Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 17 nr. 144
marzo 1987


Rivista Anarchica Online

Itinerari della follia
di Emma Bucalo / Nicoletta Cammaroto / Rosalba Coglito

Alcune esperienze dalla Sicilia, nel segno della condivisione della "pazzia". Per una nuova qualità di rapporto e di conoscenza che non veda tecnici, volontari o luoghi separati, ma sia qualità diffusa nella nostra vita.

Storia della follia, storia dei folli, storia della psichiatria, storia dei servizi psichiatrici, storia della Sicilia, storia delle relazioni fra queste "storie"... Gli itinerari che si possono seguire sono molti e, ciò che più importa, non coincidono affatto, né portano alla stessa meta.
L'elemento nuovo della riforma psichiatrica è senz'altro l'affermazione della soggettività del folle e del valore inaggirabile della sua storia.
L'elemento vecchio, specie nella psichiatria alternativa italiana, è l'aver piegato ancora una volta, ideologicamente e praticamente, questa soggettività, questa storia alla Storia (quella con la "S" maiuscola), al determinismo economico, ai conflitti macrostrutturali di classe... Tutte correlazioni interessanti che hanno affascinato una vasta onda di contestazione contro il manicomio e le altre istituzioni totali, ma che si sono rivelati puri orpelli ideologici quando si è trattato di confrontarsi con il folle "liberato", i suoi parenti, i suoi conviventi, con le "ragioni" della sua follia, con le sue richieste... quando si è trattato di affrontare la complessità del quotidiano, quando si è trattato di agire una relazione piuttosto che di descriverla e studiarla.
A questo punto tirare in ballo la solita storia trita del sottosviluppo meridionale, della mancanza di strutture, personale, volontà politica nell'applicare questa ed altre leggi, è a nostro avviso, pura retorica: un discorso standard che può valere per tutto il meridione ma che non fa emergere le peculiarità, le possibilità e le differenze "qualitative" e "culturali" che esistono e che giocano nella questione follia.
Per intenderci, noi riteniamo che non si è considerati (né ci si sente) pazzi allo stesso modo in Sicilia e in Calabria, che non si è considerati (né ci si sente) normali allo stesso modo. Non c'è uniformità nei vissuti delle persone e non c'è uniformità di giudizi circa l'accettabilità o meno di un atto, di un sentimento, di un pensiero, di un discorso in contesti sociali e familiari diversi. Nella nostra pratica quotidiana accettiamo come ovvi alcuni atti allucinanti di gente che consideriamo "normale" (ad esempio i familiari del folle) oppure ne riteniamo altri razionali in soggetti che consideriamo normalmente folli (ad esempio l'accettazione delle "cure" da parte del folle).
Il discorso non è solo quello del relativismo culturale, visto che i giudizi culturali sono vissuti in maniera assoluta nei contesti che li producono, piuttosto bisogna approfondire i significati e le differenze che qualificano le esperienze individuali e sociali di coloro che vi sono implicati.
Ciò vale anche per noi. Possiamo stare nella differenza e nella complessità del sociale o, al contrario, possiamo essere diversi e produrre diversità. O, in altri termini, dobbiamo chiederci come è possibile che nella cultura indifferente e violenta in cui viviamo sia stato "autorizzato" e venga "tollerato" il nostro modo di vedere la follia e i folli.
Le culture e i giudizi culturali, a differenza delle diagnosi, anche quando sono radicati, cambiano, si trasformano: capire come è stato possibile esprimere e pensare ciò che pensiamo, significa mostrare e dimostrare che se, in teoria, i problemi sembrano irrisolvibili, lo sono invece in pratica. Se noi siamo parte della nostra cultura (anche se non ci riconosciamo in essa e essa non si riconosce in noi) vuol dire che ci sono in essa opportunità e possibilità per una trasformazione e che queste non vanno inventate o imposte, ma individuate, mostrate e praticate.

Bando alla pietà
L'itinerario che proponiamo di seguire è quello che parte dai vissuti e dalla soggettività del folle per attraversare il contesto familiare e sociale in cui egli vive (e in cui noi viviamo), per ritornare a confrontarci con lui, i suoi vissuti, le sue richieste, stringendo un'alleanza che è condivisione di una "norma comune" ad entrambi, ma che non tenga esclusivamente conto delle richieste della "normalità".
L'unica uniformità che esiste è quella dei manicomi e della psichiatria. I dati che ci apprestiamo a dare della situazione siciliana seguono questa logica. Dalla lettura di questi dati il lettore dedurrà una uniformità di situazioni in tutta Italia, abbandonandosi al fatalismo o abbracciando una fede ideologica su come si possano affrontare questi problemi, su quali sono i problemi e su quale legge è importante proporre o difendere. Il fatto tragico è che i vissuti e i significati di questi dati restano misconosciuti, calpestati, non affrontati, tanto da chi li condivide, quanto da chi li vuole cambiare. Li diamo, li leggiamo attraverso i vissuti e concludiamo il nostro itinerario con alcune esperienze nel campo della differenza e della complessità sociale esistenti in Sicilia.
I dati scandalizzano, ma non danno la portata della questione se li osserviamo dal di fuori, come studiosi. Ci possono indignare ma, in tutta chiarezza, ai folli non importa un fico secco della nostra indignazione, della nostra solidarietà ciarliera o, peggio ancora, della nostra pietà. Non abbiamo di che essere pietosi, poiché contribuiamo attivamente al loro internamento e alla loro distruzione.
Si tratta per noi di capire cosa significhi essere affidati interamente ad altri per quanto riguarda il proprio presente e il proprio avvenire; cosa significa perdere ogni forma di autonomia, libero arbitrio, intimità: poiché questo è il vissuto di chi viene ricoverato. Cerchiamo di capire cosa significa essere deportato in un ospedale quando si accenna ad una crisi, a dire una verità che tutti sanno ma che non si deve dire; a vedere che la tua famiglia, il medico di fiducia, il sindaco, i tuoi stessi amici, si mobilitano per farti "curare" come se non sapessero perché tu stai facendo così.
Si tratta di comprendere cosa significa per un individuo essere sbattuto fuori dal manicomio (in ottemperanza ad una legge) quando da decenni ha perso (ed ha accettato di perdere) la propria autonomia. Cosa significa essere deportato in una casa famiglia dove deve convivere "per forza" con altra gente sconosciuta, seguito 24 ore su 24, senza intimità, senza la possibilità di scegliere come e cosa fare, perché "altri" (i liberatori) ritengono che soli non si possa (né si debba) stare. Cosa significa essere iscritto ad una cooperativa di lavoro a fare la parte di quello inefficiente a vita, di quello "tarato" che ce la mette tutta, poiché qualcuno ha detto che non si è inseriti se non si ha un lavoro.
Si tratta di comprendere cosa possa spingere un individuo ad affidarsi mani e piedi ai propri carnefici, subendo cure che castrano la volontà, frustrano la soggettività, annullano la dignità di un individuo.
Si tratta di capire come accada che un figlio diventi così pericoloso per una madre, per un padre, per una famiglia, tanto da preferire internarlo a vita in un manicomio o piangerlo per morto. E come non si lasci a questo individuo nessun altra possibilità.
Viste in quest'ottica le problematiche inerenti alla follia si allontanano anni luce dagli itinerari che i tecnici e i servizi (esistenti o da realizzare) seguono. Ciò di cui c'è vera necessità non sono dei servizi strutturati, con orari e personale specializzato, ma l'estendersi di opportunità di vita e di espressione anche per i folli, opportunità di autonomia e non di sola o mera assistenza.

Alcune esperienze
Qualcosa di nuovo nasce in Sicilia sul fronte del vissuto. Gruppi di persone, volontariamente, legati da un'esperienza diretta con soggetti internati in manicomio o esclusi dalla comunità, portano avanti, in varie parti dell'isola, delle iniziative e delle esperienze di solidarietà, di accoglienza, di aiuto, promuovendo le risorse personali e sociali che la cultura siciliana offre (o può offrire).
Abbiamo così tre cooperative di lavoro che faticosamente affrontano il problema dell'inserimento lavorativo, del confronto con la realtà, della condivisione di un progetto di vita comune, a Palermo, a Catania, a Siracusa.
Abbiamo esperienze del volontariato a Barcellona Pozzo di Gotto intorno all'ospedale giudiziario; a Furci Siculo (Messina) sia nel campo della dimissione dei soggetti internati nel manicomio di Messina, sia nel campo della lotta alla nuova esclusione psichiatrica, a Scicli (Ragusa).
Abbiamo le denunce pubbliche sulla situazione del manicomio di Agrigento (che ricalca la situazione di tutti gli altri manicomi dell'isola) ad opera della chiesa locale.
Tutte esperienze che tentano, dalla solidarietà, di passare ad un intervento più incisivo nel trasformare i meccanismi dell'esclusione e della distruzione sociale del folle. Esperienze che tentano di non fare solo "cerchio" intorno al folle, ma che si sforzano di valorizzare la sua comunicazione, le sue possibilità, le sue esigenze, le sue richieste.
Di queste ci piace citarne per brevi linee due . La prima, quella in cui siamo coinvolti direttamente, dal Comitato d'Iniziativa Psichiatrica (C.I.P.), che opera con sede in Furci Siculo nella provincia di Messina, si occupa di una gamma di problemi vasta e articolata, ed è un esperimento di azione nella complessità dei problemi di cui stiamo discutendo. In particolare l'associazione privilegia il discorso della presenza e dell'azione nelle nuove situazioni di disagio (oltre che occuparsi di sviluppare piani per la dimissione dei soggetti tuttora internati in manicomio). Questo perché occorre rendersi conto che del meccanismo di esclusione e di distruzione della differenza psichiatrica è stata abbattuta solo l'istituzione terminale (il manicomio) ma non si è inciso in nessun modo nel dare una svolta effettiva alle relazioni e ai modi di vedere e gestire la propria e altrui follia.
Il C.I.P. usufruisce, come sede operativa, di un Centro Sociale messo a disposizione dal Comune di Furci Siculo e, cosa qualificante, opera senza psichiatri, psicofarmaci o psicoterapie. I soci danno il loro apporto quotidiano in forma interamente volontaria, dimostrando con la loro presenza, azione, con le loro parole che è possibile una relazione diversa con la follia, e, cosa più sconvolgente, che si possa pensare una relazione diversa con il folle. L'essere gente comune che utilizza il linguaggio comune e che si interessa dei vissuti delle persone (sia di chi è violentato che di chi violenta) senza formulare diagnosi o descrivere ciò che succede con un vocabolario proprio o imporre la propria visione come verità, catalizza, in maniera del tutto naturale, tutta una serie di reazioni e di atteggiamenti positivi: ciò che fa uno di noi può essere fatto (se lo si vuole) da chiunque.
Un'altra caratteristica di fondo sta nel privilegiare i luoghi aperti del sociale (le piazze, le case dei soggetti...) come spazi dove incontrare e dialogare con la gente, confrontarsi, capire ed essere compresi. Il nostro sforzo è teso ad affrontare questi problemi senza rinchiuderli in una teoria o in un servizio precostituiti. Pensiamo infatti che la follia appartenga alla vita e alla cultura del paese in cui viviamo e sappiamo che solo in questo contesto può essere compresa e affrontata (come solo in questo contesto si può comprendere e affrontare la normalità).
In questo senso il Centro Sociale non è (né è utilizzato come) un servizio che serva i pazzi del paese. Esso ospita attività di animazione varie e di studio rivolte alla popolazione in generale. Il messaggio che si intende dare è eminentemente culturale: il centro sociale è una casa che dice che il problema esiste, che nasce "fra" di noi e non "nella" testa di qualcuno, che non si può aggirare e che bisogna imparare a comprendere. Ma il Centro Sociale dice anche che un gruppo di persone, una parte della comunità, l'amministrazione comunale, stanno dalla parte del folle, vogliono aiutarlo a realizzare la sua follia, vogliono essere aiutati a capire, vogliono essere capiti.
La seconda esperienza è quella delle (tre) case di solidarietà ed accoglienza aperte da Padre Insana in Barcellona Pozzo di Gotto. Esse accolgono soggetti incarcerati o dimessi dal manicomio giudiziario.
Questa esperienza va documentata perché è una prima risposta concreta all'esigenza di una categoria di problemi che è stata spesso marginale (forse perché imbarazzante) nel dibattito per la riforma dell'assistenza psichiatrica. Praticamente padre Insana (che è padre cappellano del manicomio giudiziario) ha incominciato ad ospitare a casa sua quei soggetti che, pur avendo diritto di usufruire di licenze, di fatto restavano "dentro" perché i familiari non erano disposti ad accoglierli. Ha continuato ad ospitare anche alcuni fra coloro che, scontata la pena, non sapevano dove andare. Con alcuni di loro e con dei volontari locali, ha incominciato a lavorare per fornire agli internati due preziosi servizi: da una parte ospitarli per le licenze; dall'altra impegnarsi nella ricerca di lavori esterni che hanno permesso ad alcuni di loro di usufruire della semilibertà.
Un gruppo di liberi che lavora, gestisce e vive già in una casa propria; mentre un'altra casa è stata affittata dall'amministrazione comunale allo scopo di ospitare i familiari degli internati che si sobbarcano viaggi lunghissimi per andare a visitare i propri congiunti.
Questa esperienza va documentata anche per l'estrema libertà di cui godono gli ospiti di queste case, chiamati a gestirle direttamente e a convivere con Padre Insana. Non ci sono infermieri, guardie, porte chiuse. Ognuno può entrare e uscire con la massima libertà. Sicuramente la chiarezza dei rapporti, l'onestà e la fiducia da ormai più di un anno e mezzo dimostrano tutta l'inadeguatezza della nozione circa la pericolosità dei folli. Gli ospiti non usano violenza perché non hanno da chi difendersi.
Chiaramente un centro sociale, una casa di accoglienza, una cooperativa di lavoro non risolvono i problemi, piuttosto li pongono. Ma questo porre i problemi ha una qualità diversa, non ci consente di svicolarli, di rifugiarci dietro facili pregiudizi o luoghi comuni. Noi sentiamo l'esigenza di precisare che queste esperienze non sono né il fine né la fine di ciò che stiamo tentando di fare. Il nostro contributo vuole essere essenzialmente questo: una nuova qualità di rapporto e di conoscenza che non veda tecnici, volontari o luoghi separati, ma che sia qualità diffusa nella nostra vita.


Le strutture psichiatriche in Sicilia

Ecco un quadro sintetico dell'attuale situazione delle strutture psichiatriche in Sicilia.
a) il manicomio: chiusi dalla legge di riforma, i manicomi siciliani hanno continuato a imprigionare (seppure dimezzati) i ricoverati pre 180 (vedasi i manicomi di Palermo: 900 ricoverati; di Messina: 700 ricoverati; di Agrigento 400 ricoverati...) in situazioni di abbandono allucinanti, privi di qualsiasi diritto e qualsiasi libertà personale.
b) le strutture alternative (case famiglia, case albergo, comunità alloggio): sono nate (poche) all'interno della cerchia dell'ospedale psichiatrico dalla ristrutturazione dei reparti "svuotati" dalla 180 (vedasi la "casa protetta" di Palermo e quelle di Messina). L'esigenza manifesta è quella di soddisfare l'imponente richiesta di ricovero che viene dalla comunità, sacrificando qualsiasi carattere di "alternativa" nella situazione di vita, di libertà e nelle "terapie" usate;
c) ambulatori e servizi di diagnosi e cura: gli ambulatori istituiti per il lavoro territoriale sono pochi, male organizzati, con personale impreparato e abbandonato a se stesso, vessati da impedimenti burocratici, aperti nei soli giorni feriali in orario d'ufficio. Intervento prevalente: prescrizione psico-farmacologica. Per quanto riguarda i servizi di diagnosi e cura istituiti presso gli ospedali civili come reparti di ricovero, vale in genere quanto detto per l'operatività degli ambulatori, precisando che nella generalità dei casi, essi sono collocati in reparti angusti, chiusi, senza alternative di vita, né libertà di movimento;
d) il personale: a parte qualche piccolo drappello di operatori di antiche glorie, isolati e interessati al proprio piccolo spazio, la stragrande maggioranza degli operatori psichiatri si attesta su posizioni organicistiche con una versione repressivo-curativa della psichiatria. C'è da dire che la maggioranza degli operatori proviene dagli ospedali psichiatrici e che le nuove figure inserite nelle equipe (anche allo scopo di spezzare l'onnipotenza medica), psicologi e assistenti sociali, non riescono nella quotidianità ad indirizzare i servizi in maniera alternativa, impreparati a dare risposte alla complessità dei problemi che si agitano intorno alla follia e che sono stati abitualmente risolti con l'intervento punitivo (ricovero) della psichiatria;
e) i trattamenti sanitari obbligatori: non sono fatti eccezionali, ma non sono neanche la norma. Bisogna rilevare la richiesta di ricoveri volontari (che spesso servono al soggetto per spezzare la solitudine, l'abbandono, l'attacco portato a lui dalle persone del suo ambiente, oppure sono un modo per gratificare la gente accettando di "curarsi"...) e la facilità con cui si ottengono le delibere da parte dei sindaci per i ricoveri obbligatori. L'unica realtà che impedisce l'esplosione di questa pratica è l'esiguità dei posti letto negli ospedali;
f) il manicomio giudiziario: esiste a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina). Vi sono incarcerati 300 uomini provenienti da Sicilia e Calabria, folli rei di varie trasgressioni del codice penale. Bisogna sottolineare, oltre all'ovvio carattere distruttivo di un'istituzione che somma le valenze negative del carcere e del manicomio, che esso è, allo stato attuale, una valvola di sfogo alla affannosa ricerca di soluzioni "definitive" per i folli che "disturbano" il quieto vivere, diventata impresa difficile con la chiusura dei manicomi. Forse non tutti sanno che le pene (misure di sicurezza) in ospedale psichiatrico giudiziario prevedono solo un minimo prorogabile a volere della equipe curante. Per offesa ad un pubblico ufficiale, il folle sconta un "minimo" di due anni di manicomio giudiziario, prorogabili se a pena scontata nessuno si dichiara disposto ad accoglierli;
g) le cliniche private: fiorenti nelle provincie sprovviste di manicomio (come quella di Catania), usufruiscono di laute convenzioni con gli enti pubblici e assorbono, in parte, la richiesta di ricoveri di ex internati e di nuove situazioni. Al loro interno (come nelle cliniche universitarie) si pratica tuttora l'elettroshock;
h) le leggi regionali e prospettive: la legge regionale 215/79 ha recepito in Sicilia i dettami della legge 180. Una buona legge che prevede tutto ciò che c'era da prevedere, in maniera avanzata, sorretta anche da un dettagliato piano regionale approvato dal 1981. "Sfortunatamente" (?) leggi non finanziate!!!
Le prospettive in Sicilia sono chiare. Anticipare la riforma della riforma. Riversare le risorse nella ristrutturazione dei reparti dell'ex-manicomio e nei servizi ospedalieri, prepararsi a riaprire i manicomi.