Rivista Anarchica Online
Ipotesi di
accoglienza
di Maria Giarraffa / Carmela Leo /Salvatore Mosca
Una casa del
pazzo "aperta": è questa la proposta che parte dal Comitato
d'Iniziativa Psichiatrica, con sede a Furci Siculo. "Non
vogliamo ospitare il folle - spiegano - ma essere noi ospitati nella
sua casa". Funzione e costi
di una rete d'accoglienza.
Prima e dopo la
legge 180 esiste il senso di una continuità nel nostro modo di
pensare alla follia e ai folli: l'idea di contenerli sempre e
comunque in "luoghi". Le motivazioni che
diamo sono diverse ("perché non si facciano del male",
"perché non lo facciano ad altri", "per essere
protetti dall'intolleranza e dalla violenza degli altri" etc.),
ma tutte pongono l'accento sull'inadeguatezza "oggettiva" del
folle nel trovare da sé un equilibrio (senza mediatori) con il
proprio ambiente. Ciò non è sempre
vero. È vero piuttosto che noi non offriamo quasi mai al folle
l'opportunità di essere autonomo e, al contrario, spesso ci sentiamo
minacciati e puniamo la sua autonomia. Si è creato un
nuovo schematismo. Chiusi i manicomi, i folli per uscire devono
trovare sul territorio altre case, persone, luoghi pronti e "adatti"
ad accoglierli. Chi non può essere "contenuto" in
famiglia, va "internato" in una casa famiglia, in una casa
albergo, in un laboratorio protetto, in una cooperativa di lavoro. Si
sono inventati, cioè, altri spazi "peculiari",
"specializzati", "adatti" a queste persone. Secondo il nostro
punto di vista non c'è emancipazione nel passaggio dal reparto
manicomiale alla casa famiglia. Anche qui la convivenza è forzata,
anche qui si è relegati in un'isola di tolleranza posta nell'oceano
dell'intolleranza sociale, anche qui si è completamente "affidati"
ad altri. Il nostro
schematismo continua a perpetuare la diversità del folle, il suo
essere "incapace" di vivere in autonomia i luoghi aperti del
sociale (i posti di lavoro, le case, le piazze, i mezzi pubblici, le
scuole...). D'altro canto
spingere l'acceleratore sull'autonomia (in maniera ideologica) ha
significato spesso abbandono, indifferenza, esclusione. L'autonomia
vera non è assenza totale di dipendenza o di scambio con altri.
L'autonomia del folle non si conquista nella nostra assenza.
L'esperienza dimostra che l'assenza è spesso una presenza assoluta,
persecutoria e invincibile, con cui non ci si può confrontare, che
non si può affrontare né superare. L'autonomia del folle si
conquista nella nostra presenza reciproca, in luoghi comuni, nel
confronto quotidiano. Noi crediamo che
per aiutare quelle diverse migliaia di persone che marciscono ancora
nei nostri manicomi chiusi (e al contempo per evitare che altri vi
entrino) occorra superare il facile schematismo che legge la realtà
e la cultura come inevitabilmente contraria al folle e alla sua
autonomia. L'esigenza della casa-famiglia (e degli altri luoghi
"protetti" si giustifica infatti nell'idea che sia necessario
trovare un luogo intermedio fra il manicomio che distrugge e la
comunità/famiglia che rifiuta. Posto che il
manicomio distrugga, non ci sentiamo di abbracciare in toto la
seconda supposizione (quantomeno per il fatto che noi siamo parte
della comunità). Nella comunità esistono forme di solidarietà e
accoglienza spicciola, quotidiana, disorganizzata che non sono
valorizzate ma che, a nostro avviso, possono costituire l'alternativa
concreta al manicomio. L'idea in fondo è
semplice. Mentre la si propone si sta cercando di realizzarla. Si
tratta di utilizzare per ogni soggetto ricoverato in manicomio, tutte
le possibilità di solidarietà e i legami che egli mantiene con
l'ambiente d'origine (amici, compagni di lavoro, familiari...),
cercando di sviluppare, attraverso la conoscenza e l'esperienza,
nuova solidarietà nei suoi confronti. Deve essere chiaro che non si
riuscirà ad ottenere solidarietà concreta verso il folle come
categoria, l'interesse pratico può nascere solo verso persone in
carne ed ossa, che occorre conoscere direttamente. Ora, visto che è
chiaramente difficile (ma non impossibile) entrare in molti manicomi
per conoscere gli internati; visto che l'ambiente ospedaliero è
organizzato in maniera tale da dare al visitatore un messaggio circa
l'incurabilità e la pericolosità del folle e circa la necessità di
tenerlo nell'istituzione; visto che obiettivamente esistono dei forti
pregiudizi, paure ed ansie a recarsi in questi luoghi; allora sembra
inevitabile (ma questa è solo una nostra supposizione) che questa
conoscenza ed esperienza si possa sviluppare fuori dal manicomio
nell'ambiente d'origine. Uscire comporta,
non solo burocraticamente ma anche esistenzialmente, un "punto
di riferimento" fisico: una casa. Posto che i familiari, nella
stragrande maggioranza dei casi, hanno difficoltà oggettive e
soggettive ad accogliere il congiunto in casa, allora occorre trovare
altri luoghi ed altre soluzioni. La follia e la casa
si sono finora coniugate in due forme tipiche: la "casa del
pazzo" che incute paura; la casa-famiglia, il servizio dove i
pazzi sono accolti, accuditi e tenuti sotto controllo e dove si può
andare a curiosare, a prendere in giro, a fare atto di pietà
cristiana ma, anche, per conoscere. Noi proponiamo una
casa del pazzo "aperta". La paura nasce senz'altro
dall'ignoranza e genera paura del pazzo che si chiude in casa a
doppia mandata. L'alternativa sta nel creare uno scambio fra il folle
in casa e le persone fuori della sua casa che, senza invadere la sua
intimità, possa diventare l'occasione per trovare e dare
solidarietà, conoscenza, confronto, affetto. Oltre a ricercare e
a valorizzare le potenziali solidarietà e alleanze che il soggetto
può trovare nel ritornare (dopo decenni) in paese o nel luogo
d'origine, occorre allora trovare anche degli affittuari disposti ad
accettare questo inquilino "particolare". L'ipotesi di
accoglienza deve necessariamente e inizialmente essere minimale. Non
si può pensare e pretendere che tutta la comunità (o tutta la
famiglia, o tutto il vicinato) sia contenta e disposta ad accettare
l'internato; così come non si deve cadere nell'errore opposto, e
cioè pensare che nessuno, tranne noi, possa provare e sviluppare per
lui vera solidarietà e interesse. Dato un soggetto
che conosciamo nella sua soggettività e nella sua storia, che
rispettiamo e che ci rispetta, con cui abbiamo una relazione
significativa e con il quale elaboriamo un "piano" per
sfuggire alle grinfie dell'istituzione; date alcune persone
significative (parenti, amici...) che vogliono recuperare il proprio
rapporto con l'amico-familiare; date altre persone che, a vario
titolo, volontariamente vengono coinvolte in questa ipotesi di
conoscenza e di accoglienza; dato un affittuario che può essere
individuato nei soggetti di cui sopra; ciò che manca ancora da
considerare sono i soldi.
Soldi e utopie
I soldi, come si
sa, dimezzano le utopie. Ma la spinta utopica spesso è la migliore
consigliera per trovare i soldi. Suggeriamo così di utilizzare, nel
segno dell'autonomia del folle, i soldi derivanti dalle pensioni di
invalidità (e affini) di cui la stragrande maggioranza dei
ricoverati in manicomio (non) usufruisce. Queste pensioni vengono
riscosse generalmente dai familiari i quali, nel migliore dei casi,
li depositano in banca, lasciando in ospedale agli infermieri poche
decine di migliaia di lire al mese perché comprino e razionino le
sigarette per il congiunto! In moltissimi casi queste pensioni
vengono utilizzate per "integrare" il patrimonio familiare. In
alcuni casi, i più eclatanti, a questi familiari viene revocata la
delega a riscuotere la pensione che passa all'amministrazione
dell'ospedale. Ma, anche in questo caso, il soggetto non può
usufruire, né gestisce i propri soldi, pur non essendo in molti casi
interdetto e pur risultando "volontariamente" ricoverato in
manicomio. Realisticamente
occorre coinvolgere i familiari affinché questi soldi vengano
utilizzati per scopi "utili" al soggetto internato: ad esempio
l'affitto di una casa che lo possa ospitare per periodi sempre più
lunghi, fino alla definitiva dimissione. Gradualmente si potrà fare
accettare al familiare il fatto che il soggetto può gestire
direttamente il proprio denaro, utilizzandolo per sottrarsi
all'inevitabilità dell'istituzione. Per molti, quanto
andiamo proponendo potrà sembrare pura utopia. Forse lo è, ma è un
fatto che questa idea ci è stata suggerita da un familiare di un
internato in manicomio. Egli non ha partecipato all'internamento
dello zio 19 anni fa! Nei casi in cui la
famiglia non esista o non voglia avere niente a che fare con il
soggetto, una strada può essere quella di riuscire a farsi delegare
per la riscossione della pensione; oppure di coinvolgere
l'amministrazione dell'ospedale affinché utilizzi i soldi accumulati
dalle pensioni di ogni soggetto in vista di attività di dimissione e
non, come oggi accade, per pagare le spese del suo funerale! Questa strada ci
appare (ma questa è la nostra esperienza) di gran lunga più
tortuosa e pericolosa, anche perché ci espone a rischi di natura
giudiziaria. Altra strada è
quella dell'intervento del comune di provenienza del soggetto. Questi
ha fra i suoi compiti istituzionali l'assistenza abitativa in favore
di quei soggetti privi di assistenza familiare. Oltre la strada degli
alloggi popolari, si può chiedere al comune l'affitto di case da
utilizzare come case di pre-dimissione e, cioè,
come punti di appoggio in cui i soggetti internati possano essere
ospitati nei periodi di permesso in cui riprendono contatto con
l'ambiente d'origine, cercando di ritagliarsi un loro proprio spazio
(che prevede anche trovare casa, lavoro, amicizia, interessi). I costi di affitto
e di gestione di una casa del genere (che può servire per più
soggetti) sono minimi, anche perché, a nostro avviso, non occorre
prevedere personale specializzato presente 24 ore su 24. In più il
comune, nei periodi in cui non sono abitate, può utilizzare queste
case come sede di riferimento per il gruppo che si occupa di questa
ipotesi di accoglienza (ad esempio in forma di centro sociale). La casa deve essere
una opportunità per uscire dal manicomio e potersi sperimentare con
le persone. Non possiamo precedere né programmare questo incontro
fra la follia e l'ambiente comunitario. Possiamo (e dobbiamo)
lavorare affinché la casa non sia il/la fine dell'accoglienza,
poiché la dialettica sarà con le persone, i familiari, gli amici, i
datori di lavoro, gli affittuari, le amministrazioni locali, i
medici... Non vogliamo creare
servizi (con orari, personale specializzato, cure etc.) ma dare al
folle la possibilità di potere coi propri soldi affittare e avere
uno spazio in cui progettare la sua follia e in cui proporla ad
altri. Vogliamo essere ospitati nella sua casa. Ciò è possibile
(non diciamo che sia semplice) solo se crediamo che sia possibile al
folle essere autonomo e pienamente responsabile di sé. Occorre per tutto
questo un gruppo di persone, unite dalla conoscenza diretta del
soggetto, che individuino e leghino tutti questi frammenti di
solidarietà per creare quella rete di accoglienza necessaria a che
il folle possa tornare ad esprimere la sua follia: l'autonomia! L'esperienza ci
insegna che spesso proprio i dimessi accolti faranno parte attiva
nell'organizzare l'accoglienza. E l'accoglienza può essere, forse,
quella "norma comune" che può farci sentire più vicini: il
folle con meno paura del mondo, noi con meno paura di impazzire.
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