Rivista Anarchica Online
Itinerari della
follia
di Emma Bucalo / Nicoletta Cammaroto / Rosalba Coglito
Alcune
esperienze dalla Sicilia, nel segno della condivisione della
"pazzia". Per una nuova
qualità di rapporto e di conoscenza che non veda tecnici, volontari
o luoghi separati, ma sia qualità diffusa nella nostra vita.
Storia della
follia, storia dei folli, storia della psichiatria, storia dei
servizi psichiatrici, storia della Sicilia, storia delle relazioni
fra queste "storie"... Gli itinerari che si possono seguire
sono molti e, ciò che più importa, non coincidono affatto, né
portano alla stessa meta. L'elemento nuovo
della riforma psichiatrica è senz'altro l'affermazione della
soggettività del folle e del valore inaggirabile della sua storia. L'elemento vecchio,
specie nella psichiatria alternativa italiana, è l'aver piegato
ancora una volta, ideologicamente e praticamente, questa
soggettività, questa storia alla Storia (quella con la "S"
maiuscola), al determinismo economico, ai conflitti macrostrutturali
di classe... Tutte correlazioni interessanti che hanno affascinato
una vasta onda di contestazione contro il manicomio e le altre
istituzioni totali, ma che si sono rivelati puri orpelli ideologici
quando si è trattato di confrontarsi con il folle "liberato",
i suoi parenti, i suoi conviventi, con le "ragioni" della sua
follia, con le sue richieste... quando si è trattato di affrontare
la complessità del quotidiano, quando si è trattato di agire una
relazione piuttosto che di descriverla e studiarla. A questo punto
tirare in ballo la solita storia trita del sottosviluppo meridionale,
della mancanza di strutture, personale, volontà politica
nell'applicare questa ed altre leggi, è a nostro avviso, pura
retorica: un discorso standard che può valere per tutto il meridione
ma che non fa emergere le peculiarità, le possibilità e le
differenze "qualitative" e "culturali" che esistono e
che giocano nella questione follia. Per intenderci, noi
riteniamo che non si è considerati (né ci si sente) pazzi allo
stesso modo in Sicilia e in Calabria, che non si è considerati (né
ci si sente) normali allo stesso modo. Non c'è uniformità nei
vissuti delle persone e non c'è uniformità di giudizi circa
l'accettabilità o meno di un atto, di un sentimento, di un pensiero,
di un discorso in contesti sociali e familiari diversi. Nella nostra
pratica quotidiana accettiamo come ovvi alcuni atti allucinanti di
gente che consideriamo "normale" (ad esempio i familiari del
folle) oppure ne riteniamo altri razionali in soggetti che
consideriamo normalmente folli (ad esempio l'accettazione delle
"cure" da parte del folle). Il discorso non è
solo quello del relativismo culturale, visto che i giudizi culturali
sono vissuti in maniera assoluta nei contesti che li producono,
piuttosto bisogna approfondire i significati e le differenze che
qualificano le esperienze individuali e sociali di coloro che vi sono
implicati. Ciò vale anche per
noi. Possiamo stare nella differenza e nella complessità del sociale
o, al contrario, possiamo essere diversi e produrre diversità. O, in
altri termini, dobbiamo chiederci come è possibile che nella cultura
indifferente e violenta in cui viviamo sia stato "autorizzato"
e venga "tollerato" il nostro modo di vedere la follia e i
folli. Le culture e i
giudizi culturali, a differenza delle diagnosi, anche quando sono
radicati, cambiano, si trasformano: capire come è stato possibile
esprimere e pensare ciò che pensiamo, significa mostrare e
dimostrare che se, in teoria, i problemi sembrano irrisolvibili, lo
sono invece in pratica. Se noi siamo parte della nostra cultura
(anche se non ci riconosciamo in essa e essa non si riconosce in noi)
vuol dire che ci sono in essa opportunità e possibilità per una
trasformazione e che queste non vanno inventate o imposte, ma
individuate, mostrate e praticate.
Bando alla pietà
L'itinerario che
proponiamo di seguire è quello che parte dai vissuti e dalla
soggettività del folle per attraversare il contesto familiare e
sociale in cui egli vive (e in cui noi viviamo), per ritornare a
confrontarci con lui, i suoi vissuti, le sue richieste, stringendo
un'alleanza che è condivisione di una "norma comune" ad
entrambi, ma che non tenga esclusivamente conto delle richieste della
"normalità". L'unica uniformità
che esiste è quella dei manicomi e della psichiatria. I dati che ci
apprestiamo a dare della situazione siciliana seguono questa logica.
Dalla lettura di questi dati il lettore dedurrà una uniformità di
situazioni in tutta Italia, abbandonandosi al fatalismo o
abbracciando una fede ideologica su come si possano affrontare questi
problemi, su quali sono i problemi e su quale legge è importante
proporre o difendere. Il fatto tragico è che i vissuti e i
significati di questi dati restano misconosciuti, calpestati, non
affrontati, tanto da chi li condivide, quanto da chi li vuole
cambiare. Li diamo, li leggiamo attraverso i vissuti e concludiamo il
nostro itinerario con alcune esperienze nel campo della differenza e
della complessità sociale esistenti in Sicilia. I dati
scandalizzano, ma non danno la portata della questione se li
osserviamo dal di fuori, come studiosi. Ci possono indignare ma, in
tutta chiarezza, ai folli non importa un fico secco della nostra
indignazione, della nostra solidarietà ciarliera o, peggio ancora,
della nostra pietà. Non abbiamo di che essere pietosi, poiché
contribuiamo attivamente al loro internamento e alla loro
distruzione. Si tratta per noi
di capire cosa significhi essere affidati interamente ad altri per
quanto riguarda il proprio presente e il proprio avvenire; cosa
significa perdere ogni forma di autonomia, libero arbitrio, intimità:
poiché questo è il vissuto di chi viene ricoverato. Cerchiamo di
capire cosa significa essere deportato in un ospedale quando si
accenna ad una crisi, a dire una verità che tutti sanno ma che non
si deve dire; a vedere che la tua famiglia, il medico di fiducia, il
sindaco, i tuoi stessi amici, si mobilitano per farti "curare"
come se non sapessero perché tu stai facendo così. Si tratta di
comprendere cosa significa per un individuo essere sbattuto fuori dal
manicomio (in ottemperanza ad una legge) quando da decenni ha perso
(ed ha accettato di perdere) la propria autonomia. Cosa significa
essere deportato in una casa famiglia dove deve convivere "per
forza" con altra gente sconosciuta, seguito 24 ore su 24, senza
intimità, senza la possibilità di scegliere come e cosa fare,
perché "altri" (i liberatori) ritengono che soli non si
possa (né si debba) stare. Cosa significa essere iscritto ad una
cooperativa di lavoro a fare la parte di quello inefficiente a vita,
di quello "tarato" che ce la mette tutta, poiché qualcuno
ha detto che non si è inseriti se non si ha un lavoro. Si tratta di
comprendere cosa possa spingere un individuo ad affidarsi mani e
piedi ai propri carnefici, subendo cure che castrano la volontà,
frustrano la soggettività, annullano la dignità di un individuo. Si tratta di capire
come accada che un figlio diventi così pericoloso per una madre, per
un padre, per una famiglia, tanto da preferire internarlo a vita in
un manicomio o piangerlo per morto. E come non si lasci a questo
individuo nessun altra possibilità. Viste in
quest'ottica le problematiche inerenti alla follia si allontanano
anni luce dagli itinerari che i tecnici e i servizi (esistenti o da
realizzare) seguono. Ciò di cui c'è vera necessità non sono dei
servizi strutturati, con orari e personale specializzato, ma
l'estendersi di opportunità di vita e di espressione anche per i
folli, opportunità di autonomia e non di sola o mera assistenza.
Alcune
esperienze
Qualcosa di nuovo
nasce in Sicilia sul fronte del vissuto. Gruppi di persone,
volontariamente, legati da un'esperienza diretta con soggetti
internati in manicomio o esclusi dalla comunità, portano avanti, in
varie parti dell'isola, delle iniziative e delle esperienze di
solidarietà, di accoglienza, di aiuto, promuovendo le risorse
personali e sociali che la cultura siciliana offre (o può offrire). Abbiamo così tre
cooperative di lavoro che faticosamente affrontano il problema
dell'inserimento lavorativo, del confronto con la realtà, della
condivisione di un progetto di vita comune, a Palermo, a Catania, a
Siracusa. Abbiamo esperienze
del volontariato a Barcellona Pozzo di Gotto intorno all'ospedale
giudiziario; a Furci Siculo (Messina) sia nel campo della dimissione
dei soggetti internati nel manicomio di Messina, sia nel campo della
lotta alla nuova esclusione psichiatrica, a Scicli (Ragusa). Abbiamo le denunce
pubbliche sulla situazione del manicomio di Agrigento (che ricalca la
situazione di tutti gli altri manicomi dell'isola) ad opera della
chiesa locale. Tutte esperienze
che tentano, dalla solidarietà, di passare ad un intervento più
incisivo nel trasformare i meccanismi dell'esclusione e della
distruzione sociale del folle. Esperienze che tentano di non fare
solo "cerchio" intorno al folle, ma che si sforzano di
valorizzare la sua comunicazione, le sue possibilità, le sue
esigenze, le sue richieste. Di queste ci piace
citarne per brevi linee due . La prima, quella in cui siamo coinvolti
direttamente, dal Comitato d'Iniziativa Psichiatrica (C.I.P.), che
opera con sede in Furci Siculo nella provincia di Messina, si occupa
di una gamma di problemi vasta e articolata, ed è un esperimento di
azione nella complessità dei problemi di cui stiamo discutendo. In
particolare l'associazione privilegia il discorso della presenza e
dell'azione nelle nuove situazioni di disagio (oltre che occuparsi di
sviluppare piani per la dimissione dei soggetti tuttora internati in
manicomio). Questo perché occorre rendersi conto che del meccanismo
di esclusione e di distruzione della differenza psichiatrica è stata
abbattuta solo l'istituzione terminale (il manicomio) ma non si è
inciso in nessun modo nel dare una svolta effettiva alle relazioni e
ai modi di vedere e gestire la propria e altrui follia. Il C.I.P.
usufruisce, come sede operativa, di un Centro Sociale messo a
disposizione dal Comune di Furci Siculo e, cosa qualificante, opera
senza psichiatri, psicofarmaci o psicoterapie. I soci danno il loro
apporto quotidiano in forma interamente volontaria, dimostrando con
la loro presenza, azione, con le loro parole che è possibile una
relazione diversa con la follia, e, cosa più sconvolgente, che si
possa pensare una relazione diversa con il folle. L'essere gente
comune che utilizza il linguaggio comune e che si interessa dei
vissuti delle persone (sia di chi è violentato che di chi violenta)
senza formulare diagnosi o descrivere ciò che succede con un
vocabolario proprio o imporre la propria visione come verità,
catalizza, in maniera del tutto naturale, tutta una serie di reazioni
e di atteggiamenti positivi: ciò che fa uno di noi può essere fatto
(se lo si vuole) da chiunque. Un'altra
caratteristica di fondo sta nel privilegiare i luoghi aperti del
sociale (le piazze, le case dei soggetti...) come spazi dove
incontrare e dialogare con la gente, confrontarsi, capire ed essere
compresi. Il nostro sforzo è teso ad affrontare questi problemi
senza rinchiuderli in una teoria o in un servizio precostituiti.
Pensiamo infatti che la follia appartenga alla vita e alla cultura
del paese in cui viviamo e sappiamo che solo in questo contesto può
essere compresa e affrontata (come solo in questo contesto si può
comprendere e affrontare la normalità). In questo senso il
Centro Sociale non è (né è utilizzato come) un servizio che serva
i pazzi del paese. Esso ospita attività di animazione varie e di
studio rivolte alla popolazione in generale. Il messaggio che si
intende dare è eminentemente culturale: il centro sociale è una
casa che dice che il problema esiste, che nasce "fra" di
noi e non "nella" testa di qualcuno, che non si può aggirare e
che bisogna imparare a comprendere. Ma il Centro Sociale dice anche
che un gruppo di persone, una parte della comunità,
l'amministrazione comunale, stanno dalla parte del folle, vogliono
aiutarlo a realizzare la sua follia, vogliono essere aiutati a
capire, vogliono essere capiti. La seconda
esperienza è quella delle (tre) case di solidarietà ed accoglienza
aperte da Padre Insana in Barcellona Pozzo di Gotto. Esse accolgono
soggetti incarcerati o dimessi dal manicomio giudiziario. Questa esperienza
va documentata perché è una prima risposta concreta all'esigenza di
una categoria di problemi che è stata spesso marginale (forse perché
imbarazzante) nel dibattito per la riforma dell'assistenza
psichiatrica. Praticamente padre Insana (che è padre cappellano del
manicomio giudiziario) ha incominciato ad ospitare a casa sua quei
soggetti che, pur avendo diritto di usufruire di licenze, di fatto
restavano "dentro" perché i familiari non erano disposti
ad accoglierli. Ha continuato ad ospitare anche alcuni fra coloro
che, scontata la pena, non sapevano dove andare. Con alcuni di loro e
con dei volontari locali, ha incominciato a lavorare per fornire agli
internati due preziosi servizi: da una parte ospitarli per le
licenze; dall'altra impegnarsi nella ricerca di lavori esterni che
hanno permesso ad alcuni di loro di usufruire della semilibertà. Un gruppo di liberi
che lavora, gestisce e vive già in una casa propria; mentre un'altra
casa è stata affittata dall'amministrazione comunale allo scopo di
ospitare i familiari degli internati che si sobbarcano viaggi
lunghissimi per andare a visitare i propri congiunti. Questa esperienza
va documentata anche per l'estrema libertà di cui godono gli ospiti
di queste case, chiamati a gestirle direttamente e a convivere con
Padre Insana. Non ci sono infermieri, guardie, porte chiuse. Ognuno
può entrare e uscire con la massima libertà. Sicuramente la
chiarezza dei rapporti, l'onestà e la fiducia da ormai più di un
anno e mezzo dimostrano tutta l'inadeguatezza della nozione circa la
pericolosità dei folli. Gli ospiti non usano violenza perché non
hanno da chi difendersi. Chiaramente un
centro sociale, una casa di accoglienza, una cooperativa di lavoro
non risolvono i problemi, piuttosto li pongono. Ma questo porre i
problemi ha una qualità diversa, non ci consente di svicolarli, di
rifugiarci dietro facili pregiudizi o luoghi comuni. Noi sentiamo
l'esigenza di precisare che queste esperienze non sono né il fine né
la fine di ciò che stiamo tentando di fare. Il nostro contributo
vuole essere essenzialmente questo: una nuova qualità di rapporto e
di conoscenza che non veda tecnici, volontari o luoghi separati, ma
che sia qualità diffusa nella nostra vita.
Le strutture
psichiatriche in Sicilia
Ecco un quadro
sintetico dell'attuale situazione delle strutture psichiatriche in
Sicilia. a) il
manicomio: chiusi dalla legge di riforma, i manicomi
siciliani hanno continuato a imprigionare (seppure dimezzati) i
ricoverati pre 180 (vedasi i manicomi di Palermo: 900 ricoverati; di
Messina: 700 ricoverati; di Agrigento 400 ricoverati...) in
situazioni di abbandono allucinanti, privi di qualsiasi diritto e
qualsiasi libertà personale. b) le strutture
alternative (case famiglia, case albergo, comunità
alloggio): sono nate (poche) all'interno della cerchia dell'ospedale
psichiatrico dalla ristrutturazione dei reparti "svuotati"
dalla 180 (vedasi la "casa protetta" di Palermo e quelle di
Messina). L'esigenza manifesta è quella di soddisfare l'imponente
richiesta di ricovero che viene dalla comunità, sacrificando
qualsiasi carattere di "alternativa" nella situazione di
vita, di libertà e nelle "terapie" usate; c) ambulatori
e servizi di diagnosi e cura: gli
ambulatori istituiti per il lavoro territoriale sono pochi, male
organizzati, con personale impreparato e abbandonato a se stesso,
vessati da impedimenti burocratici, aperti nei soli giorni feriali in
orario d'ufficio. Intervento prevalente: prescrizione
psico-farmacologica. Per quanto riguarda i servizi di diagnosi e cura
istituiti presso gli ospedali civili come reparti di ricovero, vale
in genere quanto detto per l'operatività degli ambulatori,
precisando che nella generalità dei casi, essi sono collocati in
reparti angusti, chiusi, senza alternative di vita, né libertà di
movimento; d) il personale:
a parte qualche piccolo drappello di operatori di antiche glorie,
isolati e interessati al proprio piccolo spazio, la stragrande
maggioranza degli operatori psichiatri si attesta su posizioni
organicistiche con una versione repressivo-curativa della
psichiatria. C'è da dire che la maggioranza degli operatori proviene
dagli ospedali psichiatrici e che le nuove figure inserite nelle
equipe (anche allo scopo di spezzare l'onnipotenza medica), psicologi
e assistenti sociali, non riescono nella quotidianità ad indirizzare
i servizi in maniera alternativa, impreparati a dare risposte alla
complessità dei problemi che si agitano intorno alla follia e che
sono stati abitualmente risolti con l'intervento punitivo (ricovero)
della psichiatria; e) i trattamenti
sanitari obbligatori: non sono fatti
eccezionali, ma non sono neanche la norma. Bisogna rilevare la
richiesta di ricoveri volontari (che spesso servono al soggetto per
spezzare la solitudine, l'abbandono, l'attacco portato a lui dalle
persone del suo ambiente, oppure sono un modo per gratificare la
gente accettando di "curarsi"...) e la facilità con cui si
ottengono le delibere da parte dei sindaci per i ricoveri
obbligatori. L'unica realtà che impedisce l'esplosione di questa
pratica è l'esiguità dei posti letto negli ospedali; f) il manicomio
giudiziario: esiste a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina).
Vi sono incarcerati 300 uomini provenienti da Sicilia e Calabria,
folli rei di varie trasgressioni del codice penale. Bisogna
sottolineare, oltre all'ovvio carattere distruttivo di un'istituzione
che somma le valenze negative del carcere e del manicomio, che esso
è, allo stato attuale, una valvola di sfogo alla affannosa ricerca
di soluzioni "definitive" per i folli che "disturbano"
il quieto vivere, diventata impresa difficile con la chiusura dei
manicomi. Forse non tutti sanno che le pene (misure di sicurezza) in
ospedale psichiatrico giudiziario prevedono solo un minimo
prorogabile a volere della equipe curante. Per offesa ad un pubblico
ufficiale, il folle sconta un "minimo" di due anni di
manicomio giudiziario, prorogabili se a pena scontata nessuno si
dichiara disposto ad accoglierli; g) le cliniche
private: fiorenti nelle provincie sprovviste di manicomio
(come quella di Catania), usufruiscono di laute convenzioni con gli
enti pubblici e assorbono, in parte, la richiesta di ricoveri di ex
internati e di nuove situazioni. Al loro interno (come nelle cliniche
universitarie) si pratica tuttora l'elettroshock; h) le leggi
regionali e prospettive: la legge regionale 215/79 ha recepito in
Sicilia i dettami della legge 180. Una buona legge che prevede tutto
ciò che c'era da prevedere, in maniera avanzata, sorretta anche da
un dettagliato piano regionale approvato dal 1981. "Sfortunatamente"
(?) leggi non finanziate!!! Le prospettive in
Sicilia sono chiare. Anticipare la riforma della riforma. Riversare
le risorse nella ristrutturazione dei reparti dell'ex-manicomio e nei
servizi ospedalieri, prepararsi a riaprire i manicomi.
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