Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 18 nr. 159
novembre 1988


Rivista Anarchica Online

Ecologia sociale perché
di Murray Bookchin

Arriva in queste settimane nelle librerie la nuova edizione (per i tipi di Eleuthera) de "L'ecologia della libertà" di Murray Bookchin, anarchico statunitense, fondatore dell'ecologia sociale. Riproduciamo qui ampi stralci della prefazione che Bookchin ha scritto per questa terza edizione italiana del suo attualissimo libro.

Non è più possibile, oggi, considerare i problemi ecologici poco importanti, marginali, "borghesi".
I dati sull'incremento planetario della temperatura dovuto al crescente tasso di anidride carbonica nell'atmosfera (il cosiddetto "effetto serra") e la scoperta di immensi buchi nello strato di ozono - un fenomeno attribuito al larghissimo uso di clorofluorocarburi, che consente l'ingresso di mortali radiazioni ultraviolette - e, ancora, l'inquinamento massiccio degli oceani, dell'aria, dell'acqua potabile e del cibo, la diffusa deforestazione causata dalle piogge acide e dai tagli insensati, la disseminazione di materiale radioattivo lungo la catena alimentare... tutto ciò ha dato all'ecologia un'importanza che non ha mai avuto in passato. La società attuale sta danneggiando il pianeta a livelli tali da superare le capacità d'auto-risanamento della Terra. Ci stiamo sempre più avvicinando al momento in cui il pianeta non sarà più in grado di mantenere la specie umana e le complesse forme non umane di vita che si sono sviluppate in miliardi di anni di evoluzione organica.

Quaranta milioni di bisonti
Ora, di fronte a questo scenario catastrofico, c'è il rischio, per quello che posso giudicare dalle tendenze in atto in Nord America e in alcuni Paesi dell'Europa occidentale, che ci si volga a curare i sintomi anziché le cause, che la gente ecologicamente impegnata cerchi soluzioni cosmetiche anziché risposte durevoli. Certo, la crescita dei movimenti "verdi" un po' in tutto il mondo - compreso il Terzo Mondo - testimonia dell'esistenza d'un nuovo impulso ad occuparsi correttamente del disastro ecologico. Ma quel che appare sempre più chiaro è che c'è bisogno di ben più che di un "impulso". Per quanto sia importante fermare la costruzione di centrali nucleari, di autostrade, di grandi agglomerati urbani e l'uso di sostanze chimiche micidiali in agricoltura e nell'industria alimentare, bisogna rendersi conto che le forze che conducono la società verso la distruzione planetaria hanno le loro radici in un'economia mercantile da "cresci-o-muori", in un modo di produzione che deve espandersi in quanto sistema concorrenziale. Quello che è in ballo non è una semplice questione di "moralità", di "psicologia", di "ingordigia". Dato un mondo concorrenziale in cui ognuno è ridotto a compratore o venditore e in cui ogni impresa deve espandersi in un contesto economico di cane-mangia-cane, la crescita illimitata è inevitabile. Essa acquisisce l'inesorabilità di una legge fisica che funziona indipendentemente dalle intenzioni individuali, dalle propensioni psicologiche, dalle considerazioni etiche.
Attribuire tutta la colpa dei nostri problemi ecologici alla tecnologia o alla "mentalità tecnologica" e all'aumento demografico (per prendere due degli argomenti che più spesso emergono nei mass-media) è come prendersela, per un'ammaccatura, con la porta che abbiamo colpito o con il cemento su cui siamo caduti. La tecnologia - ed anche la cattiva tecnologia, come i reattori nucleari – amplifica problemi esistenti; di per sé non li produce. La crescita della popolazione è un problema relativo, se pur lo è. I demografi da molto tempo sanno che normalmente quello che fa impennare le statistiche sono la povertà materiale e lo sfacelo culturale, non le migliorate condizioni di vita. A dire il vero non si sa ancora bene quanta gente potrebbe vivere decentemente sul pianeta senza produrre sconvolgimenti ecologici. Gli Stati Uniti, nell'ultima metà del diciannovesimo secolo, hanno spazzato via quaranta milioni di bisonti, hanno sterminato specie come il piccione viaggiatore i cui stormi oscuravano il cielo, hanno distrutto vaste aree di foresta originaria ed eroso ottima terra coltivabile per una superficie pari a quella di un grande Paese europeo... e tutto questo danno l'hanno fatto con una popolazione di meno di cento milioni e con una tecnologia piuttosto arretrata per i nostri standard attuali.
Insomma, ben altri fattori che non la tecnologia e la pressione demografica erano all'opera quando si dispiegò questo grande dramma di spoliazione. La piaga che affliggeva il continente americano era più devastante d'una invasione di locuste. Era un ordine sociale che si dovrebbe chiamare senza tante cerimonie per quello che era ed è: capitalismo, nella sua versione privata all'Ovest e nella sua forma burocratica all'Est. Eufemismi come "società tecnologica" o "società industriale", termini così diffusi nella letteratura ecologica contemporanea, tendono a mascherare con espressioni metaforiche la brutale realtà di una società predatoria. Essi tendono a distogliere la nostra attenzione dalla natura sfruttatrice di un'economia strutturata sulla competizione anziché sui bisogni degli esseri umani e della vita non-umana. Così la tecnologia e l'industria vengono rappresentati come i protagonisti malvagi di questo dramma, al posto del mercato e dell'illimitata accumulazione di capitale, al posto cioè di un sistema di accumulazione (di "crescita") che alla fine si mangerà l'intera biosfera, se gli si consentirà di sopravvivere abbastanza a lungo.
Agli enormi problemi sistemici creati da questo ordine sociale si debbono aggiungere gli enormi problemi sistemici creati da una mentalità che cominciò a svilupparsi assai prima della nascita del capitalismo e che in esso è stata completamente assorbita. Mi riferisco alla mentalità strutturata attorno alla gerarchia e al dominio, in cui il dominio dell'uomo sull'uomo ha dato origine al concetto che dominare la natura fosse "destino", anzi necessità dell'umanità. Ora, il fatto che nel pensiero ecologico abbia cominciato a filtrare l'idea che questa concezione del "destino" umano sia perniciosa è certo confortante. Tuttavia non s'è ancora compreso chiaramente come questa concezione sia sorta, perché persista e come possa essere eliminata. E invece si debbono esplorare le origini della gerarchia e del dominio, se si vuole trovare un rimedio allo sconquasso ecologico. Il fatto che la gerarchia in tutte le sue forme - dominio dell'anziano sul giovane, dell'uomo sulla donna, dell'uomo in forma di subordinazione di classe, di casta, di etnia o di una qualsiasi delle altre possibili stratificazioni di status sociale - non sia stata identificata come un ambito di dominio assai più ampio del solo dominio di classe è stata una delle carenze cruciali del pensiero radicale. Nessuna liberazione sarà mai completa, nessun tentativo di creare un'armonia tra gli esseri umani e tra l'umanità e la natura potrà mai avere successo finché non saranno state sradicate tutte le gerarchie e non solo le classi, tutte le forme di dominio e non solo lo sfruttamento economico.

Non-gerarchica e senza classi
Queste idee costituiscono il nucleo essenziale della mia concezione d'ecologia sociale e di questo libro L'ecologia della libertà. Ho accuratamente sottolineato l'uso che faccio del termine "sociale", quando mi occupo di questioni ecologiche, per introdurre un altro concetto fondamentale: nessuno dei principali problemi ecologici che ci troviamo oggi ad affrontare può essere risolto senza un profondo mutamento sociale. È questa un'idea le cui implicazioni non sono ancora state pienamente assimilate dal movimento ecologico. Portata alle sue logiche conclusioni significa che non si può pensare di trasformare la società presente un po' alla volta, con piccoli cambiamenti. Per lo più, questi piccoli cambiamenti non sono altro che colpi di freno che possono solo sperare di ridurre la folle velocità con cui la biosfera viene distrutta. Certo, dobbiamo guadagnare quanto più tempo possiamo, in questa corsa contro il biocidio. E dobbiamo fare tutto il possibile per non farci superare. Ma ciò nonostante il biocidio proseguirà, a meno che non si convinca la gente che è necessario un mutamento radicale e non ci si organizzi a tale scopo. Si deve accettare il fatto che l'attuale società capitalistica deve essere sostituita da quella che io chiamo "società ecologica", cioè da una società che implichi i radicali mutamenti sociali indispensabili per eliminare gli abusi ecologici.
Anche sulla natura di tale società "ecologica" si deve approfonditamente riflettere e dibattere. Alcune conclusioni in merito sono quasi ovvie. Una società ecologica deve essere non gerarchica e senza classi, se deve eliminare il concetto stesso di dominio sulla natura. A questo proposito, non si può non riandare ai fondamenti dell'eco-anarchismo di un Kropotkin ed ai grandi ideali illuministici di ragione, libertà, forza emancipatrice dell'istruzione, portati avanti da un Malatesta ed un Berneri. Meglio, gli ideali umanistici che guidarono i pensatori anarchici d'un tempo debbono essere nel loro complesso recuperati e fatti progredire nella forma d'un umanesimo ecologico che incarni una nuova razionalità, una nuova scienza, una nuova tecnologia: temi tutti che ho sviluppato nell'undicesimo capitolo di questo libro.
Il motivo per cui ho sottolineato gli ideali illuministici libertari non è semplicemente riconducibile ai miei gusti, alle mie predilezioni ideologiche. Si tratta, in realtà, di ideali che non possono non essere presi in attenta considerazione da qualunque individuo impegnato ecologicamente. Oggigiorno, in tutto il mondo, si offrono inquietanti alternative ai movimenti ecologici. Da un lato si va diffondendo, soprattutto in Nord America, ma anche in Europa, una sorta di malattia spirituale, un atteggiamento contro-illuministico che, in nome del "ritorno alla natura", evoca atavici irrazionalismi, misticismi, religiosità dichiaratamente "pagane". Culti delle "divinità femminili", "tradizioni paleolitiche" (o, secondo i gusti, "neolitiche"), rituali "ecologici" (insomma tutta una sorta di ecologia voodoo - autodefinitasi "ecologia profonda" che, quanto a primitivismo, fa il pari con l'economia voodoo dell'Amministrazione Reagan) vanno prendendo piede di qua e di là dell'Atlantico in nome di una "nuova spiritualità".
Questo revival di primitivismo non è per nulla un fenomeno innocuo: spesso è permeato di un perfido neo-maltusianesimo che sostanzialmente si prefigge di lasciare morire di fame i poveri, in special modo le vittime delle carestie nel Terzo Mondo, allo scopo di "ridurre la popolazione". La Natura - ci si dice - dev'essere lasciata libera di "seguire il suo corso", la fame, la carestia non sono causate - ci si dice - dall'agribusiness, dal saccheggio delle grandi imprese, dalle rivalità imperiali, dalle guerre civili nazionalistiche; esse traggono origine dalla sovrappopolazione. In questo modo i problemi ecologici vengono completamente svuotati del loro contenuto sociale e ridotti alla mitica intenzione delle "forze naturali", spesso con accenti razzistici che puzzano di fascismo.
Dall'altro lato, è in via di costruzione un mito tecnocratico secondo il quale la scienza e l'ingegneria risolverebbero tutti i mali ecologici. Come nelle utopie di H.G. Wells, ci si chiede di credere che v'è bisogno di una nuova élite per pianificare la soluzione della crisi ecologica. Fantasie del genere sono implicite nella concezione della Terra come di una "astronave" (secondo la grottesca metafora di Buckminister Fuller), che può essere manipolata dall'ingegneria genetica, dall'ingegneria nucleare, dall'ingegneria elettronica, dall'ingegneria politica (tanto per dare un nome altisonante alla burocrazia). Ci si parla dell'esigenza di una maggiore centralizzazione dello Stato, che sfocerebbe nella creazione di "Mega-Stati", in raggelante parallelo con le imprese multinazionali. E come la mitologia è diventata assai popolare tra gli eco-mistici , tra i sostenitori di un primitivismo in versione ecologica, così la teoria sistemica ha raggiunto una grande popolarità tra gli eco-tecnocrati, tra i fautori del futurismo in versione ecologica. In entrambi i casi gli ideali libertari dell'Illuminismo - la sua valorizzazione della libertà, dell'istruzione, dell'autonomia individuale - vengono negati dalla simmetrica pretesa di respingerci a quattro zampe verso un "passato" oscuro, mistificato e sinistro o di catapultarci come missili in un "futuro" radioso, ma altrettanto mistificante e sinistro.

Che cos'è la natura
L'ecologia sociale, così come la presento in questo libro, lancia un messaggio che non è primitivistico né tecnocratico. Essa cerca di definire il posto dell'umanità nella natura - posto singolare, posto straordinario - senza ricadere in un mondo di anti-tecnologici cavernicoli, da un lato, e senza volar via dal pianeta con fantascientifiche astronavi e stazioni orbitali, dall'altro. L'umanità, sostengo, è, parte della natura anche se differisce profondamente dalla vita non-umana per la capacità che ha di pensare concettualmente e di comunicare simbolicamente.
La natura, a sua volta, non è semplicemente una scena panoramica da guardare passivamente attraverso una finestra; essa è l'insieme dell'evoluzione, l'evoluzione nella sua totalità, proprio come l'individuo è la sua intera biografia, non una semplice somma di dati numerici che misurano il suo peso, la sua altezza e magari la sua "intelligenza" e via di seguito. Gli esseri umani non sono soltanto una delle tante forme di vita, una forma meramente specializzata per occupare una delle tante nicchie ecologiche del mondo naturale. Sono esseri che, perlomeno potenzialmente, potrebbero rendere l'evoluzione biotica autocosciente e consapevolmente auto-direzionata. Con questo non voglio dire che l'umanità arriverà mai ad avere una conoscenza sufficiente delle complessità del mondo naturale tale da poter prendere il "timone" dell'evoluzione naturale e dirigerla del tutto a sua volontà. Anzi, le mie riflessioni sulla spontaneità nel primo capitolo di questo libro mirano proprio a suggerire la prudenza negli interventi sul mondo naturale, a sostenere che si deve modificare con grande cautela. Ma, come ho argomentato in Thinking Ecologically (pubblicato in italiano con il titolo Non sottovalutiamo la specie umana su "Volontà" 2-3/87), quello che veramente ci fa unici, singolari nello schema ecologico delle cose, è che possiamo intervenire in natura con un grado d'autocoscienza e di flessibilità sconosciuto a tutte le altre specie.
Che poi noi lo si faccia in modo creativo o distruttivo costituisce forse il più grave problema che dobbiamo affrontare in ogni riflessione sulla nostra interazione con la natura. Se la nostra potenzialità umana di dare auto-direzionalità consapevole alla natura è enorme, dobbiamo però ricordarci che oggi siamo ancora meno che umani.
La nostra è ancora una specie divisa - divisa antagonisticamente per età, genere, classe, reddito, etnia, eccetera - non una specie unita. Parlare di "umanità" in termini zoologici come fanno di questi tempi tanti ecologisti - anzi trattare la gente come una mera specie anziché come esseri sociali che vivono in complesse creazioni istituzionali e non in una primeva landa selvatica - è ingenua assurdità.
Un'umanità "illuminata" giunta a rendersi conto delle sue piene potenzialità in una società ecologicamente armoniosa è solo una speranza, non certo una realtà esistente, un "dover essere" e non un "essere". Anzi finché non avremo creato una società ecologica, la nostra capacità di ucciderci tra di noi e di devastare il pianeta farà - come fa - di noi una specie meno evoluta di altre. Non riuscire a vedere che il problema di attingere la nostra piena umanità è un problema sociale che dipende da fondamentali mutamenti istituzionali culturali significa ridurre l'ecologia radicale a zoologia e rendere chimerico qualsiasi tentativo di realizzare una società ecologica.

Legami comunitari
Com'è possibile conseguire quelle trasformazioni sociali di grande portata che io propongo? Non credo che esse possano avvenire tramite l'apparato statale, vale a dire, in un sistema parlamentare, tramite la sostituzione di un partito con un altro partito (per quanto altamente ispirato possa essere apparso quest'ultimo durante il suo previo periodo eroico e formativo). La mia esperienza con il movimento verde tedesco mi ha chiarito (ammesso che su ciò avessi bisogno di chiarimenti) che il parlamentarismo è moralmente dannoso nel migliore dei casi e del tutto corrotto nel peggiore. La rappresentanza dei verdi al Bundestag ha confermato, in questi ultimi tempi, i miei peggiori timori: la sua maggioranza "realistica" è favorevole alla partecipazione della Germania occidentale alla NATO e sostiene una forma di "eco-capitalismo" (contraddizione in termini) incompatibile con qualunque approccio radical-ecologico.
Ed è inoltre altrettanto importante il fatto che il parlamentarismo invariabilmente mina la partecipazione popolare alla politica, nel significato che a questa parola fu attribuito tanti secoli fa. Per gli antichi Ateniesi, la parola politica significava la gestione della polis - cioè della città - da parte dei suoi cittadini in assemblee faccia-a-faccia, non tramite burocrazie e cosiddetti rappresentanti. È vero che cittadini ateniesi erano solo i maschi e che queste assemblee, oltre alle donne escludevano anche gli stranieri e gli schiavi. È vero, anche, che c'erano cittadini facoltosi che disponevano di risorse materiali e godevano di privilegi negati ai cittadini poveri.
Ma è anche vero che l'antica società mediterranea non era arrivata al suo pieno compimento, oltre duemila anni fa: non era ancora giunta alla "sua verità", per dirla con Hegel. La libertà di partecipazione alla vita politica del cittadino non poggiava sulla tecnologia, poggiava sul lavoro degli schiavi e delle donne, oltre che sul suo. Aristotele non aveva problemi ad ammettere che quando i telai avessero potuto tessere da soli i Greci non avrebbero più avuto bisogno di schiavi, né - aggiungo io - di sfruttare il lavoro altrui per avere tempo libero per sé. Oggi le macchine possono fare quel che diceva Aristotele... e molto di più. Possiamo finalmente fruire del tempo libero necessario a sviluppare noi stessi ed un ambito genuinamente partecipativo della vita pubblica senza mettere in pericolo il mondo naturale e senza sfruttare il lavoro altrui. L'ecologia radical non può essere indifferente alla realtà materiale della vita umana, non può essere indifferente alle relazioni sociali né a quelle economiche. Il delicato equilibrio esistente tra l'uso della tecnologia a fini di libertà ed il suo uso a fini distruttivi per il pianeta è materia di giudizio sociale, ma un giudizio che viene insensatamente offuscato quando ecologisti sui generis denunciano la tecnologia come un male irrecuperabile o la esaltano come una virtù indiscutibile.
È curioso, mistici e tecnocrati hanno un'importante caratteristica in comune: né gli uni né gli altri sanno esaminare a fondo una questione né seguirne la logica al di là delle più elementari e semplicistiche premesse.
Una nuova politica dovrebbe, secondo me, implicare la creazione di una sfera pubblica "di base" estremamente partecipativa, a livello di città, di paese, di villaggio, di quartiere. Il capitalismo certamente ha prodotto tanta distruzione dei legami comunitari quanta devastazione del mondo naturale.
In entrambi i casi, ci troviamo di fronte alla semplificazione delle relazioni umane e non-umane, alla loro riduzione alle più elementari forme interattive e comunitarie. Ma laddove esistono ancora legami comunitari e laddove - anche nelle più grandi città - possono nascere interessi comuni, essi devono essere coltivati e sviluppati. Ho studiato questo tipo di politica comunale (ripeto: intendo politica nel senso ellenico, non nel suo significato attuale che io designo come statualità) nel mio The Rise of Urbanization and the Decline of Citizenship (Sierra Club, 1987), non ancora tradotto in Italia. Un sunto delle mie opinioni in merito è apparso in italiano con il titolo Per un municipalismo libertario ("Volontà", 4/85). Per quanto possa apparire discutibile in Europa (ma meno, ritengo, negli Stati Uniti), io credo alla possibilità di una confederazione di libere municipalità come contropotere di base che si opponga alla crescente centralizzazione del potere da parte dello Stato-nazione. Su questo terreno, vorrei far notare, una politica ecologica è non solo possibile in molti casi, ma è anche coerente con l'ecologia concepita come studio delle comunità, sia umane, sia non-umane. Una società ecologica presuppone quelle forme partecipative, di base, comunitarie che tale politica si prefigge di realizzare nel futuro. L'ecologia non è nulla se non si occupa del modo in cui le forme di vita interagiscono tra loro per costruire comunità e per evolversi come comunità (...).