Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 18 nr. 159
novembre 1988


Rivista Anarchica Online

Il primo teorema
di Carlo Oliva

Un ricordo personale e, per cominciare, una confessione abbastanza spinosa. Quando venni a sapere, non saprei dire esattamente come e da chi, ma mi sembra fosse la telefonata di un giornalista, della morte di Pinelli e dell'arresto di Valpreda, io ho avuto per un momento il pensiero (il sospetto, diciamo, o il timore) che in quella orribile storia delle bombe fossero entrambi in qualche modo coinvolti.
Un brutto pensiero, lo so, ma fondato, in definitiva, su un'argomentazione già definita altre volte.
Non era il sospetto, o la convinzione, che i compagni fossero comunque "colpevoli", o "responsabili", di un atto di terrorismo. L'idea, semplicemente, era quella che potessero essere coinvolti in quanto ingannati da qualcuno, "tirati dentro" una vicenda fuori dal loro controllo. Che fossero stati, come si sarebbe detto in seguito fin troppe volte, in tanti altri casi (e spesso a sproposito), oggetto di una provocazione.
Avevo anche qualche idea su chi questa provocazione potesse aver organizzato. Ma, come a tanti, mi ci sarebbe voluto un certo tempo per capire che il disegno di chi aveva ideato quella macabra trama era ancora più turpe. Che ad esso erano state sacrificate la vita e la libertà di due innocenti. Che al cinismo di chi detiene il potere non c'è mai limite.
In seguito, naturalmente, di quei taciti sospetti ho avuto spesso occasione di vergognarmi. Non a torto: in fondo, ero più di altri nelle condizioni di non cascarci. Conoscevo abbastanza da vicino il movimento libertario milanese. Avevo frequentato Pinelli quanto bastava per apprezzarne la solidità morale, in tanti incontri, dibattiti e discussioni al "suo" circolo, in piazzale Lugano, e presso la sede milanese del partito radicale in via Lanzone (un posto abbastanza strano in cui passare il '68 e dintorni, in cui pure allora mi si trovava invariabilmente). Ho anzi l'impressione, malsicura, di aver incontrato, lì, anche Pietro Valpreda, forse quando si preparava la manifestazione per il quarantesimo anniversario dei patti lateranensi: un tema fin troppo tipicamente radicale, cui gli anarchici, però, non erano insensibili.
In effetti, era un bel po' che lavoravamo insieme, con una certa proficua indifferenza agli steccati ideologici. Ma il potere corrompe in molti modi: anche seminando i sospetti. Succede in tempi ideologicamente tranquilli: figuriamoci allora, dopo quei mesi esaltanti, ma per certi versi confusi, nello stato di choc causato dall'esplosione di piazza Fontana.
In realtà, le provocazioni del potere non erano esattamente una novità. Le sedi politiche dei gruppi libertari (contandovi, con qualche semplificazione, i radicali milanesi, ma Pannella non era d'accordo) erano effettivamente dei posti "strani": vi ci si sviluppava un'esperienza interessante, vivace, per molti versi diversa da quella del movimento degli studenti, che cominciava, a Milano, a strutturarsi secondo una certa ideologia emme-elle che non faceva presagire nulla di buono. Si parlava di soggetti sociali nuovi, di nuovi bisogni, di istanze culturali e di progetti di de-cultura. C'era un gran fermento: ai vecchi militanti si accostavano portatori di etichette, diciamo così, inedite: situazionisti, provos, onda verde, pacifisti, hippies o sedicenti tali. Ma questi posti strani erano anche un po' defilati, rispetto all'attenzione generale, e forse non eravamo gli unici a condurvi degli esperimenti. Ai margini, così, si aggirava anche qualche personaggio abbastanza eccentrico. Tra i provos, o gli hippies, o i beat, o affini, compariva a volte qualche faccia nuova, o ne sparivano delle vecchie. Il senso della vigilanza non era vivissimo: non si sapeva neanche che cosa fosse.

Certi amici al bar
Le conseguenze erano abbastanza ovvie . Ricordo che in via Lanzone s'era stabilito un vecchio compagno senza casa, senza famiglia, e un po' fuori di testa: era venuto chissà da dove e fungeva, in teoria, da custode. Ogni tanto, però, spariva, per ritornare con più soldi in tasca (o più alcool in corpo) di quanto ne avesse in partenza. Glieli avevano forniti certi amici che lo avvicinavano al bar. Amici? Sì, amici: membri dell'ufficio politico, magari, ma sempre amici suoi. Bah... Negli anni precedenti avevamo conosciuto anche il giovane commissario Calabresi.
Lo si incontrava ogni tanto, in servizio; mi sembra persino che ci avesse scortati, amichevolmente, quando eravamo partiti (anarchici, radicali, provos e sbandati vari) per una marcia per la pace nella remota direzione delle basi NATO di Vicenza.
I rapporti con l'ufficio politico, del resto, non erano cattivi: una volta che su un bollettino ciclostilato avevamo pubblicato una notizia imprecisa a proposito della polizia, ci telefonarono cortesemente per evitarci la gaffe. Sì, il bollettino non era ancora uscito, ma lo conoscevano lo stesso... Sapevano sempre tutto. Ogni tanto, quando nasceva una specie di dubbio su una faccia o su una figura nuova (o vecchia), si prendeva da parte l'interessato e gli si confidava, in assoluto riserbo, che in quel tal posto, in quel tal casolare, in quel deposito fuori mano, erano conservati documenti importanti, indirizzi compromettenti, addirittura armi (non avremmo toccato un'arma per nulla al mondo, ma non importa) e si restava con fiducia in attesa della perquisizione. Nove volte su dieci arrivava: ed era, vuoi mettere, una gran bella soddisfazione.
Quando ripenso a quegli anni, quelli che vanno, diciamo dal '65 al '69, a volte ho l'impressione di una specie di balletto, con degli strani risvolti grotteschi.
Eppure era importante, in quella fase di risveglio politico e di contestazione del già dato, tenere aperti anche alcuni poli libertari, non esclusivamente studenteschi e ideologicamente non troppo dogmatici.
Quando entrarono nel gioco gli operai non sindacalizzati delle grandi fabbriche capimmo (quasi) tutti che la posta in gioco era grossa e che quel balletto poteva concludersi nel più imprevisto dei modi. Gli spazi, di fatto, si restringevano: in autunno, la sede di via Lanzone era già chiusa, il partito radicale aveva ritrovato anche a Milano la sua vecchia funzione e noi del nostro piccolo gruppo eravamo tornati a essere i soliti cani sciolti. Ma questa è un'altra storia, che qui non interessa più di tanto.
Le bombe, la morte di Pinelli in Questura, l'arresto di Valpreda... Furono per tutto il movimento, nelle Università, nelle scuole, nelle fabbriche, nelle sedi del vecchio centro e della periferia, il segno che le regole del gioco erano state improvvisamente e tragicamente stravolte. Qualcuno aveva gettato sul piatto una posta cui non era facile rispondere: una posta di morte e di colpa precostituita. In un certo senso era proprio la fine di un'innocenza, di un modo di far politica che avevamo goduto e vissuto per una stagione molto breve. Il seguito sarebbe stato, comunque, diverso: si sarebbe colorato, si sa, di altro sangue e altre tragedie. Forse, un giorno, si potrà discutere davvero del significato della violenza politica degli anni '70 e delle responsabilità relative.
Ma è certo, già ora, che nessuna ricostruzione giudiziaria potrà cancellare l'ipotesi che le tragedie successive siano state, tutte, frutto di quel seme avvelenato.
L'impressione che tutto fosse cambiato la percepimmo in tanti, all'assemblea improvvisata in Statale, la sera del 12 dicembre (o quella del giorno dopo? Non ricordo). Fu una riunione di paura, d'incertezza e di sospetti; che si sciolse alla svelta, con l'impressione che potesse essere l'ultima. Parecchi partecipanti, di fatto, tornando a casa scoprirono che era già cominciato, no, non diremo il rastrellamento, ma il fermo dei soliti sospetti, e finirono direttamente in questura. Il primo (e il più tragico) dei tanti futuri teoremi di criminalizzazione era stato impostato. La morte di Pinelli, qualsiasi cosa sia successa esattamente in quell'ufficio di via Fatebenefratelli, ne faceva parte integrale.
Ho sempre creduto che se quel teorema, allora, non ha funzionato, se c'è stato un movimento negli anni '70, se la trasformazione storica della società italiana non è stata gestita integralmente dalla reazione, dipende in buona parte dal fatto che a quel sospetto e a quelle paure molti abbiano saputo resistere. Le parole d'ordine famose su Valpreda innocente e Pinelli assassinato furono quelle attorno a cui si ricostruì e si riorganizzò un patrimonio politico ed ideale che aveva corso il rischio d'essere disperso.
Il funerale del 20 dicembre, infine. Un incubo, a cinque giorni dall'arresto di Valpreda: pochi metri di corteo in un pomeriggio tetrissimo, in un quartiere circondato, con un blocco di "forze dell'ordine" che avrebbe praticamente impedito a tutti di arrivare al cimitero, solo mille duemila persone presenti... Al di là del dolore e del groppo in gola che avevamo tutti, alcuni ci videro quasi una sconfitta politica (i compagni, a Milano, avevano ben altre capacità di mobilitazione). Altri, invece, lo hanno cantato come l'inizio di una ripresa. Non so: era, certamente, un momento ancora d'incertezza: per me è sempre stata espressa dalla figura di un ragazzo cui ero vicino, che cercava di non scoppiare in lacrime, e tormentava il gagliardetto rosso di un gruppo bordighista (le vecchie sette eretiche erano le uniche organizzazioni costituite, allora) , incerto se spiegarlo, a significare una presenza e a riaffermare un'identità che non era quella della maggior parte dei presenti, o tenerlo arrotolato in nome di un'unità tutta da riconquistare.
Mi piacerebbe dire che prevalse questa seconda logica, ma in realtà non ricordo proprio come andò a finire. Quel che è certo è che i presenti la paura e il sospetto l'avevano superati (o avevano deciso di superarli, che in fondo è lo stesso) . Da una consapevolezza morale stava per nascere una nuova determinazione politica.
Di questo, fra l'altro, dobbiamo essere grati alla memoria di Giuseppe Pinelli.