Rivista Anarchica Online
Il primo teorema
di Carlo Oliva
Un ricordo personale e, per cominciare,
una confessione abbastanza spinosa. Quando venni a sapere, non saprei
dire esattamente come e da chi, ma mi sembra fosse la telefonata di
un giornalista, della morte di Pinelli e dell'arresto di Valpreda, io
ho avuto per un momento il pensiero (il sospetto, diciamo, o il
timore) che in quella orribile storia delle bombe fossero entrambi in
qualche modo coinvolti.
Un brutto pensiero, lo so, ma fondato,
in definitiva, su un'argomentazione già definita altre volte. Non era il sospetto, o la convinzione,
che i compagni fossero comunque "colpevoli", o
"responsabili", di un atto di terrorismo. L'idea,
semplicemente, era quella che potessero essere coinvolti in quanto
ingannati da qualcuno, "tirati dentro" una vicenda fuori
dal loro controllo. Che fossero stati, come si sarebbe detto in
seguito fin troppe volte, in tanti altri casi (e spesso a
sproposito), oggetto di una provocazione.
Avevo anche qualche idea su chi questa
provocazione potesse aver organizzato. Ma, come a tanti, mi ci
sarebbe voluto un certo tempo per capire che il disegno di chi aveva
ideato quella macabra trama era ancora più turpe. Che ad esso
erano state sacrificate la vita e la libertà di due innocenti.
Che al cinismo di chi detiene il potere non c'è mai limite.
In seguito, naturalmente, di quei
taciti sospetti ho avuto spesso occasione di vergognarmi. Non a
torto: in fondo, ero più di altri nelle condizioni di non
cascarci. Conoscevo abbastanza da vicino il movimento libertario
milanese. Avevo frequentato Pinelli quanto bastava per apprezzarne la
solidità morale, in tanti incontri, dibattiti e discussioni al
"suo" circolo, in piazzale Lugano, e presso la sede
milanese del partito radicale in via Lanzone (un posto abbastanza
strano in cui passare il '68 e dintorni, in cui pure allora mi si
trovava invariabilmente). Ho anzi l'impressione, malsicura, di aver
incontrato, lì, anche Pietro Valpreda, forse quando si
preparava la manifestazione per il quarantesimo anniversario dei
patti lateranensi: un tema fin troppo tipicamente radicale, cui gli
anarchici, però, non erano insensibili.
In effetti, era un bel po' che
lavoravamo insieme, con una certa proficua indifferenza agli steccati
ideologici. Ma il potere corrompe in molti modi: anche seminando i
sospetti. Succede in tempi ideologicamente tranquilli: figuriamoci
allora, dopo quei mesi esaltanti, ma per certi versi confusi, nello
stato di choc causato dall'esplosione di piazza Fontana.
In realtà, le provocazioni del
potere non erano esattamente una novità. Le sedi politiche dei
gruppi libertari (contandovi, con qualche semplificazione, i radicali
milanesi, ma Pannella non era d'accordo) erano effettivamente dei
posti "strani": vi ci si sviluppava un'esperienza
interessante, vivace, per molti versi diversa da quella del movimento
degli studenti, che cominciava, a Milano, a strutturarsi secondo una
certa ideologia emme-elle che non faceva presagire nulla di buono. Si
parlava di soggetti sociali nuovi, di nuovi bisogni, di istanze
culturali e di progetti di de-cultura. C'era un gran fermento: ai
vecchi militanti si accostavano portatori di etichette, diciamo così,
inedite: situazionisti, provos, onda verde, pacifisti, hippies o
sedicenti tali. Ma questi posti strani erano anche un po' defilati,
rispetto all'attenzione generale, e forse non eravamo gli unici a
condurvi degli esperimenti. Ai margini, così, si aggirava
anche qualche personaggio abbastanza eccentrico. Tra i provos, o gli
hippies, o i beat, o affini, compariva a volte qualche faccia nuova,
o ne sparivano delle vecchie. Il senso della vigilanza non era
vivissimo: non si sapeva neanche che cosa fosse.
Certi amici al bar
Le conseguenze erano abbastanza ovvie
. Ricordo che in via Lanzone s'era stabilito un vecchio compagno
senza casa, senza famiglia, e un po' fuori di testa: era venuto
chissà da dove e fungeva, in teoria, da custode. Ogni tanto,
però, spariva, per ritornare con più soldi in tasca (o
più alcool in corpo) di quanto ne avesse in partenza. Glieli
avevano forniti certi amici che lo avvicinavano al bar. Amici? Sì,
amici: membri dell'ufficio politico, magari, ma sempre amici suoi.
Bah... Negli anni precedenti avevamo conosciuto anche il giovane
commissario Calabresi.
Lo si incontrava ogni tanto, in
servizio; mi sembra persino che ci avesse scortati, amichevolmente,
quando eravamo partiti (anarchici, radicali, provos e sbandati vari)
per una marcia per la pace nella remota direzione delle basi NATO di
Vicenza.
I rapporti con l'ufficio politico, del
resto, non erano cattivi: una volta che su un bollettino ciclostilato
avevamo pubblicato una notizia imprecisa a proposito della polizia,
ci telefonarono cortesemente per evitarci la gaffe. Sì, il
bollettino non era ancora uscito, ma lo conoscevano lo stesso...
Sapevano sempre tutto. Ogni tanto, quando nasceva una specie di
dubbio su una faccia o su una figura nuova (o vecchia), si prendeva
da parte l'interessato e gli si confidava, in assoluto riserbo, che
in quel tal posto, in quel tal casolare, in quel deposito fuori mano,
erano conservati documenti importanti, indirizzi compromettenti,
addirittura armi (non avremmo toccato un'arma per nulla al mondo, ma
non importa) e si restava con fiducia in attesa della perquisizione.
Nove volte su dieci arrivava: ed era, vuoi mettere, una gran bella
soddisfazione.
Quando ripenso a quegli anni, quelli
che vanno, diciamo dal '65 al '69, a volte ho l'impressione di una
specie di balletto, con degli strani risvolti grotteschi.
Eppure era importante, in quella fase
di risveglio politico e di contestazione del già dato, tenere
aperti anche alcuni poli libertari, non esclusivamente studenteschi e
ideologicamente non troppo dogmatici.
Quando entrarono nel gioco gli operai
non sindacalizzati delle grandi fabbriche capimmo (quasi) tutti che
la posta in gioco era grossa e che quel balletto poteva concludersi
nel più imprevisto dei modi. Gli spazi, di fatto, si
restringevano: in autunno, la sede di via Lanzone era già
chiusa, il partito radicale aveva ritrovato anche a Milano la sua
vecchia funzione e noi del nostro piccolo gruppo eravamo tornati a
essere i soliti cani sciolti. Ma questa è un'altra storia, che
qui non interessa più di tanto.
Le bombe, la morte di Pinelli in
Questura, l'arresto di Valpreda... Furono per tutto il movimento,
nelle Università, nelle scuole, nelle fabbriche, nelle sedi
del vecchio centro e della periferia, il segno che le regole del
gioco erano state improvvisamente e tragicamente stravolte. Qualcuno
aveva gettato sul piatto una posta cui non era facile rispondere: una
posta di morte e di colpa precostituita. In un certo senso era
proprio la fine di un'innocenza, di un modo di far politica che
avevamo goduto e vissuto per una stagione molto breve. Il seguito
sarebbe stato, comunque, diverso: si sarebbe colorato, si sa, di
altro sangue e altre tragedie. Forse, un giorno, si potrà
discutere davvero del significato della violenza politica degli anni
'70 e delle responsabilità relative.
Ma è certo, già ora, che
nessuna ricostruzione giudiziaria potrà cancellare l'ipotesi
che le tragedie successive siano state, tutte, frutto di quel seme
avvelenato.
L'impressione che tutto fosse cambiato
la percepimmo in tanti, all'assemblea improvvisata in Statale, la
sera del 12 dicembre (o quella del giorno dopo? Non ricordo). Fu una
riunione di paura, d'incertezza e di sospetti; che si sciolse alla
svelta, con l'impressione che potesse essere l'ultima. Parecchi
partecipanti, di fatto, tornando a casa scoprirono che era già
cominciato, no, non diremo il rastrellamento, ma il fermo dei soliti
sospetti, e finirono direttamente in questura. Il primo (e il più
tragico) dei tanti futuri teoremi di criminalizzazione era stato
impostato. La morte di Pinelli, qualsiasi cosa sia successa
esattamente in quell'ufficio di via Fatebenefratelli, ne faceva parte
integrale.
Ho sempre creduto che se quel teorema,
allora, non ha funzionato, se c'è stato un movimento negli
anni '70, se la trasformazione storica della società italiana
non è stata gestita integralmente dalla reazione, dipende in
buona parte dal fatto che a quel sospetto e a quelle paure molti
abbiano saputo resistere. Le parole d'ordine famose su Valpreda
innocente e Pinelli assassinato furono quelle attorno a cui si
ricostruì e si riorganizzò un patrimonio politico ed
ideale che aveva corso il rischio d'essere disperso.
Il funerale del 20 dicembre, infine. Un
incubo, a cinque giorni dall'arresto di Valpreda: pochi metri di
corteo in un pomeriggio tetrissimo, in un quartiere circondato, con
un blocco di "forze dell'ordine" che avrebbe praticamente
impedito a tutti di arrivare al cimitero, solo mille duemila persone
presenti... Al di là del dolore e del groppo in gola che
avevamo tutti, alcuni ci videro quasi una sconfitta politica (i
compagni, a Milano, avevano ben altre capacità di
mobilitazione). Altri, invece, lo hanno cantato come l'inizio di una
ripresa. Non so: era, certamente, un momento ancora d'incertezza: per
me è sempre stata espressa dalla figura di un ragazzo cui ero
vicino, che cercava di non scoppiare in lacrime, e tormentava il
gagliardetto rosso di un gruppo bordighista (le vecchie sette
eretiche erano le uniche organizzazioni costituite, allora) , incerto
se spiegarlo, a significare una presenza e a riaffermare un'identità
che non era quella della maggior parte dei presenti, o tenerlo
arrotolato in nome di un'unità tutta da riconquistare.
Mi piacerebbe dire che prevalse questa
seconda logica, ma in realtà non ricordo proprio come andò
a finire. Quel che è certo è che i presenti la paura e
il sospetto l'avevano superati (o avevano deciso di superarli, che in
fondo è lo stesso) . Da una consapevolezza morale stava per
nascere una nuova determinazione politica.
Di questo, fra l'altro, dobbiamo essere
grati alla memoria di Giuseppe Pinelli.
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