Rivista Anarchica Online
Ecologia sociale perché
di Murray Bookchin
Arriva in queste settimane nelle
librerie la nuova edizione (per i tipi di Eleuthera) de "L'ecologia
della libertà" di Murray Bookchin, anarchico
statunitense, fondatore dell'ecologia sociale. Riproduciamo qui ampi stralci della
prefazione che Bookchin ha scritto per questa terza edizione italiana
del suo attualissimo libro.
Non è più possibile,
oggi, considerare i problemi ecologici poco importanti, marginali,
"borghesi". I dati sull'incremento planetario
della temperatura dovuto al crescente tasso di anidride carbonica
nell'atmosfera (il cosiddetto "effetto serra") e la
scoperta di immensi buchi nello strato di ozono - un fenomeno
attribuito al larghissimo uso di clorofluorocarburi, che consente
l'ingresso di mortali radiazioni ultraviolette - e, ancora,
l'inquinamento massiccio degli oceani, dell'aria, dell'acqua potabile
e del cibo, la diffusa deforestazione causata dalle piogge acide e
dai tagli insensati, la disseminazione di materiale radioattivo lungo
la catena alimentare... tutto ciò ha dato all'ecologia
un'importanza che non ha mai avuto in passato. La società
attuale sta danneggiando il pianeta a livelli tali da superare le
capacità d'auto-risanamento della Terra. Ci stiamo sempre più
avvicinando al momento in cui il pianeta non sarà più
in grado di mantenere la specie umana e le complesse forme non umane
di vita che si sono sviluppate in miliardi di anni di evoluzione
organica.
Quaranta milioni di bisonti
Ora, di fronte a questo scenario
catastrofico, c'è il rischio, per quello che posso giudicare
dalle tendenze in atto in Nord America e in alcuni Paesi dell'Europa
occidentale, che ci si volga a curare i sintomi anziché le
cause, che la gente ecologicamente impegnata cerchi soluzioni
cosmetiche anziché risposte durevoli. Certo, la crescita dei
movimenti "verdi" un po' in tutto il mondo - compreso il
Terzo Mondo - testimonia dell'esistenza d'un nuovo impulso ad
occuparsi correttamente del disastro ecologico. Ma quel che appare
sempre più chiaro è che c'è bisogno di ben più
che di un "impulso". Per quanto sia importante fermare la
costruzione di centrali nucleari, di autostrade, di grandi
agglomerati urbani e l'uso di sostanze chimiche micidiali in
agricoltura e nell'industria alimentare, bisogna rendersi conto che
le forze che conducono la società verso la distruzione
planetaria hanno le loro radici in un'economia mercantile da
"cresci-o-muori", in un modo di produzione che deve
espandersi in quanto sistema concorrenziale. Quello che è in
ballo non è una semplice questione di "moralità",
di "psicologia", di "ingordigia". Dato un mondo
concorrenziale in cui ognuno è ridotto a compratore o
venditore e in cui ogni impresa deve espandersi in un contesto
economico di cane-mangia-cane, la crescita illimitata è
inevitabile. Essa acquisisce l'inesorabilità di una legge
fisica che funziona indipendentemente dalle intenzioni individuali,
dalle propensioni psicologiche, dalle considerazioni etiche. Attribuire tutta la colpa dei nostri
problemi ecologici alla tecnologia o alla "mentalità
tecnologica" e all'aumento demografico (per prendere due degli
argomenti che più spesso emergono nei mass-media) è
come prendersela, per un'ammaccatura, con la porta che abbiamo
colpito o con il cemento su cui siamo caduti. La tecnologia - ed
anche la cattiva tecnologia, come i reattori nucleari –
amplifica problemi esistenti; di per sé non li produce.
La crescita della popolazione è un problema relativo, se pur
lo è. I demografi da molto tempo sanno che normalmente quello
che fa impennare le statistiche sono la povertà materiale e lo
sfacelo culturale, non le migliorate condizioni di vita. A dire il
vero non si sa ancora bene quanta gente potrebbe vivere decentemente
sul pianeta senza produrre sconvolgimenti ecologici. Gli Stati Uniti,
nell'ultima metà del diciannovesimo secolo, hanno spazzato via
quaranta milioni di bisonti, hanno sterminato specie come il piccione
viaggiatore i cui stormi oscuravano il cielo, hanno distrutto vaste
aree di foresta originaria ed eroso ottima terra coltivabile per una
superficie pari a quella di un grande Paese europeo... e tutto questo
danno l'hanno fatto con una popolazione di meno di cento milioni e
con una tecnologia piuttosto arretrata per i nostri standard attuali.
Insomma, ben altri fattori che non la
tecnologia e la pressione demografica erano all'opera quando si
dispiegò questo grande dramma di spoliazione. La piaga che
affliggeva il continente americano era più devastante d'una
invasione di locuste. Era un ordine sociale che si dovrebbe chiamare
senza tante cerimonie per quello che era ed è: capitalismo,
nella sua versione privata all'Ovest e nella sua forma burocratica
all'Est. Eufemismi come "società tecnologica" o
"società industriale", termini così diffusi
nella letteratura ecologica contemporanea, tendono a mascherare con
espressioni metaforiche la brutale realtà di una società
predatoria. Essi tendono a distogliere la nostra attenzione dalla
natura sfruttatrice di un'economia strutturata sulla competizione
anziché sui bisogni degli esseri umani e della vita non-umana.
Così la tecnologia e l'industria vengono rappresentati come i
protagonisti malvagi di questo dramma, al posto del mercato e
dell'illimitata accumulazione di capitale, al posto cioè di un
sistema di accumulazione (di "crescita") che alla fine si
mangerà l'intera biosfera, se gli si consentirà di
sopravvivere abbastanza a lungo. Agli enormi problemi sistemici creati
da questo ordine sociale si debbono aggiungere gli enormi problemi
sistemici creati da una mentalità che cominciò a
svilupparsi assai prima della nascita del capitalismo e che in esso è
stata completamente assorbita. Mi riferisco alla mentalità
strutturata attorno alla gerarchia e al dominio, in cui il dominio
dell'uomo sull'uomo ha dato origine al concetto che dominare la
natura fosse "destino", anzi necessità dell'umanità.
Ora, il fatto che nel pensiero ecologico abbia cominciato a filtrare
l'idea che questa concezione del "destino" umano sia
perniciosa è certo confortante. Tuttavia non s'è ancora
compreso chiaramente come questa concezione sia sorta, perché
persista e come possa essere eliminata. E invece si debbono esplorare
le origini della gerarchia e del dominio, se si vuole trovare un
rimedio allo sconquasso ecologico. Il fatto che la gerarchia in tutte
le sue forme - dominio dell'anziano sul giovane, dell'uomo sulla
donna, dell'uomo in forma di subordinazione di classe, di casta, di
etnia o di una qualsiasi delle altre possibili stratificazioni di
status sociale - non sia stata identificata come un ambito di dominio
assai più ampio del solo dominio di classe è stata una
delle carenze cruciali del pensiero radicale. Nessuna liberazione
sarà mai completa, nessun tentativo di creare un'armonia tra
gli esseri umani e tra l'umanità e la natura potrà mai
avere successo finché non saranno state sradicate tutte le
gerarchie e non solo le classi, tutte le forme di dominio e non solo
lo sfruttamento economico.
Non-gerarchica e senza classi
Queste idee costituiscono il nucleo
essenziale della mia concezione d'ecologia sociale e di questo
libro L'ecologia della libertà. Ho accuratamente
sottolineato l'uso che faccio del termine "sociale", quando
mi occupo di questioni ecologiche, per introdurre un altro concetto
fondamentale: nessuno dei principali problemi ecologici che ci
troviamo oggi ad affrontare può essere risolto senza un
profondo mutamento sociale. È questa un'idea le cui
implicazioni non sono ancora state pienamente assimilate dal
movimento ecologico. Portata alle sue logiche conclusioni significa
che non si può pensare di trasformare la società
presente un po' alla volta, con piccoli cambiamenti. Per lo più,
questi piccoli cambiamenti non sono altro che colpi di freno che
possono solo sperare di ridurre la folle velocità con cui la
biosfera viene distrutta. Certo, dobbiamo guadagnare quanto più
tempo possiamo, in questa corsa contro il biocidio. E dobbiamo fare
tutto il possibile per non farci superare. Ma ciò nonostante
il biocidio proseguirà, a meno che non si convinca la gente
che è necessario un mutamento radicale e non ci si organizzi a
tale scopo. Si deve accettare il fatto che l'attuale società
capitalistica deve essere sostituita da quella che io chiamo "società
ecologica", cioè da una società che implichi i
radicali mutamenti sociali indispensabili per eliminare gli abusi
ecologici.
Anche sulla natura di tale società
"ecologica" si deve approfonditamente riflettere e
dibattere. Alcune conclusioni in merito sono quasi ovvie. Una società
ecologica deve essere non gerarchica e senza classi, se deve
eliminare il concetto stesso di dominio sulla natura. A questo
proposito, non si può non riandare ai fondamenti
dell'eco-anarchismo di un Kropotkin ed ai grandi ideali illuministici
di ragione, libertà, forza emancipatrice dell'istruzione,
portati avanti da un Malatesta ed un Berneri. Meglio, gli ideali
umanistici che guidarono i pensatori anarchici d'un tempo debbono
essere nel loro complesso recuperati e fatti progredire nella forma
d'un umanesimo ecologico che incarni una nuova razionalità,
una nuova scienza, una nuova tecnologia: temi tutti che ho sviluppato
nell'undicesimo capitolo di questo libro.
Il motivo per cui ho sottolineato gli
ideali illuministici libertari non è semplicemente
riconducibile ai miei gusti, alle mie predilezioni ideologiche. Si
tratta, in realtà, di ideali che non possono non essere presi
in attenta considerazione da qualunque individuo impegnato
ecologicamente. Oggigiorno, in tutto il mondo, si offrono inquietanti
alternative ai movimenti ecologici. Da un lato si va diffondendo,
soprattutto in Nord America, ma anche in Europa, una sorta di
malattia spirituale, un atteggiamento contro-illuministico che, in
nome del "ritorno alla natura", evoca atavici
irrazionalismi, misticismi, religiosità dichiaratamente
"pagane". Culti delle "divinità femminili",
"tradizioni paleolitiche" (o, secondo i gusti,
"neolitiche"), rituali "ecologici" (insomma tutta
una sorta di ecologia voodoo - autodefinitasi "ecologia
profonda" che, quanto a primitivismo, fa il pari con l'economia
voodoo dell'Amministrazione Reagan) vanno prendendo piede di qua e di
là dell'Atlantico in nome di una "nuova spiritualità".
Questo revival di primitivismo non è
per nulla un fenomeno innocuo: spesso è permeato di un perfido
neo-maltusianesimo che sostanzialmente si prefigge di lasciare morire
di fame i poveri, in special modo le vittime delle carestie nel Terzo
Mondo, allo scopo di "ridurre la popolazione". La Natura -
ci si dice - dev'essere lasciata libera di "seguire il suo
corso", la fame, la carestia non sono causate - ci si dice -
dall'agribusiness, dal saccheggio delle grandi imprese, dalle
rivalità imperiali, dalle guerre civili nazionalistiche; esse
traggono origine dalla sovrappopolazione. In questo modo i problemi
ecologici vengono completamente svuotati del loro contenuto sociale e
ridotti alla mitica intenzione delle "forze naturali",
spesso con accenti razzistici che puzzano di fascismo. Dall'altro lato, è in via di
costruzione un mito tecnocratico secondo il quale la scienza e
l'ingegneria risolverebbero tutti i mali ecologici. Come nelle utopie
di H.G. Wells, ci si chiede di credere che v'è bisogno di una
nuova élite per pianificare la soluzione della crisi
ecologica. Fantasie del genere sono implicite nella concezione della
Terra come di una "astronave" (secondo la grottesca
metafora di Buckminister Fuller), che può essere manipolata
dall'ingegneria genetica, dall'ingegneria nucleare, dall'ingegneria
elettronica, dall'ingegneria politica (tanto per dare un nome
altisonante alla burocrazia). Ci si parla dell'esigenza di una
maggiore centralizzazione dello Stato, che sfocerebbe nella creazione
di "Mega-Stati", in raggelante parallelo con le imprese
multinazionali. E come la mitologia è diventata assai popolare
tra gli eco-mistici , tra i sostenitori di un primitivismo in
versione ecologica, così la teoria sistemica ha raggiunto una
grande popolarità tra gli eco-tecnocrati, tra i fautori del
futurismo in versione ecologica. In entrambi i casi gli ideali
libertari dell'Illuminismo - la sua valorizzazione della libertà,
dell'istruzione, dell'autonomia individuale - vengono negati dalla
simmetrica pretesa di respingerci a quattro zampe verso un "passato"
oscuro, mistificato e sinistro o di catapultarci come missili in un
"futuro" radioso, ma altrettanto mistificante e sinistro.
Che cos'è la natura
L'ecologia sociale, così come la
presento in questo libro, lancia un messaggio che non è
primitivistico né tecnocratico. Essa cerca di definire il
posto dell'umanità nella natura - posto singolare,
posto straordinario - senza ricadere in un mondo di anti-tecnologici
cavernicoli, da un lato, e senza volar via dal pianeta con
fantascientifiche astronavi e stazioni orbitali, dall'altro.
L'umanità, sostengo, è, parte della natura anche
se differisce profondamente dalla vita non-umana per la
capacità che ha di pensare concettualmente e di comunicare
simbolicamente.
La natura, a sua volta, non è
semplicemente una scena panoramica da guardare passivamente
attraverso una finestra; essa è l'insieme dell'evoluzione,
l'evoluzione nella sua totalità, proprio come l'individuo è
la sua intera biografia, non una semplice somma di dati numerici che
misurano il suo peso, la sua altezza e magari la sua "intelligenza"
e via di seguito. Gli esseri umani non sono soltanto una delle tante
forme di vita, una forma meramente specializzata per occupare una
delle tante nicchie ecologiche del mondo naturale. Sono esseri che,
perlomeno potenzialmente, potrebbero rendere l'evoluzione biotica
autocosciente e consapevolmente auto-direzionata. Con questo non
voglio dire che l'umanità arriverà mai ad avere una
conoscenza sufficiente delle complessità del mondo naturale
tale da poter prendere il "timone" dell'evoluzione naturale
e dirigerla del tutto a sua volontà. Anzi, le mie riflessioni
sulla spontaneità nel primo capitolo di questo libro mirano
proprio a suggerire la prudenza negli interventi sul mondo naturale,
a sostenere che si deve modificare con grande cautela. Ma, come ho
argomentato in Thinking Ecologically (pubblicato in italiano
con il titolo Non sottovalutiamo la specie umana su
"Volontà" 2-3/87), quello che veramente ci fa unici,
singolari nello schema ecologico delle cose, è che possiamo
intervenire in natura con un grado d'autocoscienza e di flessibilità
sconosciuto a tutte le altre specie.
Che poi noi lo si faccia in modo
creativo o distruttivo costituisce forse il più grave problema
che dobbiamo affrontare in ogni riflessione sulla nostra interazione
con la natura. Se la nostra potenzialità umana di dare
auto-direzionalità consapevole alla natura è enorme,
dobbiamo però ricordarci che oggi siamo ancora meno che umani.
La nostra è ancora una specie
divisa - divisa antagonisticamente per età, genere,
classe, reddito, etnia, eccetera - non una specie unita. Parlare di
"umanità" in termini zoologici come fanno di questi
tempi tanti ecologisti - anzi trattare la gente come una mera specie
anziché come esseri sociali che vivono in complesse
creazioni istituzionali e non in una primeva landa selvatica - è
ingenua assurdità.
Un'umanità "illuminata"
giunta a rendersi conto delle sue piene potenzialità in una
società ecologicamente armoniosa è solo una speranza,
non certo una realtà esistente, un "dover essere" e
non un "essere". Anzi finché non avremo creato una
società ecologica, la nostra capacità di ucciderci tra
di noi e di devastare il pianeta farà - come fa - di noi una
specie meno evoluta di altre. Non riuscire a vedere che il problema
di attingere la nostra piena umanità è un problema
sociale che dipende da fondamentali mutamenti istituzionali
culturali significa ridurre l'ecologia radicale a zoologia e rendere
chimerico qualsiasi tentativo di realizzare una società
ecologica.
Legami comunitari
Com'è possibile conseguire
quelle trasformazioni sociali di grande portata che io propongo? Non
credo che esse possano avvenire tramite l'apparato statale, vale a
dire, in un sistema parlamentare, tramite la sostituzione di un
partito con un altro partito (per quanto altamente ispirato possa
essere apparso quest'ultimo durante il suo previo periodo eroico e
formativo). La mia esperienza con il movimento verde tedesco mi ha
chiarito (ammesso che su ciò avessi bisogno di chiarimenti)
che il parlamentarismo è moralmente dannoso nel migliore dei
casi e del tutto corrotto nel peggiore. La rappresentanza dei verdi
al Bundestag ha confermato, in questi ultimi tempi, i miei peggiori
timori: la sua maggioranza "realistica" è favorevole
alla partecipazione della Germania occidentale alla NATO e sostiene
una forma di "eco-capitalismo" (contraddizione in termini)
incompatibile con qualunque approccio radical-ecologico. Ed è inoltre altrettanto
importante il fatto che il parlamentarismo invariabilmente mina la
partecipazione popolare alla politica, nel significato che a
questa parola fu attribuito tanti secoli fa. Per gli antichi
Ateniesi, la parola politica significava la gestione della
polis - cioè della città - da parte dei suoi
cittadini in assemblee faccia-a-faccia, non tramite burocrazie e
cosiddetti rappresentanti. È
vero che cittadini ateniesi erano solo i maschi e che queste
assemblee, oltre alle donne escludevano anche gli stranieri e gli
schiavi. È vero, anche, che c'erano cittadini facoltosi che
disponevano di risorse materiali e godevano di privilegi negati ai
cittadini poveri.
Ma è anche vero che l'antica
società mediterranea non era arrivata al suo pieno compimento,
oltre duemila anni fa: non era ancora giunta alla "sua verità",
per dirla con Hegel. La libertà di partecipazione alla vita
politica del cittadino non poggiava sulla tecnologia, poggiava sul
lavoro degli schiavi e delle donne, oltre che sul suo. Aristotele non
aveva problemi ad ammettere che quando i telai avessero potuto
tessere da soli i Greci non avrebbero più avuto bisogno di
schiavi, né - aggiungo io - di sfruttare il lavoro altrui per
avere tempo libero per sé. Oggi le macchine possono
fare quel che diceva Aristotele... e molto di più.
Possiamo finalmente fruire del tempo libero necessario a sviluppare
noi stessi ed un ambito genuinamente partecipativo della vita
pubblica senza mettere in pericolo il mondo naturale e senza
sfruttare il lavoro altrui. L'ecologia radical non può essere
indifferente alla realtà materiale della vita umana, non può
essere indifferente alle relazioni sociali né a quelle
economiche. Il delicato equilibrio esistente tra l'uso della
tecnologia a fini di libertà ed il suo uso a fini distruttivi
per il pianeta è materia di giudizio sociale, ma un
giudizio che viene insensatamente offuscato quando ecologisti sui
generis denunciano la tecnologia come un male irrecuperabile o la
esaltano come una virtù indiscutibile.
È
curioso, mistici e tecnocrati hanno un'importante caratteristica in
comune: né gli uni né gli altri sanno esaminare a fondo
una questione né seguirne la logica al di là delle più
elementari e semplicistiche premesse. Una nuova politica dovrebbe, secondo
me, implicare la creazione di una sfera pubblica "di base"
estremamente partecipativa, a livello di città, di paese, di
villaggio, di quartiere. Il capitalismo certamente ha prodotto tanta
distruzione dei legami comunitari quanta devastazione del mondo
naturale.
In entrambi i casi, ci troviamo di
fronte alla semplificazione delle relazioni umane e non-umane, alla
loro riduzione alle più elementari forme interattive e
comunitarie. Ma laddove esistono ancora legami comunitari e laddove -
anche nelle più grandi città - possono nascere interessi
comuni, essi devono essere coltivati e sviluppati. Ho studiato questo
tipo di politica comunale (ripeto: intendo politica nel senso
ellenico, non nel suo significato attuale che io designo come
statualità) nel mio The Rise of Urbanization
and the Decline of Citizenship (Sierra Club, 1987), non ancora
tradotto in Italia. Un sunto delle mie opinioni in merito è
apparso in italiano con il titolo Per un municipalismo libertario
("Volontà", 4/85). Per quanto possa apparire
discutibile in Europa (ma meno, ritengo, negli Stati Uniti), io credo
alla possibilità di una confederazione di libere municipalità
come contropotere di base che si opponga alla crescente
centralizzazione del potere da parte dello Stato-nazione. Su questo
terreno, vorrei far notare, una politica ecologica è
non solo possibile in molti casi, ma è anche coerente con
l'ecologia concepita come studio delle comunità, sia umane,
sia non-umane. Una società ecologica presuppone quelle forme
partecipative, di base, comunitarie che tale politica si prefigge di
realizzare nel futuro. L'ecologia non è nulla se non si occupa
del modo in cui le forme di vita interagiscono tra loro per costruire
comunità e per evolversi come comunità (...).
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