Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 17 nr. 144
marzo 1987


Rivista Anarchica Online

Ipotesi di accoglienza
di Maria Giarraffa / Carmela Leo /Salvatore Mosca

Una casa del pazzo "aperta": è questa la proposta che parte dal Comitato d'Iniziativa Psichiatrica, con sede a Furci Siculo. "Non vogliamo ospitare il folle - spiegano - ma essere noi ospitati nella sua casa". Funzione e costi di una rete d'accoglienza.

Prima e dopo la legge 180 esiste il senso di una continuità nel nostro modo di pensare alla follia e ai folli: l'idea di contenerli sempre e comunque in "luoghi".
Le motivazioni che diamo sono diverse ("perché non si facciano del male", "perché non lo facciano ad altri", "per essere protetti dall'intolleranza e dalla violenza degli altri" etc.), ma tutte pongono l'accento sull'inadeguatezza "oggettiva" del folle nel trovare da sé un equilibrio (senza mediatori) con il proprio ambiente.
Ciò non è sempre vero. È vero piuttosto che noi non offriamo quasi mai al folle l'opportunità di essere autonomo e, al contrario, spesso ci sentiamo minacciati e puniamo la sua autonomia.
Si è creato un nuovo schematismo. Chiusi i manicomi, i folli per uscire devono trovare sul territorio altre case, persone, luoghi pronti e "adatti" ad accoglierli. Chi non può essere "contenuto" in famiglia, va "internato" in una casa famiglia, in una casa albergo, in un laboratorio protetto, in una cooperativa di lavoro. Si sono inventati, cioè, altri spazi "peculiari", "specializzati", "adatti" a queste persone.
Secondo il nostro punto di vista non c'è emancipazione nel passaggio dal reparto manicomiale alla casa famiglia. Anche qui la convivenza è forzata, anche qui si è relegati in un'isola di tolleranza posta nell'oceano dell'intolleranza sociale, anche qui si è completamente "affidati" ad altri.
Il nostro schematismo continua a perpetuare la diversità del folle, il suo essere "incapace" di vivere in autonomia i luoghi aperti del sociale (i posti di lavoro, le case, le piazze, i mezzi pubblici, le scuole...).
D'altro canto spingere l'acceleratore sull'autonomia (in maniera ideologica) ha significato spesso abbandono, indifferenza, esclusione. L'autonomia vera non è assenza totale di dipendenza o di scambio con altri. L'autonomia del folle non si conquista nella nostra assenza. L'esperienza dimostra che l'assenza è spesso una presenza assoluta, persecutoria e invincibile, con cui non ci si può confrontare, che non si può affrontare né superare. L'autonomia del folle si conquista nella nostra presenza reciproca, in luoghi comuni, nel confronto quotidiano.
Noi crediamo che per aiutare quelle diverse migliaia di persone che marciscono ancora nei nostri manicomi chiusi (e al contempo per evitare che altri vi entrino) occorra superare il facile schematismo che legge la realtà e la cultura come inevitabilmente contraria al folle e alla sua autonomia. L'esigenza della casa-famiglia (e degli altri luoghi "protetti" si giustifica infatti nell'idea che sia necessario trovare un luogo intermedio fra il manicomio che distrugge e la comunità/famiglia che rifiuta.
Posto che il manicomio distrugga, non ci sentiamo di abbracciare in toto la seconda supposizione (quantomeno per il fatto che noi siamo parte della comunità). Nella comunità esistono forme di solidarietà e accoglienza spicciola, quotidiana, disorganizzata che non sono valorizzate ma che, a nostro avviso, possono costituire l'alternativa concreta al manicomio.
L'idea in fondo è semplice. Mentre la si propone si sta cercando di realizzarla. Si tratta di utilizzare per ogni soggetto ricoverato in manicomio, tutte le possibilità di solidarietà e i legami che egli mantiene con l'ambiente d'origine (amici, compagni di lavoro, familiari...), cercando di sviluppare, attraverso la conoscenza e l'esperienza, nuova solidarietà nei suoi confronti. Deve essere chiaro che non si riuscirà ad ottenere solidarietà concreta verso il folle come categoria, l'interesse pratico può nascere solo verso persone in carne ed ossa, che occorre conoscere direttamente.
Ora, visto che è chiaramente difficile (ma non impossibile) entrare in molti manicomi per conoscere gli internati; visto che l'ambiente ospedaliero è organizzato in maniera tale da dare al visitatore un messaggio circa l'incurabilità e la pericolosità del folle e circa la necessità di tenerlo nell'istituzione; visto che obiettivamente esistono dei forti pregiudizi, paure ed ansie a recarsi in questi luoghi; allora sembra inevitabile (ma questa è solo una nostra supposizione) che questa conoscenza ed esperienza si possa sviluppare fuori dal manicomio nell'ambiente d'origine.
Uscire comporta, non solo burocraticamente ma anche esistenzialmente, un "punto di riferimento" fisico: una casa. Posto che i familiari, nella stragrande maggioranza dei casi, hanno difficoltà oggettive e soggettive ad accogliere il congiunto in casa, allora occorre trovare altri luoghi ed altre soluzioni.
La follia e la casa si sono finora coniugate in due forme tipiche: la "casa del pazzo" che incute paura; la casa-famiglia, il servizio dove i pazzi sono accolti, accuditi e tenuti sotto controllo e dove si può andare a curiosare, a prendere in giro, a fare atto di pietà cristiana ma, anche, per conoscere.
Noi proponiamo una casa del pazzo "aperta". La paura nasce senz'altro dall'ignoranza e genera paura del pazzo che si chiude in casa a doppia mandata. L'alternativa sta nel creare uno scambio fra il folle in casa e le persone fuori della sua casa che, senza invadere la sua intimità, possa diventare l'occasione per trovare e dare solidarietà, conoscenza, confronto, affetto.
Oltre a ricercare e a valorizzare le potenziali solidarietà e alleanze che il soggetto può trovare nel ritornare (dopo decenni) in paese o nel luogo d'origine, occorre allora trovare anche degli affittuari disposti ad accettare questo inquilino "particolare".
L'ipotesi di accoglienza deve necessariamente e inizialmente essere minimale. Non si può pensare e pretendere che tutta la comunità (o tutta la famiglia, o tutto il vicinato) sia contenta e disposta ad accettare l'internato; così come non si deve cadere nell'errore opposto, e cioè pensare che nessuno, tranne noi, possa provare e sviluppare per lui vera solidarietà e interesse.
Dato un soggetto che conosciamo nella sua soggettività e nella sua storia, che rispettiamo e che ci rispetta, con cui abbiamo una relazione significativa e con il quale elaboriamo un "piano" per sfuggire alle grinfie dell'istituzione; date alcune persone significative (parenti, amici...) che vogliono recuperare il proprio rapporto con l'amico-familiare; date altre persone che, a vario titolo, volontariamente vengono coinvolte in questa ipotesi di conoscenza e di accoglienza; dato un affittuario che può essere individuato nei soggetti di cui sopra; ciò che manca ancora da considerare sono i soldi.

Soldi e utopie
I soldi, come si sa, dimezzano le utopie. Ma la spinta utopica spesso è la migliore consigliera per trovare i soldi. Suggeriamo così di utilizzare, nel segno dell'autonomia del folle, i soldi derivanti dalle pensioni di invalidità (e affini) di cui la stragrande maggioranza dei ricoverati in manicomio (non) usufruisce. Queste pensioni vengono riscosse generalmente dai familiari i quali, nel migliore dei casi, li depositano in banca, lasciando in ospedale agli infermieri poche decine di migliaia di lire al mese perché comprino e razionino le sigarette per il congiunto! In moltissimi casi queste pensioni vengono utilizzate per "integrare" il patrimonio familiare. In alcuni casi, i più eclatanti, a questi familiari viene revocata la delega a riscuotere la pensione che passa all'amministrazione dell'ospedale. Ma, anche in questo caso, il soggetto non può usufruire, né gestisce i propri soldi, pur non essendo in molti casi interdetto e pur risultando "volontariamente" ricoverato in manicomio.
Realisticamente occorre coinvolgere i familiari affinché questi soldi vengano utilizzati per scopi "utili" al soggetto internato: ad esempio l'affitto di una casa che lo possa ospitare per periodi sempre più lunghi, fino alla definitiva dimissione. Gradualmente si potrà fare accettare al familiare il fatto che il soggetto può gestire direttamente il proprio denaro, utilizzandolo per sottrarsi all'inevitabilità dell'istituzione.
Per molti, quanto andiamo proponendo potrà sembrare pura utopia. Forse lo è, ma è un fatto che questa idea ci è stata suggerita da un familiare di un internato in manicomio. Egli non ha partecipato all'internamento dello zio 19 anni fa!
Nei casi in cui la famiglia non esista o non voglia avere niente a che fare con il soggetto, una strada può essere quella di riuscire a farsi delegare per la riscossione della pensione; oppure di coinvolgere l'amministrazione dell'ospedale affinché utilizzi i soldi accumulati dalle pensioni di ogni soggetto in vista di attività di dimissione e non, come oggi accade, per pagare le spese del suo funerale!
Questa strada ci appare (ma questa è la nostra esperienza) di gran lunga più tortuosa e pericolosa, anche perché ci espone a rischi di natura giudiziaria.
Altra strada è quella dell'intervento del comune di provenienza del soggetto. Questi ha fra i suoi compiti istituzionali l'assistenza abitativa in favore di quei soggetti privi di assistenza familiare. Oltre la strada degli alloggi popolari, si può chiedere al comune l'affitto di case da utilizzare come case di pre-dimissione e, cioè, come punti di appoggio in cui i soggetti internati possano essere ospitati nei periodi di permesso in cui riprendono contatto con l'ambiente d'origine, cercando di ritagliarsi un loro proprio spazio (che prevede anche trovare casa, lavoro, amicizia, interessi).
I costi di affitto e di gestione di una casa del genere (che può servire per più soggetti) sono minimi, anche perché, a nostro avviso, non occorre prevedere personale specializzato presente 24 ore su 24. In più il comune, nei periodi in cui non sono abitate, può utilizzare queste case come sede di riferimento per il gruppo che si occupa di questa ipotesi di accoglienza (ad esempio in forma di centro sociale).
La casa deve essere una opportunità per uscire dal manicomio e potersi sperimentare con le persone. Non possiamo precedere né programmare questo incontro fra la follia e l'ambiente comunitario. Possiamo (e dobbiamo) lavorare affinché la casa non sia il/la fine dell'accoglienza, poiché la dialettica sarà con le persone, i familiari, gli amici, i datori di lavoro, gli affittuari, le amministrazioni locali, i medici...
Non vogliamo creare servizi (con orari, personale specializzato, cure etc.) ma dare al folle la possibilità di potere coi propri soldi affittare e avere uno spazio in cui progettare la sua follia e in cui proporla ad altri. Vogliamo essere ospitati nella sua casa.
Ciò è possibile (non diciamo che sia semplice) solo se crediamo che sia possibile al folle essere autonomo e pienamente responsabile di sé.
Occorre per tutto questo un gruppo di persone, unite dalla conoscenza diretta del soggetto, che individuino e leghino tutti questi frammenti di solidarietà per creare quella rete di accoglienza necessaria a che il folle possa tornare ad esprimere la sua follia: l'autonomia!
L'esperienza ci insegna che spesso proprio i dimessi accolti faranno parte attiva nell'organizzare l'accoglienza. E l'accoglienza può essere, forse, quella "norma comune" che può farci sentire più vicini: il folle con meno paura del mondo, noi con meno paura di impazzire.