrio governo che hanno presentato l'introduzione dell'odioso
balzello del ticket
sanitario, giustificandolo come un utile deterrente volto a
dissuadere i compatrioti da un eccessivo consumo di medicinali,
d'analisi cliniche e di cure ospedaliere. A giudicare da quanto hanno
detto e scritto (Amato, specialmente) si direbbe che gli Italiani
siano gente strana assai, sempre pronti a rimpinzarsi di farmaci
inutili e sofisticati, ghiotti di compresse, endovenose ed
enteroclismi, disposti a tutto pur di essere sottoposti, per puro
diletto, a scintigrafie, lastre al torace, prelievi, tomografie
assiali computerizzate e quanti altri esami la moderna scienza
clinica ha escogitato.
Al contrario di Robin Hood
Mah. Se lo dicono loro, avranno
ragione. Io, personalmente, non sono un patito né delle
analisi né dei medicinali (anche se ormai ho raggiunto un'età
in cui capita spesso di ricorrere agli uni e alle altre), ma non è
detto che tutti siano come me. Ho qualche dubbio se mai
sull'efficacia dissuasoria del provvedimento. In fondo, le medicine,
le analisi, i ricoveri non se li assegnano sua sponte i
pazienti, ma li prescrivono i medici, che il ticket
non lo pagano, anzi, spesso, quando hanno a che fare con un
laboratorio d'analisi, qualcosa ci guadagnano. E poi, rischi
d'ipocondria a parte, sappiamo tutti che se quando siamo sani, può
piacerci comportarci da malati, quando siamo malati, o temiamo
davvero di esserlo, siamo disposti a tutto pur di sentirci dire che
siamo sani, e se esiste la più lontana speranza che da un
controllo di laboratorio o da una verifica ospedaliera esca la
confortante certezza che la nostra vita non è in pericolo,
allora ci vuol altro che un ticket,
pur esoso, per dissuaderci dall'intraprendere quella via.
Il problema, evidentemente, è un
altro. Il ticket è
una tassa, una di quelle sgradevoli tasse che rientrano nella
categoria delle imposte indirette. Diamo pure per scontato (anche se
non lo credo) che la sua istituzione fosse indispensabile e
necessaria, che ne andasse dell'equilibrio finanziario della nazione.
Il fatto è che non si è voluta presentarla come tale.
È ovvio. Tutte le tasse sono
antipatiche, e le imposte indirette sono evidentemente inique, perché
pesano di più, in proporzione, sui redditi meno elevati, e
rappresentano quindi, in sostanza, una tecnica per ridistribuire il
reddito togliendo ai poveri, al contrario di Robin Hood, per dare ai
ricchi. Questa poi, per il fatto che colpisce le famiglie in un
momento psicologicamente difficile, è più odiosa delle
altre. Per cui qualche cervellone pensoso della popolarità dei
partiti al governo (e delle prossime elezioni) deve aver avuto la
brillante trovata di presentare la nuova iniziativa non sotto la voce
imposte (che sono, dal punto di vista dello stato, incrementi
d'entrata) ma sotto quella dei "tagli di spesa".
Matematicamente, la differenza non è
un gran che. Niente assomiglia tanto a una salita quanto una discesa
vista dal basso, e viceversa: il ministro Amato, o chi per lui, deve
aver pensato che, in definitiva, l'importante era che il governo
potesse disporre, non importa se risparmiando sulle spese o
incrementando le entrate, di nuovo contante da distribuire ai ceti
parassitari, ai gruppi di potere, agli enti inutili, alle aziende
sovvenzionate, ai partiti, alle chiese e a tutta quella vasta area di
dilapidatori della pubblica ricchezza su cui il regime vigente, al di
là delle formule politiche, fonda il proprio consenso.
E parlare di tagli alla spesa, in
termini d'immagine, costa ben poco, anzi giova.
Tutti apprezzano i tagli alla spesa
pubblica. Dieci anni di esaltazione continua della deregulation
e della reagonomics, di thatcherismo rampante e di
giacobinismo manageriale hanno ormai prodotto il loro effetto a
livello d'ideologia corrente. L'idea che lo stato (la comunità)
spenda troppo, che ogni attività d'assistenza sociale si
risolva comunque in uno sperpero, che sia, soprattutto, riconducibile
a una politica "vecchia", datata, non adeguata ai tempi, ha
preso piede. Per cui, viva i tagli e più severi sono meglio è.
Rappresentano, ormai, "risanamenti" per definizione.
Se dal livello della propaganda
passiamo a quello dell'analisi seria, ci accorgeremo, intanto, che i
presunti tagli non sono niente di simile, e che tutto il problema
riguarda appunto la redistribuzione del reddito. In altre parole, che
un sistema come quello del ticket
rappresenta un caso macroscopico di rottura della solidarietà
sociale nella difesa di un bene collettivo. E la sua adozione da
parte del governo e delle forze politiche che lo sostengono ha il
significato di una decisiva presa di posizione ideologica.
Ma la salute è un bene
sociale
Di tutto ciò, tuttavia, non
sembra importare niente a nessuno, nemmeno a coloro che contro il
ticket hanno
giustamente protestato e manifestato, usando, però, degli
argomenti in genere molto poveri o comunque poco pertinenti. Non
serve a molto, in sostanza, protestare perché per la sanità,
tra ritenute sullo stipendio e tassa sulla salute, si spende già
fin troppo, o perché, con quello che ci fanno pagare, il
servizio è pessimo, che sono le due lamentele correnti.
Entrambe queste affermazioni sono, in
genere, vere, ma in quanto argomentazioni hanno il difetto di essere,
per lo meno, opinabili. Si può sempre ribattere che la spesa
individuale e collettiva, nel nostro paese, non è superiore
alla media europea, tutt'altro, e che l'efficacia del servizio è,
sì, mediamente scarsa, ma va misurata comunque caso per caso e
settore per settore. Non vale la pena di perdersi più che
tanto in diatribe che finiscono con l'essere futili. Quello che non
si può mettere davvero in discussione è il principio
per cui tutti devono contribuire alle necessità comuni secondo
le loro possibilità. In una società solidale, anche la
malattia del singolo è un male comune, cui la collettività
ha, non che dovere, interesse di porre rimedio. La lotta contro i
vari ticket va
condotta in base al presupposto che la salute, come d'altronde
l'istruzione, e altri bersagli privilegiati dei tagliatori di spesa
pubblica, è un bene sociale. Evidentemente, alla solidarietà
sociale oggi non credono in molti. Ma è proprio questo il
sintomo della grave crisi che travaglia, senza che neanche ce ne sia
coscienza, questa nostra società degli anni '80. Quando questo
valore viene meno, il processo di ricostruzione di un nuovo
equilibrio può essere molto difficile e doloroso, traumatico,
a volte. E, pensate, la nostra sedicente classe politica, persa nel
suo solipsismo, non se n'è ancora accorta. Che gli dei li
perdonino tutti.
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