Rivista Anarchica Online
Shoah,
l'annientamento
di Maria Teresa Romiti
"Ho cercato
anche, inutilmente, di capire. Di trovare un nesso logico, una
spiegazione ad uno sterminio perpetuato nell'indifferenza, nel
silenzio, nell'accettazione passiva. Ma esiste poi una spiegazione?".
Interrogativi e considerazioni dopo la trasmissione sulla Rete 3
dello scomodo documentario "Shoah".
"Simili a
formiche andiamo dentro ogni fuoco. Ogni acqua. Ogni fiume di sangue.
Solo per non dover vedere. Che cosa? Noi."
Christa Wolfe, Cassandra.
Esistono cose che
non possono essere tradotte in parole, almeno in parole razionali.
Purtroppo o per fortuna. Appartengono ad un altro livello. Sono stata tra i
pochi che hanno potuto vedere le quattro puntate di "Shoah"
(annientamento), trasmesso lo scorso dicembre ad un'ora
incredibilmente tarda sulla Rete Tre (basta poco per passare sotto
silenzio ciò che è scomodo e poi non si devono sconvolgere troppo
le coscienze con certi spettacoli). Ho sentito i sopravvissuti
raccontare il raccontabile, ho visto i loro silenzi. Ho sentito la
voce che si rompe di fronte ad un orrore che è oltre le parole. Ma
anche il silenzio può parlare. Ho cercato anche,
inutilmente, di capire. Di trovare un nesso logico, una spiegazione
ad uno sterminio perpetrato nell'indifferenza, nel silenzio,
nell'accettazione passiva. Ma esiste poi una spiegazione? Si possono
spiegare razionalmente gli incubi che ci attanagliano nel buio
profondo della notte? È possibile che l'incubo sia potuto diventare
realtà? Non ci sono
spiegazioni. E Shoah non le ha tentate. Solo il ricordo di un orrore
che supera qualsiasi immaginazione, perché almeno si possa dire:
"Mai più, mai più accada una cosa simile!". Speranza
vana, altri orrori, simili, in altro luogo, in altro tempo, sono
accaduti, dopo. Accadranno ancora? Erano esseri umani:
donne, uomini, bambini. Esseri umani come siamo noi, come erano anche
coloro che li uccisero o che ordinarono la loro morte. Una morte
decisa a tavolino, pianificata, organizzata, messa a punto con
metodo, come la catena di montaggio di una fabbrica: nelle camere a
gas fino a tremila persone alla volta, a ritmo continuo. Possono le
parole portare alla mente immagini simili? La fabbrica dell'eccidio.
Si organizzarono censimenti, per non perdere nessuno, si costruirono
ghetti, perché non fuggissero, non potessero nascondersi, si
uccisero con la fame, la malattia, si fecero viaggiare i treni per
coloro che si ostinavano a vivere, si spedirono come pacchi postali,
peggio di animali (gli animali servono, costano, quindi valgono.
Quanto vale la vita di un essere umano?), si recuperò tutto il
recuperabile: vestiti, capelli, scarpe, oro, si uccisero. Perché? Non per odio (non
si può odiare realmente un popolo intero, una cultura, non si odiano
le astrazioni), non per rabbia o ira (sentimenti, non applicabili a
generalizzazioni), non per calcolo (quale calcolo, quale logica?),
senza motivi, senza giustificazioni, senza cause. Oltre la
razionalità. Uccidere per uccidere, uccidere perché così era stato
deciso, così veniva ordinato. La macchina
cominciò a girare lentamente, con difficoltà (programmando eccidi
di massa diventa un problema anche come far sparire i cadaveri:
l'igiene ha le sue regole), poi girò sempre meglio, sempre più
lubrificata, senza intoppi. Un mondo alla rovescia dove tutto era
programmato per distruggere, non per creare, per uccidere, non per
vivere. E gli uomini che
lavorarono alla macchina, per anni, come riuscirono a non impazzire,
a non farsi domande, a darsi giustificazioni inesistenti? Potevano
tenere lontano i fantasmi nell'ora dell'oblio, quando il sonno arriva
leggero, così simile alla morte, loro che avevano ucciso il sonno?
Perché sapevano cosa stavano facendo. Si può tentare di
giustificarsi dicendo: "Io non ne sapevo nulla", "Cosa mai
potevo fare io?", forse anche, ma attenti a non farsi sentire,
"In fondo non sono uomini", ma può funzionare? I treni che
arrivavano pieni e ripartivano vuoti, l'odore della carne bruciata,
da macello, i mucchi immani di vestiti, di scarpe, di oggetti che
fino a poche ore prima erano appartenuti ad esseri viventi. Eppure lo
sapevano che non c'erano giustificazioni, per questo era obbligatorio
usare sempre eufemismi, nelle circolari come nelle parole. Erano la
merce, i pacchi, i numeri, le cose , era la soluzione finale. Per
questo era imperativo che il mondo non vedesse, non sapesse, o
facesse finta di non vedere, di non sapere. Certo si può
tentare di convincersi che si sta solo ubbidendo ad un ordine,
evitando di farsi troppe domande. Si possono giustificare i ghetti
come misure igieniche contro epidemie, si può dire che fu la
necessità della guerra, si può dire che non erano esseri umani. Ma poi, quando uno
se li vedeva davanti: due braccia, due gambe, due occhi, un naso, una
bocca.., magari più magri, più scavati, non erano tanto alieni.
Quali erano le ginnastiche mentali per scacciare l'orrore di fronte
ai mucchi di cadaveri? Si fa l'abitudine a tutto? Forse dovevano
nascondere i cadaveri prima di tutto a se stessi. E alla fine alla
macchina collaborarono le stesse vittime: incapaci di credere ad
un'esperienza così oltre l'umano, troppo stanche, affamate,
assetate, stordite, troppo passive per ribellarsi, pronte ad
accettare il rito sacrificale. Costrette a vivere un incubo da cui
prima o poi, urla la mente, ci si deve svegliare, e se non ci si può
svegliare che almeno finisca. Forse, alla fine, quasi anelanti perché
la morte può essere anche una liberazione. A volte, alcune, pronte a
qualsiasi cosa pur di guadagnarsi qualche mese di vita, qualche
giorno, qualche ora, anche passare sopra la testa dei compagni. È
possibile cercare la solidarietà oltre i limiti dell'umano, quando
si è sospesi tra morte e fame, sete e stanchezza? Anche la
sopravvivenza è umana. È
vero che non fu il primo genocidio della storia. L'uomo è un animale
che si ripete. I Romani e i Greci avevano i loro delitti sulla
coscienza: i catari, i patarini e tutti gli altri eretici (e non solo
loro) erano stati uccisi in orge di sangue. Nel Nuovo Mondo gli
Europei avevano lasciato una scia di sangue, un segno rosso che li
accompagnò nel mondo ovunque andarono. Tra i deliri della conquista
della civiltà, era comunque rintracciabile una motivazione. Spesso
prosaica, bassa, ma pur sempre una ragione alla quale la mente può
aggrapparsi. Non giustificare, ma capire. Capire che è anche
comprendere (prendere con, nel nome di una stessa umanità). C'era la
conquista, il calcolo, l'avidità di terre e tesori, più o meno
presunti, lo sfruttamento dell'uomo, il fanatismo religioso. Era la
repressione nel sangue della rivolta, del no. Con l'Olocausto si va
oltre il senso, oltre il delirio, nel mondo oscuro dei nostri
fantasmi, dei mostri delle nostre menti. Ed è forse qui,
alla fine del percorso, oltre ogni logica, al di fuori del razionale
e dell'umano che si può trovare un senso.
Il dominio e
basta
Il lager, ogni
lager, era il simbolo vivente e vissuto del dominio al suo stadio
brutale, il dominio e basta. L'obbedienza assoluta, cieca, senza
perché veniva riproposta ostinatamente, continuamente. Una piramide
che riproduceva ad ogni gradino se stessa. Il rituale dell'ordine
esterno, il dovere di dire sì, solo sì, sempre, oltre ogni limite,
fino alla morte, oltre essa. La violenza gratuita e ingiustificata
che genera terrore, che ripropone il paradigma: è così perché è
così , perché così deve essere. Non esisteva
spiegazione, non c'era perché, vita e morte giocate ai dadi, decise
da un dio dalla faccia irata, dio della morte, dio contro la vita.
Rituale macabro e ossessivo per i vivi, quasi morti, e per i morti.
Rito che cancellava completamente l'umano, il vitale. Gli dei
chiedevano il prezzo del sangue e del dolore per dimostrare la loro
esistenza. Le vittime dovevano accettare, protagoniste nolenti del
mito oscuro. Ed esse accettavano (poteva essere diversamente?),
recitavano in prima persona il racconto mitico del potere al suo
estremo limite. È
per questo, forse, che a guerra finita si è cercato di dimenticare,
tutti. È difficile
guardare negli occhi il dio irato, la sua faccia oscura. Un episodio di
pazzia, nessuno sapeva. Troppo difficile convivere con il ricordo. È
importante invece ricordare, Shoah è nato per questo. L'oblio non è
una soluzione, si deve ricordare senza retorica, senza vergogna,
bisogna guardare in faccia il dio per riconoscersi esseri umani e
scoprire che il dio non è divino, non è neppure umano, è solo un
grumo senza nome uscito dagli abissi. Altri massacri si
sono perpetrati, alcuni dello stesso segno, con rituali simili. La
ripetizione coatta del simbolo. Sarà ancora così finché il mito
sarà tra noi. A volte avrà aspetti meno orridi, altre riprenderà
virulenza, ma è qui, demone d'ombra.
Faccia da turco
L'ho visto e
sentito anche in questi giorni, l'ho scorto tra le righe della
notizia che il latte radioattivo può essere tranquillamente venduto
nel terzo mondo (sono forse esseri umani come noi?), l'ho rivisto
occhieggiare dalla legge svedese che fino al 1975 ha permesso la
sterilizzazione coatta di chi presentava disturbi e devianze fisiche
o psichiche (la "razza" deve essere pura!), mi è apparso
fin troppo evidente nel libro "Faccia da turco" di Gunther
Wallraff (Tullio Pironti Editore, Salerno 1986, pagg. 256, L. 16.000)
che racconta l'esperienza allucinante di un giornalista tedesco
travestitosi da turco. Che cosa è un
turco? Non certo un uomo. È un essere che può essere offeso,
ridicolizzato, insultato, sfruttato, ridotto ad un pagliaccio. La sua
vita può essere messa tranquillamente a repentaglio senza un perché,
senza un attimo di solidarietà. Ce ne sono altri come lui, pronti a
subire le stesse cose e anche peggio. Non sono uomini. Non c'è la
costrizione, nella Germania libera, c'è chi segue liberamente la
strada del sopruso, del disprezzo, del silenzio, del non so, non
voglio sapere, dell'accettazione. Una strada antica e sempre
rinnovata. Non è solo in Germania, non è un male solo tedesco, è
l'Europa intera, il mondo in cui seguono liberamente, per convinzione
o per convenienza o per conformismo o per altro ancora le strade
oscure del demone. Ovunque, c'è
sempre un "altro" con la pelle un po' più scura o un po'
più chiara, con gli occhi di un altro colore, con tradizioni
diverse, che mangia in altro modo, che non dorme come noi, un "altro"
che ci vive accanto, che è pronto per vestire i panni della vittima
sacrificale, del non-uomo perché qualcun altro di noi possa essere
il dio oscuro e con lui e in lui, altri si sentano ancora una volta
inebriati dal profumo del potere, oltre ogni limite.
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