Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 17 nr. 143
febbraio 1987


Rivista Anarchica Online

Shoah, l'annientamento
di Maria Teresa Romiti

"Ho cercato anche, inutilmente, di capire. Di trovare un nesso logico, una spiegazione ad uno sterminio perpetuato nell'indifferenza, nel silenzio, nell'accettazione passiva. Ma esiste poi una spiegazione?". Interrogativi e considerazioni dopo la trasmissione sulla Rete 3 dello scomodo documentario "Shoah".

"Simili a formiche andiamo dentro ogni fuoco. Ogni acqua. Ogni fiume di sangue. Solo per non dover vedere. Che cosa? Noi."

Christa Wolfe, Cassandra.


Esistono cose che non possono essere tradotte in parole, almeno in parole razionali. Purtroppo o per fortuna. Appartengono ad un altro livello.
Sono stata tra i pochi che hanno potuto vedere le quattro puntate di "Shoah" (annientamento), trasmesso lo scorso dicembre ad un'ora incredibilmente tarda sulla Rete Tre (basta poco per passare sotto silenzio ciò che è scomodo e poi non si devono sconvolgere troppo le coscienze con certi spettacoli). Ho sentito i sopravvissuti raccontare il raccontabile, ho visto i loro silenzi. Ho sentito la voce che si rompe di fronte ad un orrore che è oltre le parole. Ma anche il silenzio può parlare.
Ho cercato anche, inutilmente, di capire. Di trovare un nesso logico, una spiegazione ad uno sterminio perpetrato nell'indifferenza, nel silenzio, nell'accettazione passiva. Ma esiste poi una spiegazione? Si possono spiegare razionalmente gli incubi che ci attanagliano nel buio profondo della notte? È possibile che l'incubo sia potuto diventare realtà?
Non ci sono spiegazioni. E Shoah non le ha tentate. Solo il ricordo di un orrore che supera qualsiasi immaginazione, perché almeno si possa dire: "Mai più, mai più accada una cosa simile!". Speranza vana, altri orrori, simili, in altro luogo, in altro tempo, sono accaduti, dopo. Accadranno ancora?
Erano esseri umani: donne, uomini, bambini. Esseri umani come siamo noi, come erano anche coloro che li uccisero o che ordinarono la loro morte. Una morte decisa a tavolino, pianificata, organizzata, messa a punto con metodo, come la catena di montaggio di una fabbrica: nelle camere a gas fino a tremila persone alla volta, a ritmo continuo. Possono le parole portare alla mente immagini simili? La fabbrica dell'eccidio. Si organizzarono censimenti, per non perdere nessuno, si costruirono ghetti, perché non fuggissero, non potessero nascondersi, si uccisero con la fame, la malattia, si fecero viaggiare i treni per coloro che si ostinavano a vivere, si spedirono come pacchi postali, peggio di animali (gli animali servono, costano, quindi valgono. Quanto vale la vita di un essere umano?), si recuperò tutto il recuperabile: vestiti, capelli, scarpe, oro, si uccisero. Perché?
Non per odio (non si può odiare realmente un popolo intero, una cultura, non si odiano le astrazioni), non per rabbia o ira (sentimenti, non applicabili a generalizzazioni), non per calcolo (quale calcolo, quale logica?), senza motivi, senza giustificazioni, senza cause. Oltre la razionalità. Uccidere per uccidere, uccidere perché così era stato deciso, così veniva ordinato.
La macchina cominciò a girare lentamente, con difficoltà (programmando eccidi di massa diventa un problema anche come far sparire i cadaveri: l'igiene ha le sue regole), poi girò sempre meglio, sempre più lubrificata, senza intoppi. Un mondo alla rovescia dove tutto era programmato per distruggere, non per creare, per uccidere, non per vivere.
E gli uomini che lavorarono alla macchina, per anni, come riuscirono a non impazzire, a non farsi domande, a darsi giustificazioni inesistenti? Potevano tenere lontano i fantasmi nell'ora dell'oblio, quando il sonno arriva leggero, così simile alla morte, loro che avevano ucciso il sonno? Perché sapevano cosa stavano facendo. Si può tentare di giustificarsi dicendo: "Io non ne sapevo nulla", "Cosa mai potevo fare io?", forse anche, ma attenti a non farsi sentire, "In fondo non sono uomini", ma può funzionare? I treni che arrivavano pieni e ripartivano vuoti, l'odore della carne bruciata, da macello, i mucchi immani di vestiti, di scarpe, di oggetti che fino a poche ore prima erano appartenuti ad esseri viventi. Eppure lo sapevano che non c'erano giustificazioni, per questo era obbligatorio usare sempre eufemismi, nelle circolari come nelle parole. Erano la merce, i pacchi, i numeri, le cose , era la soluzione finale. Per questo era imperativo che il mondo non vedesse, non sapesse, o facesse finta di non vedere, di non sapere.
Certo si può tentare di convincersi che si sta solo ubbidendo ad un ordine, evitando di farsi troppe domande. Si possono giustificare i ghetti come misure igieniche contro epidemie, si può dire che fu la necessità della guerra, si può dire che non erano esseri umani.
Ma poi, quando uno se li vedeva davanti: due braccia, due gambe, due occhi, un naso, una bocca.., magari più magri, più scavati, non erano tanto alieni. Quali erano le ginnastiche mentali per scacciare l'orrore di fronte ai mucchi di cadaveri? Si fa l'abitudine a tutto? Forse dovevano nascondere i cadaveri prima di tutto a se stessi.
E alla fine alla macchina collaborarono le stesse vittime: incapaci di credere ad un'esperienza così oltre l'umano, troppo stanche, affamate, assetate, stordite, troppo passive per ribellarsi, pronte ad accettare il rito sacrificale. Costrette a vivere un incubo da cui prima o poi, urla la mente, ci si deve svegliare, e se non ci si può svegliare che almeno finisca. Forse, alla fine, quasi anelanti perché la morte può essere anche una liberazione. A volte, alcune, pronte a qualsiasi cosa pur di guadagnarsi qualche mese di vita, qualche giorno, qualche ora, anche passare sopra la testa dei compagni. È possibile cercare la solidarietà oltre i limiti dell'umano, quando si è sospesi tra morte e fame, sete e stanchezza? Anche la sopravvivenza è umana.
È vero che non fu il primo genocidio della storia. L'uomo è un animale che si ripete. I Romani e i Greci avevano i loro delitti sulla coscienza: i catari, i patarini e tutti gli altri eretici (e non solo loro) erano stati uccisi in orge di sangue. Nel Nuovo Mondo gli Europei avevano lasciato una scia di sangue, un segno rosso che li accompagnò nel mondo ovunque andarono. Tra i deliri della conquista della civiltà, era comunque rintracciabile una motivazione. Spesso prosaica, bassa, ma pur sempre una ragione alla quale la mente può aggrapparsi. Non giustificare, ma capire. Capire che è anche comprendere (prendere con, nel nome di una stessa umanità). C'era la conquista, il calcolo, l'avidità di terre e tesori, più o meno presunti, lo sfruttamento dell'uomo, il fanatismo religioso. Era la repressione nel sangue della rivolta, del no. Con l'Olocausto si va oltre il senso, oltre il delirio, nel mondo oscuro dei nostri fantasmi, dei mostri delle nostre menti.
Ed è forse qui, alla fine del percorso, oltre ogni logica, al di fuori del razionale e dell'umano che si può trovare un senso.

Il dominio e basta
Il lager, ogni lager, era il simbolo vivente e vissuto del dominio al suo stadio brutale, il dominio e basta. L'obbedienza assoluta, cieca, senza perché veniva riproposta ostinatamente, continuamente. Una piramide che riproduceva ad ogni gradino se stessa. Il rituale dell'ordine esterno, il dovere di dire sì, solo sì, sempre, oltre ogni limite, fino alla morte, oltre essa. La violenza gratuita e ingiustificata che genera terrore, che ripropone il paradigma: è così perché è così , perché così deve essere.
Non esisteva spiegazione, non c'era perché, vita e morte giocate ai dadi, decise da un dio dalla faccia irata, dio della morte, dio contro la vita. Rituale macabro e ossessivo per i vivi, quasi morti, e per i morti. Rito che cancellava completamente l'umano, il vitale. Gli dei chiedevano il prezzo del sangue e del dolore per dimostrare la loro esistenza. Le vittime dovevano accettare, protagoniste nolenti del mito oscuro. Ed esse accettavano (poteva essere diversamente?), recitavano in prima persona il racconto mitico del potere al suo estremo limite.
È per questo, forse, che a guerra finita si è cercato di dimenticare, tutti. È difficile guardare negli occhi il dio irato, la sua faccia oscura.
Un episodio di pazzia, nessuno sapeva. Troppo difficile convivere con il ricordo. È importante invece ricordare, Shoah è nato per questo. L'oblio non è una soluzione, si deve ricordare senza retorica, senza vergogna, bisogna guardare in faccia il dio per riconoscersi esseri umani e scoprire che il dio non è divino, non è neppure umano, è solo un grumo senza nome uscito dagli abissi.
Altri massacri si sono perpetrati, alcuni dello stesso segno, con rituali simili. La ripetizione coatta del simbolo. Sarà ancora così finché il mito sarà tra noi. A volte avrà aspetti meno orridi, altre riprenderà virulenza, ma è qui, demone d'ombra.

Faccia da turco
L'ho visto e sentito anche in questi giorni, l'ho scorto tra le righe della notizia che il latte radioattivo può essere tranquillamente venduto nel terzo mondo (sono forse esseri umani come noi?), l'ho rivisto occhieggiare dalla legge svedese che fino al 1975 ha permesso la sterilizzazione coatta di chi presentava disturbi e devianze fisiche o psichiche (la "razza" deve essere pura!), mi è apparso fin troppo evidente nel libro "Faccia da turco" di Gunther Wallraff (Tullio Pironti Editore, Salerno 1986, pagg. 256, L. 16.000) che racconta l'esperienza allucinante di un giornalista tedesco travestitosi da turco.
Che cosa è un turco? Non certo un uomo. È un essere che può essere offeso, ridicolizzato, insultato, sfruttato, ridotto ad un pagliaccio. La sua vita può essere messa tranquillamente a repentaglio senza un perché, senza un attimo di solidarietà. Ce ne sono altri come lui, pronti a subire le stesse cose e anche peggio. Non sono uomini.
Non c'è la costrizione, nella Germania libera, c'è chi segue liberamente la strada del sopruso, del disprezzo, del silenzio, del non so, non voglio sapere, dell'accettazione. Una strada antica e sempre rinnovata. Non è solo in Germania, non è un male solo tedesco, è l'Europa intera, il mondo in cui seguono liberamente, per convinzione o per convenienza o per conformismo o per altro ancora le strade oscure del demone.
Ovunque, c'è sempre un "altro" con la pelle un po' più scura o un po' più chiara, con gli occhi di un altro colore, con tradizioni diverse, che mangia in altro modo, che non dorme come noi, un "altro" che ci vive accanto, che è pronto per vestire i panni della vittima sacrificale, del non-uomo perché qualcun altro di noi possa essere il dio oscuro e con lui e in lui, altri si sentano ancora una volta inebriati dal profumo del potere, oltre ogni limite.